La clinica in-difesa e la cura della persona – Giovanni Murialdo

Giovanni Murialdo. Docente di Medicina Interna – Dipartimento di Medicina Interna e Specialità Mediche (DIMI), Università degli Studi di Genova

Correspondence to: gmurialdo@unige.it

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In una società complessa in rapida evoluzione, quale quella attuale, la medicina ha assunto un ruolo sociale di grande rilevanza, chela vede impegnata quale principalestrumento indirizzato a garantire la salute, attraverso il trasferimento nella pratica clinica degli sviluppi della ricerca scientifica, la prevenzione e la cura delle malattie. Tuttavia, in una società sempre più tendente verso la laicizzazione del potere politico e dello stato, al medico ed alla medicina è stato gradualmente attribuito anche un ruolo di garante e “custode” dei momenti essenziali della vita, quali in primis la nascita e la morte. Ne è derivata una visione della medicina ampiamente diffusa in molti contesti sociali del mondo occidentale, quale scienza alla quale non è più concesso il fallimento diagnostico e terapeutico.

Nonostante i grandi progressi scientifici, tecnologici e metodologici e l’indubbio prolungamento della durata della vita che si sono registrati negli ultimi decenni, la difficoltà diagnostica di molte condizioni complesse e l’insuccesso terapeutico rimangono una realtà con la quale occorre con grande umiltà quotidianamente confrontarci. Accanto a questi limiti obiettivi ancora insiti nel sistema e nel rapporto di cura, occorre continuare a considerare quel grande problema costituito dall’errore clinico, i cui reali connotati per vari motivi rimangono in larga misura indefiniti e di difficile quantificazione, confermando come la medicina attuale rimanga una scienza ancora in larga misura legata ad una rilevante ed ineludibile soggettività individuale delle valutazioni e delle decisioni terapeutiche. Essa è inoltre condizionata da una crescita esponenziale delle conoscenze, che ormai sfugge alla possibilità di controllo da parte del singolo soggetto, creandosi uno stato di permanente “gap” culturale.

L’impatto dell’errore clinico nella pratica assistenziale corrente rimanedi difficile quantificazione in quanto i suoi effetti risultano frequentemente omessi o mascherati nelle codifiche dei report di dimissione o decesso, che specificano le complicanze cliniche derivanti dalla “malpractice”, ma con poche eccezioni ne evidenziano la causa determinante.

Recenti dati, pubblicati da un’importante rivista scientifica come il British Medical Journal sempre molto attenta ai problemi metodologici della pratica medica, hanno quantificato in 251.000 su un totale di 2.597.000 le morti avvenute nel 2013 per errore clinico negli Stati Uniti. Esse vengono subito dopo alle cause cardiovascolari eda quelle per cancro, ma sono più numerose rispetto a quelle per bronchite cronica ostruttiva, suicidio, ferite da armi da fuoco e incidenti stradali (Makary, Daniel 2016).

Si tratta di un dato relativo ad un ben definito contesto socio-economico ed assistenziale, quale quello statunitense, di non immediata estensione ad altri sistemi sanitari del mondo occidentale per i quali il problema rimane non esattamente definito e quantificato nella sua reale entità, inclusiva degli effetti avversi a terapie farmacologiche e della morbilità e mortalità connessa al sempre più diffuso impiego in clinica di mezzi di contrasto diagnostici.

Le difficoltà di una più immediata definizione dell’impatto dell’errore clinico deriva anche dal fatto che l’ICD-10 e gli altri sistemi di codifica delle entità morbose hanno una limitata capacità a cogliere la maggior parte di condizioni legate ad errore clinico, con la sola eccezione di alcune intossicazioni da farmaci (digitale, anticoagulanti orali, overdose di morfina e altre sostanze), ma non sia presente una specifica codifica riguardante l’errore clinico, anche per le evidenti ripercussioni di ordine medico-legale e assicurativo.

Comunque occorre sottolineare come l’errore, quale non irrilevante causa di morte, risulti ancora un’entità misconosciuta se non evitatain molte realtà sanitarie, dove rimane sfuocata una cultura “positiva” del riconoscimento e del controllo del rischio clinico.

