L’aggressività. Tra cambiamenti culturali e psicopatologia.

Giorgio Bianconi, Luca Micheletti, Matteo Sala, Pierluigi Castiglioni. Dipartimento di Salute Mentale e delle Dipendenze, ASST Ovest Milanese- Legnano

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L’adolescenza è forse uno dei momenti più complessi, delicati e evolutivi di tutta l’esistenza. Si verifica una quantità di cambiamenti che mai si attueranno ancora nel corso della vita e non tutti i ragazzi sono pronti per sopportare la velocità con cui tali cambiamenti si manifestano. Il disagio giovanile, condizione da molti attribuita alla sempre maggiore precarietà del contesto sociale, è una realtà concreta pur cangiante nelle sue manifestazioni in relazione a una quantità di variabili personologiche e ambientali. Sempre più spesso la sofferenza emotiva dei giovani si manifesta con condotte aggressive, che tuttavia possono assumere una connotazione disturbante che travalica la sofferenza stessa e non è da essa giustificata.

Al contempo occorre ricordare che la violenza, come suggerito da Girard, è insita nel comportamento umano e può essere considerata come inevitabile atto fondativo della società: l’identificazione di un colpevole esterno, a cui è attribuita la responsabilità della crisi interna, comporta necessariamente la sua uccisione o espulsione. In questo modo il colpevole esterno da malevolo diventa benevolo essendosi sacrificato per il ripristino della pace e dell’armonia sociale.

Oggi non c’è bisogno di adottare strategie di questo tipo per procacciarsi l’equilibrio sociale ma nel corso del tempo si sono evolute molte forme di violenza attraverso cui trova espressione la popolazione giovanile.

Spesso si evidenzia l’attitudine a giustificare il comportamento violento come espressione di malessere ma non sempre esso è facilmente identificabile come sintomo psicopatologico e quindi trattabile. Ci si trova invece frequentemente di fronte a condotte disturbanti, intenzionali, arbitrarie, che suscitano intenso allarme sociale, possono essere facilmente disapprovate e sanzionate.

Di fronte ad un comportamento aggressivo il sistema sanitario è in crisi, in bilico fra il bisogno di curare e quello di controllare. Questa apparente contraddizione solleva problemi di natura etica e sociale non facilmente risolvibili, anche a causa di una quantità di variabili confondenti legate ai cambiamenti del sistemi con cui l’adolescenza e la giovane età adulta si confrontano e si articolano.

Il ricorso alla violenza o la disinvoltura con cui alcuni ragazzi adottano condotte aggressive per risolvere i problemi dovrebbe ro sempre costituire oggetto di attenzione e motivo di osservazione clinica, per prevenire l’ingresso in percorsi giudiziari ma soprattutto per individuare strategie più funzionali e consentire un cammino più armonico verso l’età adulta.

Fino a alcuni decenni fa i rigidi e colpevolizzanti modelli educativi favorivano lo sviluppo di complesse strutture nevrotiche mentre i giovani meno fragili si ribellavano cercando di contrastare un sistema considerato controllante e oppressivo. Oggi non c’è bisogno di conquistare o desiderare essendo tutto già permesso e a portata di mano, e sempre più spesso i giovani si esprimono in direzione della propria autocelebrazione. La fatica dell’arena edipica è stata sostituita da una confortevole spa narcisistica in cui la libertà è pressoché incontrastata.

Una delle forme più diffuse di violenza soprattutto in preadolescenza è il bullismo, di solito generato dal bisogno di affermare la propria superiorità attraverso la sistematica e ripetuta sopraffazione di un altro più debole, scelto dal leader (cui si aggregano ragazzi meno forti ma sufficientemente estroversi per non essere loro stessi vittime) in base a evidenti elementi di fragilità o goffaggine. Il bullismo è caratterizzato dalla asimmetria fra le parti e è finalizzato a affermare un’illusoria superiorità attraverso l’uso della forza e della sottomissione.

In questo caso l’atto di forza è uno strumento per sentirsi più forti e meritevoli. In altre forme di violenza la prevaricazione dell’altro fornisce un godimento fine a se stesso, e la sofferenza inflitta diventa essa stessa fonte di piacere. In questa forma di violenza assistiamo al ricorso alla provocazione e alla sfida, spesso favorito all’uso di sostanze ad azione performante o disinibente, e l’aggressione viene facilmente legittimata come atto necessario finalizzato a contrastare una presunta arroganza della vittima. Raramente l’aggressore si pente o accede al rimorso per quanto commesso.

