La cura e l’irriducibile durezza della realtà – Sergio Belardinelli

Sergio Belardinelli. Professore Ordinario, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università di Bologna

Correspondence to: sebelar@tin.it

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Il titolo che ho scelto per questo mio intervento appare forse abbastanza scontato, specialmente a coloro che considerano la cura come una pratica che cerca in qualche modo di ristabilire un equilibrio, diciamo così, “normale” o “naturale”. Il mio titolo acquista invece un carattere provocatorio se teniamo conto di un certo modo di pensare, divenuto dominante, per il quale la cura di una malattia sembra seguire ormai altre strade. Come ha scritto Nikolas Rose, “Tutto ciò che poteva auspicare la medicina era di arrestare l’anormalità, di ristabilire la norma vitale naturale e la normatività del corpo che la supportava. Ma queste norme non sembrano più ineluttabili, queste normatività paiono aperte al cambiamento. Una volta che si sia stati testimoni degli effetti dei farmaci psichiatrici nel riconfigurare le soglie, le norme, la mutevolezza delle emozioni, della cognizione, della volontà, è difficile immaginare un sé che non sia aperto alla modificazione per tale via”. (Rose 2007, 26).

Più che alla cura, e quindi alla realtà, gran parte dell’odierna medicina sembra dunque orientata alla trasformazione e allo spostamento dei limiti umani. E Rose, coerentemente, sostituisce la parola “cura” con “tecnologia di potenziamento della vita”. La medicina viene assorbita, smarrendo le sue peculiarità, in una politica della vita, il cui scopo è l’ottimizzazione delle prestazioni umane: è la cosiddetta medicina dell’enhancement. “Le tecnologie contemporanee della vita –è sempre Rose a dirlo-non sono più delimitate, se mai lo sono state, dal binomio salute/malattia. Tale binomio resta ma, al di là di esso, oggi, molti interventi cercano di agire sul presente per assicurare il miglior futuro possibile a coloro che ne sono l’oggetto. Queste tecnologie, inevitabilmente, incarnano visioni controverse di ciò che, nella vita umana individuale e/o collettiva, può infatti essere uno stato ottimale” (Rose 2007, 9). Detto con parole più prosaiche, nanotecnologie, neuroscienze, protesi fisiche e neuronali sempre più sofisticate stanno aprendo davvero la strada verso un uomo nuovo che potrebbe anche non avere più nulla a che fare con l’uomo.

Come dice Marc Jongen, grazie alle biotecnologie possiamo ormai dire che l’uomo non è altro che un “esperimento di se stesso”; un esperimento che può finalmente coronare il sogno di realizzare un essere superiore all’uomo (una tentazione ricorrente da Nietzsche a Skinner a Peter Sloterdjik). Siamo dunque di fronte a un paradigma dentro il quale possono essere inglobate come “normali” sia le innumerevoli e inquietanti esternazioni in favore della subordinazione del diritto alla vita al superamento di determinati test genetici, fatte da parte di Francis Crick e James Watson, gli scopritori della doppia elica del Dna, sia l’eutanasia pediatrica o la produzione delle cosiddette “chimere”, sia qualsivoglia rafforzamento delle capacità fisiche o cerebrali. L’esaltazione di una sorta di viagra universale.

Si tratta di una sfida di dimensioni gigantesche, che, a mio avviso, potrebbe essere sintetizzata in questa semplice domanda: Esiste ancora per l’uomo un fine, un compito da realizzare (un telos, direbbero i greci)? Esiste ancora una normalità umana? Se ci pensiamo bene, è proprio questa idea di normalità umana che costituisce il principale bersaglio del pervasivo paradigma biopolitico ispirato all’ enhancement (Belardinelli 2007). È un po’ come se la realtà perdesse poco a poco la sua ineludibile durezza, per rendersi disponibile a qualsiasi manipolazione.

