La Riabilitazione: prendersi cura del paziente

Pietro R. Cavalleri. Direttore Clinico della Fondazione AS.FRA. Onlus, Vedano al Lambro, MB

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Usiamo il termine “riabilitazione” per indicare una serie di processi complessi, che – per rispondere a bisogni molto diversi fra loro – applichiamo a situazioni eterogenee incontrabili nelle differenti età della vita.

Ciò che lega tra loro i processi riabilitativi di varia natura è lo scopo che ciascuno di essi si prefigge: condurre il soggetto – per quanto possibile – all’acquisizione o alla ri-acquisizione di competenze e abilità che gli altri soggetti, generalmente, posseggono, mentre essi non sono riusciti ad acquisirle spontaneamente o le hanno perdute.

Per tali motivi i processi riabilitativi si situano sempre al confine della cura. Possiamo percepire la presenza del “confine” in una prospettiva topografica: questi processi, infatti, oltrepassano lo spazio chiuso e perfino sterilizzato che prevede le due sole posizioni del curante e del curato e si giocano, invece, nel campo aperto che sta in continuità e contiguità con gli spazi e le presenze della vita quotidiana, con la complessità comportata dalla contaminazione tra i differenti mondi a cui il soggetto ugualmente appartiene, ciascuno portatore di proprie e specifiche esigenze che, nel processo riabilitativo, si incontrano o si intersecano. Possiamo però intendere il medesimo concetto di “confine” anche in una prospettiva temporale, perché i processi riabilitativi seguono o precedono l’intervento terapeutico: lo seguono per completarlo, attraverso l’ingaggio attivo del paziente, oppure (prospettiva nuova): lo precedono per renderlo possibile, perché la terapia è condizionata dal sorgere, nel soggetto, di una domanda di cura la cui presenza non è scontata.

Il fatto che la riabilitazione possa precedere la cura non è un punto di vista scontato; se accediamo a questa prospettiva diamo un respiro molto più ampio al lavoro riabilitativo: non ci apparirà più nella prospettiva puramente esecutiva dell’individuazione di una serie di azioni, dalla cui esecuzione ci si attende che si produca automaticamente un certo risultato, ma nella prospettiva tutta creativa dell’invenzione e selezione di percorsi che sappiano rintracciare, creare e rinforzare le fonti dell’energia occorrente per affrontare il lavoro.

“Prospettiva temporale” significa anche porre in evidenza il fatto che la riabilitazione non si esaurisce in un intervento puntuale, ma si sviluppa in un processo che richiede tempo, mettendo in gioco almeno due fattori: il primo, specifico per ciascuna di esse, consiste nel lavoro su una o poche funzioni tra loro collegate il cui miglioramento costituisce il target, in qualche modo misurabile, dell’intervento; il secondo, comune a tutte, consiste nel rintracciare, attivare e sostenere, in ciascun potenziale candidato, la motivazione a investire le proprie energie nel percorso che viene proposto, per iniziarlo, e a mantenerle, per proseguirlo per tutto il tempo occorrente.

Le pratiche riabilitative di cui ci occupiamo in questa sede condividono il fatto di essere rivolte a soggetti in cui è la stessa motivazione che deve essere ri-abilitata affinché il target specifico di ciascun percorso riabilitativo possa essere raggiunto.

In alcune situazioni, l’obiettivo consistente nella riabilitazione della motivazione o addirittura nella sua evocazione si pone in maniera cruciale: si pensi, ad esempio, ai casi in cui la domanda di trattamento non è avanzata dal soggetto, ma è sostituita dal mandato sociale, emblematicamente dall’ordinanza di un magistrato. Come è possibile rapportarsi con questi pazienti? Cosa significa “prenderli in carico”, quando la privazione della libertà esteriore monopolizza il loro interesse e li induce a tacitare la condizione di mancanza di libertà interiore? In presenza di questa situazione, prendere in carico coincide con “curare”? Vi sono differenze tra cura e trattamento? Quali sono?

