La presa in carico della persona: integrazione, case manager e formazione degli operatori

Cesare G. Moro. AFD, Coordinatore infermieristico UOP17, DSM ASST Bergamo Ovest. Case manager

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Nella relazione di oggi cercherò di portare un contributo cercando di rispondere a quanto mi è stato richiesto seguendo una traccia costituita dalle seguenti domande:

  • cosa ha più importanza nella tua esperienza nell’incontro con l’altro nel bisogno?
  • come si traduce nella concretezza del gesto clinico-assistenziale?
  • cosa percepisci come sostegno nella durezza e drammaticità del lavoro?
  • come tenti di riproporlo ai colleghi in formazione?
  • con quale criterio rimodelli continuamente la cura?

Cosa ha più importanza nella tua esperienza nell’incontro con l’altro nel bisogno?

La cosa che da sempre contraddistingue l’agire infermieristico è l’incontro con l’altro nella sua interezza di persona e non solo di malato. Quindi l’altro è una persona,è uno di noi che come tale va a scuola, può avere un lavoro, coltiva degli hobbies, fà volontariato, si arrabbia e si riappacifica, ha idee personali in ordine alla fede religiosa e al credo politico, ama ed è amato, può essere single, può essersi fatto una famiglia ed avere dei figli. È una persona che di fronte a fatti importanti e critici dell’esistenza non riesce più a mantenere i comportamenti e i funzionamenti sociali attesi: si può ammalare e regredire a livelli di comportamento di difficile comprensione. Una persona che soffre ha però il bisogno di sentire intorno a sé una comunità che sia disposta ad offrirle un’attenzione sincera e rispettosa non attraverso interventi che la vogliano cambiare ad ogni costo (nessuno ha modelli, ricette o soluzioni da propinare ad altri) ma che sia rispettosa del suo attuale equilibrio. Una comunità attenta all’altro, sostenuta da ideali di solidarietà umana che predispongono il contesto sociale al superamento del pregiudizio e all’accoglimento della persona in difficoltà, se ne può fare carico. Oggi chi si occupa di salute e in particolare di salute mentale, deve favorire l’incontro tra la comunità e il cittadino che soffre cercando di porre almeno le basi che permettano a chi soffre di sentirsi capito nella sua sofferenza favorendo l’incontro con qualcuno che non solo parla la sua stessa lingua ma sa di avere lo “stesso sangue”. Chi gli sta accanto, chi lo assiste, diventa l’ambasciatore di una realtà viva e benevola, che non stigmatizza e non emargina. Una realtà nella quale la persona bisognosa di aiuto trova sia comprensione (anziché giudizi) per le sue condotte un po’ strane, sia valorizzazione per gli aspetti più evoluti. Così facendo, attraverso questo stile accogliente, la comunità non vicaria le (spesso) limitate risorse del Servizi e nemmeno fa del buonismo ad ogni costo ma porta invece nella relazione con la persona ammalata qualcosa di specifico, un valore aggiunto che fa sentire la persona ammalata considerata e che agisce favorendo la sua riabilitazione.

Come si traduce nella concretezza del gesto clinico-assistenziale? 

Gli infermieri oggi operano secondo norme e contenuti che sostengono lo specifico professionale determinati dall’ordinamento didattico, dal percorso formativo di base e post base, dal profilo professionale (DM 739/94) e dal codice deontologico (Federazione IPASVI 2009) che vanno a definire il ruolo nelle organizzazioni sanitarie e la responsabilità professionale.

Opportuno ricordare solo alcuni passaggi dei documenti sopra citati:

dpr 739/94 “profilo professionale dell’infermiere”

art.1 – primo comma

“È individuata la figura dell’infermiere con il seguente profilo: l’infermiere è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale, è responsabile dell’assistenza infermieristica.”

secondo comma

“l’assistenza infermieristica preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa è di natura tecnica, relazionale, educativa. le principali funzioni sono la prevenzione delle malattie, l’assistenza ai malati e dei disabili di tutte le età e l’educazione sanitaria”

art.3 –“l’infermiere:a) partecipa all’identificazione dei bisogni di salute della persona e della collettività; b) identifica i bisogni di assistenza infermieristica della persona e collettività e formula i relativi obiettivi…”

Altro strumento è definito dal codice deontologico del 2009 che è preceduto dal patto cittadino infermiere nel quale in maniera concreta, forte, ed empatica, l’infermiere si impegna ad operare nell’interesse dell’assistito. Riporto alcuni degli articoli del codice:

art. 23:”l’infermiere riconosce il valore dell’informazione integrata multiprofessionale e si adopera affinché l’assistito disponga di tutte le informazioni necessarie ai suoi bisogni di vita”

art. 27: “l’infermiere garantisce la continuità assistenziale anche contribuendo alla realizzazione di una rete di rapporti interprofessionali e di una efficace gestione degli strumenti informativi”

art. 32:”l’infermiere si impegna a promuovere la tutela degli assistiti che si trovano in condizioni che ne limitano lo sviluppo o l’espressione, quando la famiglia e il contesto non siano adeguati ai loro bisogni “