Quanto all’universo simbolico, all’interno del quale questa distruzione sistematica della realtà e della normalità viene resa auspicabile, esso è ben rappresentato dall’ideologia della Grande Salute, della “Salute Perfetta”, come la chiama Lucien Sfez (1999), innalzata al rango di un ideale normativo, il più alto di tutti; il criterio della dignità della nostra vita; un “diritto” che il biopotere è ovviamente ben lieto di concedere. Se ci pensiamo bene c’è una sorta di filo rosso che lega la definizione di salute come “completo benessere fisico, psichico e sociale” che ci viene data dall’”Organizzazione mondiale della sanità” e la “medicalizzazione indefinita” della società di cui parlava Foucault (Foucault 1998). Il campo della medicina diventa pressoché indefinito; tutti diventiamo in linea di principio “malati”, ammesso che la distinzione sano/malato abbia ancora un senso. Sta di fatto che il campo d’intervento dei medici non si riduce più alle malattie, ma, in nome dell’enhancement, tende a colonizzare l’intero universo della vita sociale, nel tentativo di eliminare la durezza della realtà, ma riproponendola, ancora più inquietante e dura su di un altro piano. Cerco di spiegarmi con un semplice esempio: quello delle tecnologie genetiche sempre più sofisticate che abbiamo a disposizione per il miglioramento del corpo umano. Si tratta indubbiamente di un potere enorme che potrebbe persino illuderci di superare ogni malattia e persino la morte, tuttavia chi ci dice che alla fine non si tratti di una imposizione? Chi ci dice che la durezza di quel potere non sia peggiore di quella “normale”, mi si passi il termine, della realtà?

Se ci pensiamo bene, l’odierna società tecnologica, in generale, e la medicina dell’enhancement, in particolare, riflettono quello che Charles Taylor descrive come pervertimento della cultura dell’autenticità nella cultura del narcisismo, allorché l’ideale della vita autentica si sgancia progressivamente da ogni limite di tipo morale o semplicemente reale, per diventare un affare eminentemente estetico, creativo, collegato non a caso alla vita artistica (Taylor 1994). Si tratta di un fenomeno che, secondo Taylor, incomincia a svilupparsi nella cultura europea del XVIII-XIX secolo, conferendo all’artista un prestigio sociale fino ad allora sconosciuto, e che trovo assai illuminante anche per il discorso che stiamo facendo sulla medicina dell’enhancement. Chi è infatti l’artista nel nostro immaginario collettivo? L’artista è colui che esce dagli schemi, colui che sa liberarsi dal peso delle tradizioni, che sa vivere in proprio, rompendo con tutte le convenzioni, le ipocrisie, le gabbie di normalità che gravano come macigni su tutte le società. Si pensi al periodo cubista di Picasso. Come non vedere in quelle figure umane scomposte e ricomposte a piacere l’anticipazione di una delle tentazioni più grandi delle odierne tecnologie genetiche?Il sogno di un genetista, oggi, non è forse quello di usare il codice genetico (mai parola fu più pregnante) per scrivere quello che ordinariamente, normalmente, la natura non scrive?