Una migliore identificazione e quantificazione dell’impatto dell’errore clinico sull’“outcome” dei malati dovrebbe infatti portare ad un momento positivo di crescita, basato sulla creazione di una cultura dell’apprendimento partendo dal riconoscimento delle cause dei propri sbagli.

Il modello per ridurre il rischio di errore al quale è esposto il malato è infatti focalizzato su tre diversi livelli che incidono sulle “responsabilità individuali”, da un lato, e sulle “responsabilità del sistema sanitario”, dall’altro. Il primo di questi livelli è incentrato sulla visibilità dell’errore, il secondo sulla risposta all’errore e sul recupero della situazione, il terzo sulle procedure per rendere l’errore meno frequente (Reason 2000; Makary, Daniel 2016).

Anche per il dovuto rispetto etico della persona oggetto dell’errore, in un sistema che rimane comunque fallibile, solo attraverso la creazione e diffusione capillare di una cultura dell’errore clinico e sulla misurazione attenta delle conseguenze delle cure mediche sugli “outcomes” del malato si possono porre le basi per un approccio corretto all’apprendimento dai propri errori, incrementando la cultura della sicurezza e la creazione di un più efficace sistema di rivisitazione e apprendimento.

A questa visione culturale, scientifica e formativa dell’errore clinico corrisponde attualmente un approccio rivolto più che ad evitare il problema a limitarne le possibili conseguenze sul singolo medico e/o sul sistema sanitario. Questa impropria pratica clinica, che si configura nella cosiddetta “Medicina difensiva”, è quindi finalizzata principalmente alla tutela del medico causando un elevato indice di non appropriatezza delle prescrizioni e un uso deformato del consenso informato. L’eccesso di prescrizioni diagnostiche e terapeutiche non supportate dall’evidenza scientifica comporta non soltanto un aumento della spesa sanitaria, ma anche una maggiore esposizione della persona agli effetti avversi insiti in alcune procedure diagnostiche o in terapie non indicate. Dall’altro lato, un consenso teso principalmente alla tutela dell’operatore piuttosto che alla piena informazione e condivisione delle scelte diagnostiche e terapeutiche costituisce una aberrante attuazione ed una inaccettabile manipolazione di questo fondamentale principio della medicina moderna, sul quale si deve fondare la relazione di cura.

Una recente indagine condotta dall’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas) del Ministero della Salute ha evidenziato e tentato di quantificare le cause e le motivazioni che generano atteggiamenti riconducibili alla medicina difensiva nel nostro sistema sanitario. Esse possono essere ricondotte, in ordine decrescente d’importanza, alla legislazione sfavorevole per il professionista medico (31%), al rischio di essere citato in giudizio e di incorrere in procedimenti legali per “malpractice” (16%), al rischio di compromettere la propria carriera e alla conseguente perdita d’immagine professionale (12%), alla pressione esercitata dall’opinione pubblica e dai mass-media (11%), alla sfiducia nella tutela assicurativa e/o all’incremento dei costi assicurativi (7%), alla sfiducia nella tutela da parte della propria amministrazione (7%), al rischio di subire una richiesta di risarcimento dei danni (6%), allo sbilanciamento del rapporto medico-paziente per eccessive pressioni e aspettative del paziente e dei familiari (5%), alla percezione di dover sopperire a carenze organizzative sanitarie del proprio settore (5%) (Agenas 2015).

A queste motivazioni corrispondono comportamenti impropri con importanti ricadute sul singolo malato: eccesso di prescrizione di esami di laboratorio, strumentali e altri test diagnostici; eccessivo ricorso alle visite specialistiche con frammentazione del problema clinico e del singolo malato; una eccessiva prescrizione di farmaci; l’evitamento alla presa in carico di malati con elevata complessità ed elevato rischio di complicanze; la loro esclusione da terapie potenzialmente efficaci ma ad alto rischio di effetti avversi; l’eccessivo improprio ricorso al pronto soccorsoe alle strutture deputate all’emergenza per indagini diagnostiche e ricoveri in ospedale.

Le azioni personali attuabili ai fini di modificare i comportamenti assistenziali connessi alla medicina difensiva possono essere distinte in due diverse categorie: la prima è legata all’adesione a protocolli medici specifici e all’adozione di atteggiamenti diagnostici e terapeutici basati su appropriate evidenze cliniche. Strettamente correlata a questo primo aspetto è la necessità di produrre e gestire una documentazione clinica sanitaria adeguata e il mantenimento di un diario clinico aggiornato.