La cura si regge su di un quid che non può non partire dal soggetto e non può non coinvolgerlo: lo chiamiamo “consenso”, che non consiste puramente nel permesso ottenuto dal soggetto a compiere degli atti su di lui, ma – ben più di questo – consiste nell’ottenere che il domandante divenga il partner del processo del trattamento stesso, in quanto il processo ha a che fare con le sue emozioni, il suo sentire, il suo pensare, il suo volere. L’aspetto cruciale del consenso consiste nel fatto che esso deve essere rinegoziato ogni momento; deve essere riproposto e divenire convincente nella mutevolezza delle vicissitudini che si presentano nel corso del tempo e da cui il soggetto, di volta in volta, è preso totalmente.

Per tale motivo il lavoro riabilitativo non è un seguito della cura, ma ne è il preliminare, destinato a protrarsi fino a che l’avvento di una domanda non inauguri il tempo della cura. La cura, infatti, può avvenire solo se vi è una domanda sufficientemente stabile. Quando ancora non vi è domanda, pur non potendo attuare una cura occorre, però, prendersi cura: la riabilitazione è questa iniziativa che può raggiungere il soggetto anche attraverso la coazione della legge.

Per compierla è necessario attrezzarsi in modo tale da potersi accostare a un soggetto che si trova doppiamente prigioniero di uno stato di costrizione: la propria assenza di norma e, talvolta, la costrizione della legge, che impone una sanzione. La sanzione, a sua volta, stringe il soggetto come in una morsa e catalizza tutte le sue energie, indirizzandole non al cambiamento, ma alla messa in atto delle consuete strategie patologiche volte a puntellare la falsa immagine di un Idealich grandioso, unico sostegno che consente di reggere al fallimento della vita reale.

Oltre ai casi in cui cura e sanzione si embricano, il problema di come ottenere il coinvolgimento del soggetto nel lavoro riabilitativo esiste, seppure in grado minore, anche quando il soggetto apparentemente non avverte il peso di una disabilità e il desiderio di acquisire una competenza o l’esigenza di cambiare.

Per superare questa resistenza è opportuno partire dal riconoscimento del fatto che il soggetto e l’operatore non vedono le cose dalla medesima prospettiva: l’operatore si concentra sulle competenze il cui funzionamento è insufficiente o danneggiato e si propone di ripararle con la sua azione; nel soggetto – al contrario – la funzione danneggiata spesso viene scotomizzata o trasformata nel suo contrario e idealizzata. Per farla breve: il soggetto non si coinvolge se si focalizza la sua attenzione su ciò che non funziona, perché non trova alcun appeal nello scopo puramente riparativo. Affinché si coinvolga occorre che venga incoraggiato il suo tentativo di incrementare qualcosa che già fa parte di sé e che è buono, utilizzando una risorsa già presente almeno in nuce. In altre parole: la disponibilità ad ingaggiarsi nel lavoro riabilitativo sarà maggiore quanto più il terreno su cui ci si muoverà sarà familiare al soggetto, così che egli lo possa considerare più come la coltivazione del proprio orto che non come l’esplorazione di una terra incognita.

Quindi: partire dal positivo che c’è. Per cambiare che cosa?

Nel nostro tempo sembra che il terreno in cui si incontra il disagio mentale sia sempre meno quello del pensiero e sempre più quello del comportamento socializzato. Si ha addirittura l’impressione che questi comportamenti non esprimano pensiero, ma ne prendano il posto: il disagio – interiore, soggettivo e che riguarda sé – è come se fosse cancellato dal disturbo – esteriore, obiettivabile e il cui costo ricade sugli altri.

Lo spostamento di accento dal pensiero al comportamento ha una ricaduta su ciò che intendiamo come cura e riabilitazione, perché in chi vi si cimenta viene attutita la percepibilità del fatto che il soggetto è pur sempre una persona il cui pensiero è sofferente; cresce, invece, la spinta a finalizzare l’intervento terapeutico all’ottenimento di una modificazione della condotta in un senso meno disfunzionale.

Si alimenta l’illusione che questo cambiamento sia perseguibile senza passare dalla ri-abilitazione pensiero e nasce pertanto la questione se abbia ancora senso occuparsi di incontrare la persona e di cercare di mettersi in contatto con ciò che in lei vi è di più intimo e inerme, ossia ciò che prova e ciò che pensa.

