L’orizzonte in cui si colloca la cura. Angelo Card. Scola

Angelo Card. Scola – Arcivescovo di Milano

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  1. Un ascolto che feconda

«Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto» (Eb 4,13). Questa radicale affermazione dell’autore della Lettera agli Ebrei descrive con forza quello che la grande mistica Adrienne von Speyr chiamava l’atteggiamento di confessione, che dovrebbe sempre caratterizzare la vita del cristiano. Se vive in un atteggiamento di confessione, se vive l’esistenza sotto lo sguardo della Trinità, il misericordiae Vultus che è Gesù Cristo, il suo seguace non può non agognare a quella compiuta conoscenza di sé che è resa possibile solo dall’apertura all’altro e che soprattutto non può che giungere dalla rinuncia al tentativo impraticabile di nascondersi all’Altro con la maiuscola.

  1. Cura ed angoscia

Per suggerire qualche considerazione circa il tema de “La cura al confine. Le relazioni di cura tra incontro e cultura dello scarto”, mi limito a tener d’occhio la cura,o ‘care’, come orizzonte completo della ‘cure’ con cui hanno a che fare tutti coloro che sono afflitti da malattie, i loro familiari, gli operatori sanitari e quanti si occupano come volontari di essa. Per inciso faccio notare che, come mostrano studi rigorosi, il lavoro come tale oggi sta diventando sempre più un misto di conoscenza e di cura. Quindi questa categoria che voi avete esplicitato e studiato acquista ormai un significato universale nella nostra società in profondo cambiamento d’epoca. Se non si vuol cadere né nel limbo delle buone intenzioni e neppure scivolare sul piano inclinato dell’ideologia, parlare di cura implica per i cristiani una importante premessa. Il Verbo di Dio facendosi carne non intende preservare l’esistenza terrena dell’uomo dal dolore, dalla sofferenza e dalla morte. Così, sinteticamente, potremmo dire che il Figlio di Dio non è venuto al mondo per risparmiare all’uomo l’angoscia legata strutturalmente alla sua contingenza, o finitudine, che si esprime in modo acuto nel dolore, nella sofferenza e nella morte terrena. Questo non significa che la Parola di Dio nutra per l’angoscia un particolare interesse o che addirittura la promuova. Dolore, sofferenza, morte, che generano angoscia sono certo “potenze oscure”che si impongono però nella realtà quotidiana. Anzi esse, in un certo senso, sono una sorta di denominatore comune a tutti gli uomini a cui riportare la realtà quotidiana stessa[1]. Per questo, senza trascurare il volto tragico di queste dimensioni dell’esistenza, il cristiano non accede ultimamente alle diverse letture proposte, soprattutto nella seconda parte dell’epoca moderna, sia dall’ontologia, sia dalla filosofia della religione – si possono citare in proposito pensatori come Schelling (1775-1854), Hegel (1770-1831) e Franz Baader (1765-1841) –, sia dalle letture esistenzialiste che, dopo il tentativo di Kierkegaard (1813-1855) – unico nel suo genere a studiare questi temi teologicamente – si sono sviluppate fino a Freud (1856-1939) e Heidegger (1889-1976). Pur ascoltando e studiando queste idee, il cristiano ha una posizione ultimamente diversa. Da questo punto di vista si può concordare con Balthasar che per il cristianesimo queste tre realtà mortificanti la vita dell’uomo siano in un certo senso naturali. Esse si rapportano infatti sia alla “realtà quotidiana”, sia alla “irrealtà” del sogno. Consideriamo in proposito la forza sfidante del passaggio di Siracide 40,1-7 che vale la pena riportare per esteso: «Grandi pene sono destinate a ogni uomo e un giogo pesante sta sui figli di Adamo, dal giorno della loro uscita dal grembo materno fino al giorno del ritorno alla madre di tutti. Il pensiero dell’attesa e il giorno della fine provocano le loro riflessioni e il timore del cuore. Da chi siede su un trono glorioso fino a chi è umiliato su terra e su cenere, da chi indossa porpora e corona fino a chi è ricoperto di panno grossolano, non c’è che sdegno, invidia, spavento, agitazione, paura della morte, contese e liti”. E adesso dice qualcosa di molto interessante per gli operatori ‘psico’ (scritta 2200 anni fa!): “Anche durante il riposo nel letto il sogno notturno turba i suoi pensieri. Per un poco, come niente, sta nel riposo e subito nel sonno si affatica come di giorno, è sconvolto dalla visione del suo cuore come chi è scampato da una battaglia. Al momento di mettersi in salvo si sveglia, meravigliandosi dell’irreale timore».