Tuttavia, è risultato sicuramente importante l’editoriale pubblicato dal direttore di Agenas Francesco Bevere, nel quale -anche richiamando il codice deontologico- si auspicava fortemente la necessità di pervenire ad un controllo del fenomeno ripartendo da una ridefinizione del rapporto tra medico e persona curata e ponendo in primo piano la centralità del malato (Bevere 2015).

D’altro canto, una correzione ed un contrasto alla medicina difensiva investono in prima persona il comportamento personale del medico e/o del professionista sanitario, che da un lato deve essere eticamente impegnato nel continuo aggiornamento delle proprie conoscenze scientifiche, abilità e capacità, dall’altro deve adottare una appropriata comunicazione verbale e non-verbale con ogni assistito,indirizzata non solo verso il malato ma anche adottata nelle relazioni multi-professionali e multi-disciplinari. Presupposto fondamentale per una corretta comunicazione rimane comunque un deciso rafforzamento dei valori etico-professionali del medico e la chiara definizione del rispetto assoluto e mai relativo della dignità ed integrità della singola persona.

Infine, occorre sottolineare la rilevanza e la grande utilità dell’attuazione di audit medici regolari e sistematici e la necessità di pervenire ad una inderogabile e al contempo non colpevolizzante segnalazione degli errori medici, quali momenti sicuramente controllabili e riducibili, ma ancora non eliminabili totalmente all’interno del sistema (Panella et al., 2015). In questo senso, il recupero di un corretto rapporto tra curante e persona curata e la riaffermazione del malato quale entità individuale e unica devono costituire un presupposto culturale primario nel processo di crescita delle pratiche assistenziali, da attuarsi anche attraverso un sistematico coinvolgimento del malato e del contesto parentale, o comunque dell’avente diritto, nelle scelte diagnostiche e terapeutiche più complesse.

Il troppo frequente richiamo al quale siamo sottoposti circa la necessità di un più ampio recupero del rapporto tra medico e persona malata, sia nell’ambito della formazione dei professionisti nei corsi di laurea, sia per quanto riguarda il rispetto della deontologia medica nella pratica quotidiana, sottolinea il fatto che non si sia ancora pervenuti ad una soddisfacente ridefinizione del problema. In questo senso non mi sento di condividere la visione da molti auspicata di un recupero della professionalità e del cosiddetto “rapporto medico-paziente”, permeato di una vena paternalistica, sul quale si fondava la medicina in un passato anche non molto lontano.

La medicina attuale e la crescente complessità in essa insita necessitano infatti di una definizione non tanto antiquaria e pre-tecnologica, quanto piuttosto fondata su nuove interrelazioni e connotazioni del rapporto che deve esistere tra la persona che ha in cura -o in molti casi le persone che hanno in cura il malato- e la persona che richiede di essere curata o che alle prime è stata affidata per essere curata. Il momento fondativo di questo nuovo rapporto deve comunque essere costituito dal riconoscimento incondizionato del diritto di ogni singolo individuo non solo genericamente alla salute e all’accesso alle cure, quanto piuttosto alla tutela della propria integrità e dignità personale, nonché al diritto di conoscenza del proprio stato di salute e di condivisione responsabile delle scelte sulla base di un consenso comprensibile e pienamente informato.

Troppo spesso cerchiamo di ripristinare logiche e relazioni appartenenti al passato in un sistema che si è rapidamente e drasticamente modificato nelle sue prassi assistenziali. Basti in questo senso pensare all’impatto che hanno avuto sulla medicina attuale l’introduzione di nuove tecnologie e soprattutto l’avvento di un modello nuovo nella pratica clinica, quale quello costituito dalla “Medicina basata sulla prova di efficacia”, meglio noto col termine di “Evidence-based Medicine” (EBM). Dopo l’iniziale intuizione e i primi approcci metodologici forniti da Archibald L.Cochrane (1909-1988), la EBM si è sviluppata soprattutto per la inderogabilenecessità di gestione razionale di una dirompente crescita dell’informazione derivante dalla ricerca biomedica e di una più attenta ed obiettiva “governance” clinica, anche in considerazione della maggiore efficacia delle nuove terapie disponibili e della maggiorecomplessità delle procedure diagnostiche e terapeutiche.