Questa domanda rende inevitabile l’ammissione della seguente evidenza: per curare occorre individuare nel soggetto un quid che sia stimabile. Non si tratta semplicemente di affermare che, con il paziente, si condivide il tratto della comune umanità, ma di individuare, in atto, qualcosa di prezioso che attragga il nostro investimento. E infatti: conosciamo qualcuno che sia mai riuscito a sentirsi terapeuticamente efficace nei riguardi di una persona che disprezzava?

La questione della possibilità di percepire un valore nel singolo paziente di cui ci occupiamo non è banale: non possiamo evitare di fare i conti con la rabbia, l’ostilità, l’invidia, addirittura l’odio che spesso incontriamo, che talvolta vengono indirizzati verso di noi e innescano sentimenti di rabbia, ostilità, noia, chiusura. In questa temperie emotiva la nostra posizione oscilla tra ingenuità e cinismo: ingenuità, quando idealizziamo la malattia e sottovalutiamo il male; cinismo, quando, al contrario, abitudine e posizioni ideologiche ci portano a prendere le distanze.

La questione di percepire il valore del e nel singolo paziente di cui ci occupiamo non si pone solo in un’ottica religiosa (in questa prospettiva la risposta sembra essere chiara), ma anche in una prospettiva laica o agnostica. Chi è credente è meglio disposto a considerare l’altro un valore, però corre il rischio di fare questa asserzione in maniera scontata, senza percepirne la drammaticità; chi non è credente si confronta più drammaticamente con la questione di scoprire se nell’altro vi è un valore. Può trattarsi di un dettaglio che si coglie nella personalità, di una particolare abilità, di un tratto accattivante… Ma alle volte è arduo trovare qualcosa che risponda ai requisiti necessari per essere riconosciuto come un valore, perché non si trova nulla che valga o che semplicemente attragga e si è investiti, invece, da tutto ciò che provoca repulsione. In questo caso bisogna assumere l’ipotesi che non è che il valore sia stato assente dall’origine; è piuttosto la vita che, come un rullo compressore, lo ha travolto e polverizzato.

Pertanto occorre sempre avere il coraggio, l’umiltà e la pazienza di entrare nella storia dell’altro e, per quanto possibile, immedesimarsi negli eventi che hanno costituito i processi formativi della sua personalità; questo ci permette di vedere l’altro non solamente nella sua dimensione attiva, di soggetto agente comportamenti devianti, ma nella sua dimensione storica di soggetto che ha patito e forse patisce ancora lui stesso un trattamento in cui si trovano traumi, deprivazioni precoci, abusi infantili.

Nel momento dell’ascolto terapeutico, avviene una immedesimazione che fa prevalere la dimensione empatica, che ci permette di recuperare e ridare vita, nella sua inermità, al soggetto che abbiamo davanti. In qualche modo ne ristabiliamo la verità. Dobbiamo però fare i conti con un ulteriore trabocchetto, perché il rendere accessibile al soggetto la sua storia, non è sufficiente a spostarlo dal vissuto, inconsapevolmente fissatosi in quel tempo, di appartenere per sempre a quella dinamica. Essa innesca la pretesa impossibile della riscrittura della storia, ossia l’illusione che la guarigione potrebbe avvenire solo se fosse preceduta da un risarcimento “nella realtà”. L’impossibilità di questa riscrittura fattuale e non solo simbolica, porta questi nostri pazienti ad agire in maniera coatta, a rispondere in maniera rigida e precipitosa agli eventi della vita, come se, in ogni situazione, avessero la possibilità di accedere a un solo tipo di risposta, con il risultato che molte delle azioni da essi compiute risultano maladattive, fino ad essere distruttive.

Come trovare l’equilibrio tra applicazione di procedure standardizzate, validate su grandi numeri, e personalizzazione dell’intervento finalizzata ad ingaggiare il singolo soggetto nel percorso che a lui è possibile? Quali obiettivi possono essere perseguiti? Dobbiamo accettare che Il percorso riabilitativo sia solo un pezzo della strada, il cui obiettivo è che sia il soggetto a stabilire il proprio obiettivo, confrontandosi con la propria libertà e il proprio desiderio. Comunque sia, l’obiettivo particolare che il soggetto fisserà si inquadrerà nell’universo definito da questi limiti: autenticità, adattamento e autonomia.