In ultimo ma non per questo meno importante, ciò che più di ogni altra cosa oggi rende concreto il mio lavoro in ambito assistenziale è l’attenzione alla risposta del bisogno di assistenza. Un bisogno che, nel paziente con problemi di salute mentale,non viene quasi mai espresso direttamente ma, pur essendo l’elemento fondamentale della richiesta d’ aiuto, viene distorto, manifestato in modo indiretto, mascherato tanto più quanto più grave è la patologia del soggetto che lo esprime.

Nel corso della mia formazione professionale ho avuto l’onore di conoscere il prof. Giovanni Carlo Zapparoli e di apprendere da lui e dai suoi più stretti collaboratori le basi teoriche del “modello dell’integrazione funzionale per il trattamento dei disturbi gravi”. Grazie alla sua straordinaria esperienza professionale ed innata capacità di rendere accessibili concetti complessi, gli operatori che quotidianamente si confrontano con la sofferenza psichica hanno delle chiavi di lettura che li orientano a riconoscere, decodificare e quindi intervenire su alcuni bisogni specifici del paziente con grave disturbo psichico:

bisogno di una continuità funzionale

il riconoscimento del delirio come lavoro

bisogno di un “oggetto” inanimato e meno qualificato

bisogno di una residenza emotiva

bisogno di condivisione

la costanza del dolore

bisogno di non avere bisogni

bisogno di fusionalità o emancipazione

Cosa percepisci come sostegno nella durezza e drammaticità del lavoro?

Lavorare a stretto contatto con la persona portatrice di grave patologia psichica porta inevitabilmente, più di altri operatori della area socio-sanitaria, ad andare incontro alla sindrome del bourn out. Un fattore protettivo viene dell’equipe. Un’equipe che deve integrarsi per dare risposte interate ed integranti, un equipe che fa sue delle funzioni basilari rispecchiabili in quelle proprie della presa in carico conferendo al suo intervento la forza e la completezza necessarie. I piani di cura, i Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali (PDTA), i Piani di Trattamento Individuale (PTI), i Progetti Terapeutici Riabilitativi (PTR) sottolineano la complessità degli interventi evidenziando le peculiarità di tutte le figure partecipanti:

la funzione clinico- terapeutica

la funzione assistenziale e/o riabilitativa

la funzione di integrazione all’approccio multiprofessionale

la funzione di intermediazione

Oggi nei Servizi psichiatrici territoriali, intendo CPS o CSM (a seconda della Regione) si tende a lavorare soprattutto in micro-équipeche è quella che pensa al paziente, lo segue nel tempo, progetta per lui gli interventi necessari. Lavorare in micro-équipe facilita lo scambio di informazioni e il confronto tra un più ristretto numero di operatori. Una micro-equipe che pensa è in gradi di pensarsi ed è pronta a cogliere e ad accogliere anche il disagio e le difficoltà del collega.

Come tenti di riproporlo ai colleghi in formazione? 

Ho avuto la possibilità di fare formazione agli studenti dei corsi laurea in scienze infermieristiche e anche a colleghi in molti corsi di aggiornamento. I contenuti che ho sempre cercato di trasmettere sono stati guidati, come già sottolineato precedentemente, dal modello dell’integrazione funzionale elaborato dal Prof. Zapparoli, un modello che si riconosce in quello bio-psico-sociale e che afferma “come il trattamento psico-sociale integrato sia la risposta più idonea ai bisogni complessi”. Molti dati concorrono a dimostrare che gli approcci combinati sono più efficaci nell’aumentare le probabilità di accettazione dell’intervento e nel ridurre le ricadute. Per adottare tale modello, Zapparoli, invitava le equipe a preparare le condizioni per adottarlo:

la prima condizione necessaria è che l’integrazione avvenga tra prassi differenziate tra loro;

la seconda condizione è che il trattamento integrato venga programmato, attivato e verificato da un insieme multidisciplinare e multiprofessionale,

il terzo requisito proposto riguarda la possibilità di utilizzare molteplici presidi di cura più o meno intensiva a seconda dei bisogni di volta in volta espressi dal paziente grave e dalla sua famiglia.

Inoltre bisogna non dimenticare interventi specifici sulla famiglia che permettano di attenuare l’emotività espressa, di essere di supporto, di evitare l’espulsione del malato dal proprio contesto originario

Con quale criterio rimodelli continuamente la cura, l’organizzazione e i luoghi della cura?