Questa innovativa visione didattica e metodologicaha sicuramente portato all’abbandono di molte delle precedenti terapie derivanti da studi non controllati e consentito il superamento di un approccio diagnostico-terapeutico basato esclusivamente sulla soggettività delle scelte e delle decisioni, indirizzandolo verso modelli supportati da regole scientifiche e inducendo un cambiamento per molti versi virtuoso.

Nelle sue connotazioni originarie, la EBM costituiva infatti “… un approccio alla pratica clinica dove le decisioni cliniche risultano dall’integrazione tra l’esperienza del medico e l’utilizzo coscienzioso, esplicito e giudizioso delle migliori evidenze scientifiche disponibili, mediate dalle preferenze del paziente” e indirizzate verso la definizione della migliore cura per il singolo caso (Sackettet al, 1996).

La EBM trova i suoi presupposti nell’epidemiologia clinica, nell’analisi dei dati clinici su grandi popolazioni quali quelle derivanti -in modo decrescente- da metanalisi, da studi clinici randomizzati in doppio cieco o da studi di coorte. La popolazione o la coorte formate da soggetti il più possibile omogenei per condizioni e patologie costituiscono il presupposto essenziale della EBM e il terreno sul quale essa opera. Incontra invece maggiori difficoltà di fronte a situazioni che si collocano agli estremi anagrafici della vita -quali l’età pediatrica e il grande anziano-, nelle sempre più frequenti poli-patologie e conseguenti poli-terapie legate alla cronicizzazione di molte condizioni morbose, nelle situazioni cliniche di emergenza o nella gravidanza dove è più difficile condurre studi controllati, nelle malattie rare per le quali è minore l’interesse verso un investimento nella ricerca di nuove terapie.

Si è quindi parlato di una “crisi” dell’EBM, non solo dovuta alle situazioni precedentemente accennate, ma anche al crescente condizionamento esercitato da potenti portatori di interessi economici nella programmazione degli studi clinici controllati e nella selezione dell’informazione al momento della sua ricaduta nella pratica clinica.

Nonostante i suoi originari presupposti e l’iniziale indirizzo concettuale rivolto verso la cura del singolo soggetto, la EBM ha tuttavia insito in se stessa il ridimensionamento dell’entità del malato quale singolo individuo, caratterizzato da un proprio patrimonio culturale e da una definita entità personale, uniformandolo e omologandolo a una realtà statistica astratta e teorica, costituita dalla coorte di persone che presentavano quel determinato problema o che erano sottoposte a quella determinata terapia o procedura diagnostica. È questo il necessario fenomeno di omologazione dei casi clinici insito nella piramide delle evidenze scientifiche, che vede al vertice le revisioni sistematiche e le meta-analisi, seguite dagli studi in doppio cieco randomizzati e controllati per proseguire con gli studi di coorte fino ai “case report” ed alle evidenze sperimentali di laboratorio e sperimentali.

Senza ovviamente voler giungere a rinnegare il valore dell’EBM, riferimento ineludibile della medicina del terzo millennio e strumento di riferimento per una corretta prassi medica e assistenziale, da alcuni anni si è iniziato ad avvertire l’esigenza di una sua rimodulazione con una maggiore focalizzazione dell’interesse sul malato, con una rivalutazione degli aspetti etici e professionali in un processo direvisione critica degli automatismi connessi all’evidenza scientifica quale principale riferimento per la diagnosi e cura.

Questo aspetto è stato in parte raggiunto con l’introduzione di sistemi di valutazione della qualità della letteratura scientifica, come il sistema SORT (“Strenght of Recommendation Taxonomy”), basato su un approccio incentrato sul malato per definire il “grading” dell’evidenza fornita dai dati della letteratura. Il sistema SORT enfatizza studi che hanno effettivamente consentito un prolungamento o un miglioramento di vita, una riduzione di morbilità e mortalità, un miglioramento dei sintomi o comunque minori costi. In questo modo, rivalorizzando la centralità del malato nella definizione dei percorsi diagnostico terapeutici e nella pianificazione centralizzata dei processi sanitari, si è sicuramente cercato di correggere la rigidità di un sistema che rimane comunque fondato su un approccio epidemiologico e statistico ai problemi clinici (Ebell et al. 2004).