L’adolescenza è caratterizzata dai desideri, rappresentazioni di scenari futuri che stimolano la creatività e attivano potenti impulsi generatori di scelte e opportunità. Ma il desiderio implica il rischio della delusione, sempre meno tollerabile in quanto fonte di frustrazione a cui i ragazzi moderni non sono più abituati. Ma quando si smette di desiderare subentra la noia, sentimento mortifero a cui occorre sottrarsi rapidamente attraverso la ricerca di esperienze forti e eccentriche come l’uso di sostanze e talvolta azioni di violenza gratuita, in quanto generatrici di imponenti cascate dopaminergiche e fugaci vissuti di gratificazione e piacere. Pensiamo a quanto profetico fu Kubrik che all’inizio degli anni 70 descrisse nella sua “Arancia meccanica” la sciagurata vita di Alex e dei suoi drughi che si rendevano protagonisti di efferate violenze accompagnate dalla musica di Bach, adottata sapientemente proprio per rendere ancora più alienante l’esperienza dello spettatore in termini di contrasto estetico.

Da quanto sopra descritto sembra difficile assimilare queste forme di violenza alla psicopatologia, ma in alcuni casi ci troviamo di fronte a situazioni diverse, in cui il ricorso all’aggressività assume connotati impulsivi, non sempre prevedibili, si associa ad una intensa attivazione emotiva di natura rabbiosa e è seguito da senso di colpa e tentativi di riparazione. Si tratta per esempio delle reazioni aggressive di ragazzi con storie di separazioni o maltrattamenti. Se sopraffatti dal senso di abbandono, anche solo fantasticato, aggrediscono per distruggere la potenziale fonte della loro sofferenza e ristabilire un equilibrio. Talvolta la rabbia è diretta verso se stessi attraverso condotte autolesionistiche. In queste circostanze la aggressività è discontrollata e autolimitantesi, e possibile target di trattamento in quanto espressione sintomatica di una marcata vulnerabilità personologica.

Nella patologia psicotica gli agiti aggressivi non sono più frequenti che nella popolazione generale, ma nelle delicate fasi di processualità subapofanica che precedono le esperienze rivelatorie, si produce un substrato emotivo che potrebbe favorire il passaggio ad atti violenti. Il disturbo fondante della psicosi non è l’errore di interpretazione della realtà bensì un profondo disturbo dell’intersoggettività. Si tratta di una progressiva compromissione di quello che i fenomenologi chiamano senso di ovvietà dell’esperienza, o evidenza naturale dei rapporti dell’io col proprio mondo come proposto da Bleckmburg. Questo deficit di sintonizzazione, verosimilmente correlato ad un disturbo della processazione dell’informazione, provoca un angoscioso incremento della complessità dell’esperienza e condiziona un’evanescenza nel rapporto con l’altro che non viene percepito come un nemico (interpretazione già delirante) ma viene guardato con lo stupore che si prova di fronte a un enigma. L’allarme generato dalla perdita del senso di immediatezza e naturalezza può in alcuni casi determinare una reazione di attacco all’altro, al fine di allontanarlo per non provare questo terrore interpersonale.

L’intervento finalizzato alla gestione del comportamento violento (non in acuzie) deve necessariamente essere multidisciplinare integrato, elastico, informale, e deve presentarsi come “accattivante” per il ragazzo, generalmente poco motivato a mettere in discussione le sue abitudini. Occorre lavorare molto sulle conseguenze negative del comportamento aggressivo, soprattutto in termini di funzionamento socio-relazionale, perdita di legami, interruzione di percorsi formativi o lavorativi. Fondamentale è verificare la capacità di accedere al senso di colpa, ma se il ragazzo non riesce provare rimorsi conviene individuare soluzioni alternative incrementando la consapevolezza delle conseguenze negative,essendo molto difficile lavorare attraverso esperienze emotive correttive. Anche agire sulla rete e sull’integrazione sociale può essere produttivo, dal momento che rinforzare il senso di sicurezza e protezione riduce il ricorso alla violenza.

Abbiamo quindi osservato come gli agiti aggressivi in giovane età possono essere interpretati secondo una lettura che segue un continuum fra comportamenti disturbanti (e socialmente disapprovati) e fenomeni psicopatologici.

Bibliografia

W. Blankenburg. La perdita dell’evidenza naturale. 1998

R. Girard. La violenza e il sacro. 1972

G. Pietropolli Charmet. Fragile e spavaldo. 2008

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