Questo aspetto a che fare con l’operatività di oggi. In Regione Lombardia le linee di indirizzo in campo della salute mentale sono tracciate dal PRSM 2004-2007 e successive integrazioni. Inoltre siamo oggi alle prese con i cambiamenti che la L.R 23/2015 ha prodotto in termini di nuove aggregazioni con la nascita delle Aziende Socio Sanitarie Territoriali nelle quali è confluita tutta la parte di assistenza territoriale una volta in capo all’ASL (oggi ATS). Le linee di sviluppo del Sistema Sanitario Regionale di Regione Lombardia parlano in maniera chiara di necessità per le ASST di dotarsi di strumenti per la governance clinica che vadano nella direzione dell’integrazione dei Servizi per attuare la presa in carico. Alcuni degli strumenti che oggi i professionisti devono conoscere e portare nei luoghi di cura sono per esempio i PDTA (percorso diagnostico terapeutico assistenziale). Il PDTA è definito come una sequenza spaziale (luoghi della cura) e temporale (prospettiva longitudinale) delle attività clinico-assistenziali svolte, in una data organizzazione, per affrontare i problemi di salute del paziente, dal momento dell’inquadramento diagnostico fino alla dimissione.

La presa in carico invece rappresenta il processo integrato e continuativo attraverso cui deve essere garantito il governo coordinato dell’insieme degli interventi sulle condizioni che ostacolano l’inserimento sociale, inteso a favorire il più completo dispiegarsi della personalità dei singoli individui, perciò la presa in carico del paziente è determinata dall’incontro di più reti: quella del paziente, quella sanitaria, quella del contesto sociale. PDTA e presa in carico devono tenere in stretta considerazionele risorse a disposizione e gli standard. Appare quindi oggi centrale in tal senso la funzione attribuita al Servizio Territoriale di titolare e garante della presa in carico e della continuità terapeutica, a cui devono attivamente concorrere tutte le strutture delle UOP e DSM coinvolte nel processo di cura. In questa prospettiva deve essere assicurata la funzione di un referente del percorso di cura per i pazienti gravi: il case manager. Un Servizio Territoriale che opera con metodologia di case management favorisce alcuni benefici per tutti gli attori:

i pazienti: riescono a vivere il normale tessuto sociale e sono presi in carico in tempo reale venendo stimolati ad una completa autonomizzazione sociale e terapeutica.

le Strutture sanitarie: contengono i costi della cura grazie alla possibilità di prevenire le ricadute, migliorare la compliance terapeutica incrementando la qualità della vita delle persone;

sul piano sociale:facilita l’immissione al lavoro,fronteggia e combatte lo stigma, favorisce l’implementazione della rete dei servizi.

Nuovamente grande importanza ha l’equipe multi-disciplinare e multi-professionale che deve divenire il punto di incontro e di creazione comune della presa in carico e del progetto integrato. Ma affinchè ciò avvenga la condizione necessaria è che alla base di tutti i progetti vi deve essere una “comunità” di professionisti che tenga ben presenti le differenze dei ruoli e delle funzioni dettate dai profili professionali.La costituzione di equipe funzionali che si riuniscono in funzione di progetti di cura e di attività specifiche permettono di seguire un iter completo di accoglienza, diagnosi, terapie e riabilitazione della persona assistita ricoprendo tutta la gamma di bisogni che costituiscono il panorama di coloro che hanno una storia di disturbo mentale.

In ultimo la funzione di case manager come quella di persona prossima attraverso l’advocacy intesa come: «..l’azione del parlare a sostegno delle preoccupazioni o dei bisogni dell’uomo…quando le persone sono in grado di parlare per sé l’advocacy è finalizzata ad assicurarsi che vengano ascoltate…quando hanno difficoltà ad esprimersi, l’advocacy si propone di aiutarle…quando infine non sono in grado di farlo per nulla, significa sostituirsi e parlare per loro conto..» (Herbert 1989)

Concludo ricordando quanto oggi nei Servizi di Salute Mentale sia necessario superare la dicotomia tra operatori ed utenti, tra curanti e curati, ricercando strategie che permettano agli specialisti ed agli esperti di malattia per averla vissuta in prima persona di incontrarsi condividendo gli ingredienti fondamentali di ciò che oggi viene presentata come recovery cioè “la capacità delle persone di costruirsi una vita significativa e soddisfacente”: l’autogestione, la relazione d’aiuto, l’inserimento sociale e la speranza. Per fare ciò il componente basilare per la riuscita dell’intervento è il coinvolgimento della persona nel processo di cura: intervenire solo con il suo consenso, porre obiettivi chiari e comuni per creare una relazione positiva dove la partnership diventi un camminare insieme verso un obiettivo comune che la persona assistita non percepisca come imposizione o dovere, ma opportunità di reale integrazione.

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