Altro esempio di cultura del narcisismo potremmo vederlo in alcuni tratti della cultura occidentale degli anni Sessanta. Si pensi a Marcuse e alla prima generazione della famosa Scuola di Francoforte. La loro cultura ha poco o nulla a che fare con la fatica che la realtà impone per “conciliarci” con essa e per poter vivere una vita decente; la realtà va piuttosto trasfigurata ideologicamente, va resa insopportabile, per poterla poi trasformare radicalmente. Di qui il marcusiano “Grande Rifiuto, la protesta contro ciò che è”, la “negazione totale dell’esistente” (Marcuse 1967, 82), insomma una negatività devastante. In nome dell’eros, del “principio del piacere”, questi autori non si accontentano più di liberare il mondo del lavoro; vogliono piuttosto liberare il mondo dal lavoro. Come dimenticare, ad esempio, il fascino esercitato negli anni Sessanta e anche in seguito dall’idea marcusiana di “trasformare il corpo umano da strumento di fatica in strumento di piacere”? Questa citazione, come è noto, si trova nella “Prefazione politica” scritta da Marcuse nel 1966 a Eros e civiltà e rappresenta per me uno dei manifesti più comprensivi del cosiddetto Sessantotto; uno “script”, direbbero i neuroscienziati, un simbolo chiave capace di evocare un’intera storia. Il freudiano “principio del piacere” – questo il senso dello “script” marcusiano – è stato non soltanto “sublimato”, come pensava Freud, ma letteralmente stravolto nel “principio di realtà”. Occorre pertanto stravolgere la realtà per cercare di liberarlo di nuovo. La cosiddetta civiltà, almeno quella capitalistica, non è altro che oppressione dell’individuo, della sua libertà, della sua spontaneità e, in ultimo, della sua possibilità di essere felice. Insomma una perdita secca. Guai dunque alle regole che inibiscono la nostra spontaneità; guai alla menzogna delle istituzioni liberaldemocratiche; guai a tutto ciò che chiamiamo “razionale” e che invece occulta semplicemente il patto segreto tra il potere e la morte. Largo invece a tutto ciò che è capace di liberare il “principio del piacere”, di rilanciare il desiderio e di combattere la realtà dell’esistente. Così l’immaginazione sarebbe dovuta andare al potere; una pedagogia “critica” basata sullo spontaneismo del fanciullo avrebbe dovuto prendere il posto di quella “tradizionale”; quanto alle principali istituzioni sociali, a cominciare dalla famiglia e dalla scuola, esse andavano semplicemente sbaraccate, quali espressioni di una società ingiusta e repressiva. Questo il senso dell’affermazione marcusiana, destinato a pervadere l’intera cultura occidentale, del quale forse soltanto oggi siamo in grado di vedere il senso più vero, più profondo e più devastante, e dal quale la cultura del narcisismo ha tratto sicuramente il suo propellente ideale.

A proposito di narcisismo, mi permetto di fare un breve riferimento a un libro forse poco letto, specialmente oggi, ma importantissimo: La cultura del narcisismo di Christopher Lasch, uscito nel 1979.

La tesi di Lasch è che il narcisismo ha a che fare certo con determinate distorsioni patologiche della personalità (un culto di sé che deforma le relazioni con gli altri e con se stessi, senso di dipendenza e paura della dipendenza, vuoto interiore, ira repressa), ma anche con cambiamenti strutturali della società e della cultura, tra i quali la burocratizzazione della vita, la medicalizzazione della società e il conseguente terrore della vecchiaia e della morte, l’alterazione del senso del tempo, la proliferazione delle immagini, il culto del consumismo, il fascino della celebrità, i cambiamenti intervenuti nella vita familiare e nei modelli di socializzazione (deficit di generazione in senso biologico – la crisi demografica – e in senso culturale – la crisi dell’educazione), i quali in un certo senso favoriscono la patologia narcisistica e ne vengono a loro volta rafforzati. Il mondo di ieri, per intenderci, (e dico mondo di ieri in senso molto lato: dal mondo greco all’età modera) era caratterizzato da fattori strutturali e culturali che ostacolavano la diffusione del narcisismo (la durezza della vita, un forte senso della realtà, legami sociali molto forti, ferrei processi di socializzazione, fiducia nel futuro e si potrebbe continuare). Si pensi, per fare un esempio, alla società del lavoro del XIX secolo e ai suoi principali cantori: Hegel, Marx o Comte. Questa società viveva del pathos del progresso e della verità. Il mondo contemporaneo invece, per i motivi che ho già accennato, si caratterizza per la presenza di elementi strutturali che promuovono il narcisismo. La società del lavoro e del sacrificio ha lasciato il posto alla società del consumo e del divertimento, il pathos del progresso e della verità al culto del presente e allo spaesamento relativistico. Potremmo anche dire che la cura come ristabilimento dell’equilibrio “normale” ha lasciato il posto al potenziamento delle umane facoltà. Più che curare il medico deve aiutarci a realizzare i nostri desideri, quali che siano.