Nel 2014, è stata posta la domanda se dopo molti anni di sviluppo e di progressiva affermazione nella pratica clinica corrente, la EBM fosse ormai un movimento in crisi (Greenalgh et al., 2014). I principali aspetti sui quali si basava questa visione nei confronti dell’attuale applicazione acritica della EBM possono essere ricondotti al fatto che il “marchio di qualità” della EBM è stato adottato in modo improprio da alcuni influentiportatori di interessi costituiti. Inoltre il volume dell’evidenza, in special modo costituito da ponderose linee guida, è ormai divenuto ingestibile nella pratica clinica corrente e necessita di essere tradotto in più agili percorsi diagnostico-terapeutici e assistenziali o in suggerimenti-indicazioni redatti in forma breve.

Inoltre, i vantaggi in termini statistici proposti in molti studi possono risultare marginali nella pratica clinica, mentre una rigidità delle scelte e indicazioni imposte da vecchie e nuove tecnologie possono portare più ad una medicina nella quale prevalgono gli aspetti di gestione tecnocratica dei problemi clinici piuttosto che attenta agli effettivi bisogni del malato.

A queste obiettive limitazioni insite nell’EBM occorre aggiungere il fatto che, per definizione, essa è basata sullo studio popolazionistico, concettualmente antitetico verso una visione della medicina indirizzata verso la cura della singola persona. La prospettiva attuale dovrebbe quindi incentrarsi su un tentativo di coniugare la EBM con l’attenzione verso il singolo individuo in quello che è stato definito come un “rinascimento” in senso umanistico della EBM: “Evidence-based medicine was originally describedas a revolution in medicine. Its renaissance will require changes in research and practice that are no less radical” (Fuller et al., 2014).

Su posizioni antitetiche con la EBM si pone la “Medicina basata sulla narrazione”, o “Narrative Medicine”, introdotta ad Harvard presso la Columbia University da Rita Charon. Per essa è fondamentale il rapporto col singolo individuo e il suo ruolo nella descrizione della propria esperienza esistenziale (Charon, 2001a; 2001b). In questo senso, “la pratica medica richiede competenze narrative, che derivano dall’abilità a conoscere, fare proprie, interpretare e interagire con le storie e le situazioni di altre persone” proponendosi, sulla base di competenze narrative,come un modello per una pratica medica umana ed efficace, che si ripercuote in un miglioramento non solo del rapporto tra il medico e il malato, ma anche del rapporto del medico o del professionista della salute con se stesso, con i propri colleghi e con il contesto sociale nel quale è chiamato ad operare.

Attraverso il ruolo cardinale che riveste l’interrelazione con i vissuti del singolo individuo, la “Medicina basata sulla narrazione” offre l’opportunità di riprendere in chiave attuale le antiche prassi mediche e generare un rapporto di cura basato sul rispetto reciproco e l’empatia tra chi si fa carico della cura e chi richiede di essere curato in un processo di accompagnamento attraverso la malattia.

Si tratta quindi di una visuale esperienziale profondamente personale, largamente fondata sull’insegnamento e sull’approfondimento di “Medical humanities” e lontana, se non concettualmente antitetica rispetto a quella “Medicina di precisione”, o “Precision medicine”, che si configura come il paradigma di riferimento della medicina dell’immediato futuro. La “Precision medicine” ha ricevuto grande enfasi e un innegabile impulso nel momento in cui è stata introdotta dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama nel suo discorso sullo Stato dell’Unione tenuto il 20 gennaio 2015 davanti al Congresso a sezioni riunite: “Tonight, I’m launching a new Precision medicine Initiative to bring us closer to curing diseases like cancer and diabetes – and to giveall of us access to the personalized information we need to keep ourselves and our families healthier”.

A queste dichiarazioni si accompagnava un budget presidenziale di 216 milioni di dollari, destinato a sviluppare un migliore trattamento del cancro e di altre gravi condizioni, che impattano sullo stato di salute delle popolazioni delle società più sviluppate (Collins, Varmus, 2015).