“Autenticità” indica il percorso verso l’autenticità di sé, ossia la possibilità di entrare in contatto con il proprio nucleo più vero, comprese le parti più deboli e sofferenti che essi tentano respingere e di disconoscere. Il paziente se ne difende perché ritiene che la verità di sé lo possa distruggere, lo possa mettere di fronte a qualcosa che lo annichilirà. Sente la debolezza (ma anche la rabbia) come qualcosa di profondamente vergognoso, per questo deve difendersi dall’autenticità costruendo una finzione per dissimulare l’angoscia. Al contrario di quanto egli teme, il contatto con la propria vena autentica, qualunque sia il contenuto attraverso il quale si manifesta, è sempre un’esperienza profondamente positiva, vivificante, generatrice di una emozione che alimenta il serbatoio della libido. Quindi: obiettivo dell’azione riabilitativa è favorire l’accadere di momenti in cui avvenga una presa di contatto con l’autenticità della propria esperienza interiore.

Noi non abbiamo la possibilità di conoscere con certezza quando il paziente prende contatto con se stesso, in quanto non esiste un apparecchio, una tecnologia, che ci permetta di evidenziare questo accadimento. Non abbiamo altro mezzo che noi stessi, da utilizzare come sonda. In che modo? Accade che, nel rapporto con il paziente, si abbia la sensazione, talvolta, di accostare qualcosa di prezioso e di fragile a un tempo, che ci appare autenticamente suo. Ecco: l’accadere di questa esperienza costituisce la risonanza (in noi) della medesima esperienza che si offre al paziente, ossia segnala il momento in cui probabilmente il paziente, attraverso di noi, sta prendendo contatto con un nucleo autentico di sé, un nucleo autentico che gli si presenta in maniera benefica e non distruttiva. Autenticità, sul versante del terapeuta, significa riconoscere (e accettare) che sia il paziente a stabilire il proprio obiettivo, sostenendolo in questo percorso come un consulente leale.

“Adattamento” richiama il compito del riconoscimento della realtà esterna, attraverso l’attivazione di una funzione mentale a cui questi pazienti hanno accesso, quando non sono inghiottiti dallo stress e se, beninteso, la loro condizione basale non coincide con la psicosi (l’obiettivo di favorire un adattamento possibile vale anche nel caso della psicosi, ma, per mostrarlo, occorrerebbe fare qualche passaggio ulteriore, che esula dalla casistica su cui ci concentriamo ora). Il riconoscimento della realtà introduce all’adattamento alla realtà, fondamentale per ogni processo vitale, che a sua volta richiede la riattivazione e l’ampliamento di un’attitudine alla plasticità e al cambiamento.

“Autonomia”, da ultimo, significa autonomia nella relazione, ossia non autarchia né sottomissione, ma sviluppo di una capacità di stabilire partnership con l’altro. In questo processo l’operatore svolge una funzione delicata: non può cedere all’ambizione di proporre il proprio stile di vita e le proprie strategie difensive affinché anche l’altro le faccia proprie, perché proporre sé come modello mette in moto la dinamica del superio e non genera gratitudine ed emulazione quanto, piuttosto, invidia. L’operatore sarà in grado di aiutare il soggetto quanto più si avvicinerà ad essere, anche inconsapevolmente, qualcuno in cui il soggetto possa sentire risuonare parte delle proprie difficoltà e contraddizioni; qualcuno in cui il soggetto malato possa identificarsi, ritrovando qualcosa di sé.

Da ultimo: nella riabilitazione è importante che vi sia un operatore arretrato, la cui funzione sia quella di aiutare la valutazione di ciò che accade nel lavoro sul campo, perché chi sta vicino alla quotidianità del soggetto è costantemente impegnato a stimolarne e sostenerne l’azione. Così facendo, inevitabilmente si scoraggia o si svuota; questi stati d’animo, benché possano essere contingenti, viziano la percezione della situazione, perché gli elementi negativi tendono a prendere il sopravvento, mentre, per operare, è necessario poter individuare continuamente almeno un elemento positivo, e questo è più probabile che risalti ristabilendo il punto di osservazione a una certa distanza. L’empatia, infatti, non è sufficiente.

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