Il fatto è che, a tutti i livelli, la realtà resiste; per contrastarla, ci vuole spesso una volontà ferrea, molta fatica e una vitalità inesauribile. Per farla breve, non si possono abbattere i pregiudizi della cosiddetta “normalità”, coccolando semplicemente il proprio io, il proprio “pupo”, direbbe Pirandello. Invece la mentalità narcisista è come se assumesse l’artista come proprio ideale, senza disporre però della sua energia. L’eccezione che il narcisista contrappone alla normalità sembra essere oggi quella di chi combatte i pregiudizi, non per affermare un ideale più autentico, ma semplicemente per affermare se stesso, secondo i canoni che gli vengono offerti dal grande Moloch del nostro tempo: la tecnoscienza. Una sorta di contradictio in adiecto (Belardinelli 2002).

Essendo diventati, infatti, tutti eccezionali, la stessa differenza, diciamo pure, l’eccezionalità di ciascuno, sembra diventare sempre più indifferente, addirittura fonte di disprezzo di sé. Ci accorgiamo che il nostro vivere estetico, come direbbe Kierkegaard, è un vivere che funziona finché è veramente un’eccezione; ma nel momento in cui diventa la norma, nel momento in cui si diffonde in tutti gli strati sociali, penetrando nei diversi modi di essere e di sentire, esso finisce per vanificare persino le eccezioni, e tutti diventiamo non a caso sempre più anonimi, sempre più impotenti e risentiti rispetto alla realtà che ci circonda. La realtà, soggiogata oltre ogni limite, si vendica, mostrando la sua ineludibile durezza.

Curare, prendersi cura, ha senso solo a condizione che si accettino i limiti del nostro essere uomini. Salute e malattia sono “naturali”; fanno parte della normalità umana. Non è possibile rimuovere la malattia e la morte. L’ipotesi della loro eliminabilità coinciderebbe con quella della soppressione stessa dell’umano, il quale ha proprio in queste situazioni limite (la sofferenza e la morte, appunto) le sue modalità di espressione privilegiate, il luogo dove si rispecchiano la luce e l’ombra del nostro comune destino.

Essere felici, vivere bene, nonostante la sofferenza e la morte: ecco il realismo vero, e per certi versi anche drammatico, che continua a stare dietro la grande tradizione greca e giudaico-cristiana dell’Occidente. È questa la “salus” di cui forse abbiamo oggi massimamente bisogno, che dobbiamo curare e coltivare almeno tanto quanto la salute del corpo, nella convinzione che, al bisogno, potrebbe rappresentare, anche per la salute del corpo, la risorsa più preziosa.

In questo senso davvero possiamo dire con Gadamer che “tutti noi dobbiamo curare noi stessi”, imparare cioè ad “auscultare” con più attenzione noi stessi e il mondo che ci circonda, la nostra salute e il suo vero significato. “In futuro – è sempre Gadamer a dirlo – la nostra esistenza dipenderà in modo decisivo da questa attenzione dedicata a noi stessi, senza la quale non possiamo far fronte alle mutate condizioni di vita di un mondo tecnologico, e non apprendiamo neppure a rianimare le forze che ci permettono di conservare e di ritrovare l’equilibrio, ossia la giusta misura, ciò che è adeguato a me e ad ogni singolo individuo” (Gadamer 1974, 111).

Non dobbiamo consentire che sia il potere, di qualsiasi potere si tratti, a stabilire in che cosa consiste il “bene” della nostra vita. Né dobbiamo consentire, a maggior ragione, che sia il potere a fissare i criteri della nostra “umanità” o, ma qui è lo stesso, della realtà. Auguriamoci in questo senso che la realtà continui a resistere in tutta la sua durezza.

Bibliografia

S. Belardinelli, La normalità e l’eccezione. Il ritorno della natura nella cultura contemporanea, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.

S. Belardinelli, Bioetica tra natura e cultura, Cantagalli, Siena 2007.

M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998.

G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, Cortina, Milano 1974.

Ch. Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 2001.

E. Marcuse, Eros e civiltà,Einaudi, Torino 1964.

H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967.

N. Rose, La politica della vita, Einaudi, Torino 2007

L. Sfez, La salute perfetta. Critica della nuova utopia, Spirali, Milano 1999.

Ch. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Bari 1994.

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