Grazie alla biologia molecolare e alla definizione genomica del singolo individuo, la “Precision medicine” intende creare una cesura con un passato imperniato su un approccio terapeutico standardizzato per una popolazione affetta da una determinata patologia e definire nei singoli casi una terapia specifica per le singole situazioni patologiche, definite sulla base delle conoscenze molecolari non solo della malattia ma anche dell’individuo affetto, consentendo quindi il passaggio da una “Medicina di precisione” ad una“Medicina personalizzata”, basata su“… the tailoring of medical treatment to the individual characteristics of each patient”.

La prospettiva è quella di adattamento alla singola situazione degli studi epidemiologici di popolazione e di coorte attraverso un differente approccio conoscitivo basato su trial clinici focalizzati sul singolo individuo piuttosto che sulla risposta terapeutica media analizzata in un ampio gruppo di soggetti trattati (Schork, 2015).

Nonostante queste importanti evoluzioni che sta vivendo una scienza bio-medica ed una pratica clinica in perenne transizione e trasformazione, si avverte la necessità ineludibile di una medicina della post-modernità basata su un modello bio-umanistico, che dovrebbe essere innanzitutto fondato sul presupposto etico, filosofico e morale del rispetto e dell’integrità di ogni singolo individuo, ma anche recettiva di tutti quegli aspetti attualmente declinati in una nebulosa di definizioni, che in una sorte di moderna “torre di Babele” riflettono i molti approcci concettuali e metodologici con i quali si frantuma la medicina attuale dimenticando lo scopo ultimo di ogni nostra azione: quello di interpretare e curare nel modo più efficace –e col minor utilizzo di risorse- la persona malata o prevenire l’insorgenza di malattie.

I tanti aspetti epistemologici con i quali oggi si fraziona la pratica medica (Evidence-Based, Comprehensive, Defensive, Precision, Personalized, Narrative, Etiquette-Based, Knowledge-Based, Slow medicine, etc.) tanto per citarne solo alcuni, dovrebbero forse confluire e dare vita ad una sintesi che dovrebbe portare ad una “Good medicine” nella quale si coniughino gli aspetti scientifici più avanzati, la tradizione medica aggiornata ed in continua evoluzione sulla base dell’evidenza, una salda concezione umanistica e una attenta visione sociale dei problemi.

Una “buona medicina” deve infatti sicuramente essere indirizzata dalla ricerca scientifica biomedica, genomica e clinica; deve essere basata sull’evidenza e tenere la EBM in mente, applicandola criticamente ed adattandola alle singole situazioni cliniche; deve modificare e aggiornare regolarmente le proprie procedure anche attraverso lo sviluppo di “Disease Management Team” (DMT) e di percorsi diagnostico-terapeutici. Inoltre, essa deve mantenere quelle attenzioni verso la singola persona e quindi cogliere i grandi vantaggi di una medicina basata sulla narrazione, ma anche avviandosi verso la visione di un immediato futuro nel quale i presupposti biologici del singolo individuo saranno fondamentali per una precisione della cura di importanti malattie e della loro prevenzione.

È quindi una visione dell’individuo basata sull’identità genetica e biologica del singolo soggetto, nonché su un progetto di finanziamento della ricerca connessa alla “Precision medicine” destinato probabilmente a modificare l’approccio terapeutico di molte gravi patologie nel volgere di alcuni anni. Rimane sullo sfondo il problema etico di un effettivo miglioramento dell’efficacia terapeutica di cure personalizzate limitato a chi potrà realmente fruire di queste terapie, ponendo in secondo piano una realtà planetaria nella quale molti milioni di persone non hanno ancora accesso a terapie convenzionali.

L’appropriatezza dei comportamenti dovrà infine sostituire la medicina difensiva introducendo il concetto che un uso corretto di risorse limitate non è tanto un problema di gestione economica dei sistemi sanitari, quanto piuttosto-se non soprattutto- un aspetto etico necessario per fornire le cure migliori al maggior numero possibile delle persone, che di esse effettivamente hanno bisogno.

Infine, la medicina attuale deve necessariamente operare un più pieno recupero della persona, nella sua integrità e dignità, quale soggetto privilegiato del suo interesse scientifico, clinico, etico e filosofico. Paradossalmente la recente definizione di una “Medicina di precisione” o “personalizzata” è incentrata più sugli aspetti genetici e molecolari, che determinano l’unicità biologica del singolo individuo, piuttosto che su una visione olistica dell’individuo nella sua complessità ed unicità anche esistenziale.

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