Il tema dell’angoscia come risposta naturale a dolore, sofferenza e morte terrena, se “ridimensionato” nei termini proposti, è sempre, a ben vedere, domanda di cura. Una situazione umana come questa non può non domandare cura, accoglienza, relazione.

 

  1. L’angoscia di Cristo, l’angoscia del peccatore

Questa premessa, decisiva per la comprensione adeguata del tema della cura, mi spinge, saltando per il momento taluni passaggi, a portare la vostra attenzione direttamente sull’esperienza drammatica, ma salvifica dell’angoscia mortale del Crocifisso. La Sua passione contrassegnata dalla sudorazione di sangue nell’Orto degli ulivi («In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra», Lc 22,44), la Sua morte con l’uscita di sangue e acqua al colpo di lancia del soldato romano, documentano con chiarezza che nel corpo di Cristo – veicolo di tutta la Sua singolare, divina Persona, vero uomo e vero Dio – si dà la via e la misura per affrontare queste potenze realissime e pur sempre misteriose. La fede cattolica, ma questo vale universalmente, ci insegna che ogni grazia è puro dono che proviene dalla Croce e perciò ogni gioia viene dalla Croce, è sempre marcata dal segno della Croce, come toccate con mano nel vostro lavoro tutti i giorni.

È importante qui formulare due precisazioni che scaturiscono dall’angoscia di Cristo, che si lascia concentrare nella celeberrima affermazione di Gesù: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42).

La prima è legata all’esperienza del peccato. Non si intende creare nessi meccanici tra dolore, morte, angoscia e il nostro peccare. E tuttavia non possiamo in alcun modo trascurare il dato che l’angoscia salvifica di Cristo si è esplicitata nella conoscenza totale, dovuta ad un perfetto atteggiamento di confessione, di quale orrenda tragedia sia il peccato. L’esperienza dell’abbandono del Padre da parte del Crocifisso (che portando su di sé i nostri peccati non sente più il Padre) mostra il peccato in tutta la sua spaventevole natura. Lontananza assoluta dal Padre fino a smarrirne il volto. Abisso mortale vinto solo dall’offerta del Crocifisso garantita dallo Spirito che, anche in quell’oscuro momento, tiene uniti il Padre ed il Figlio.

La singolarità irripetibile della morte di Cristo è anche singolarità della sua angoscia, ma ad essa il cristiano non può non guardare dal momento che Cristo ha scelto il dolore, la sofferenza, la morte e l’angoscia in nostro favore, al nostro posto. La Sua è un’angoscia vicaria. Egli vive l’esistenza come dono (pro-esistenza): vale a dire un’esistenza a favore, che è l’origine della cura.

Non possiamo qui non inserire di sfuggita la notazione che le strabilianti possibilità della cure oggi a nostra disposizione inducano spesso anche noi cristiani a rimuovere questo orizzonte non solo dalla nostra pratica di cura, ma anche dal nostro modo di riflettere su di essa. Come si può parlare di cura e di scarto senza un orizzonte di senso che pure ogni giorno l’ammalato, i parenti e gli operatori sanitari toccano con mano, magari senza saperselo dire e, soprattutto, comunicare?

Il secondo elemento che emerge dalla singolare angoscia di Cristo è la vittoria su di essa: «Abbiate coraggio! Io ho vinto il mondo» (Gv 16,33). Certo, questa vittoria diventa anche nostra solo nella prospettiva del Giudizio, sotto il quale il tempo della Chiesa, il nostro tempo, già si trova (escatologia: morte, giudizio, inferno e Paradiso). E il Giudizio è qualcosa di presente, non solo nel passaggio mortale. Si deve infatti distinguere bene tra l’angoscia «derivante dal peccato che al cristiano è proibita dall’angoscia derivante dalla croce» come dice Balthasar. Nella prima «si notano le proprietà caratteristiche del peccato: l’avversione, la fuga, l’irrigidimento della vita, la sterilità, lo smarrimento, la caduta nel precipizio, l’angustia, la reclusione, il rintanarsi, l’esilio», mentre l’angoscia che deriva dalla croce «non è nient’altro che l’amore di Dio che assume in sé tutto questo mondo di angoscia per superarlo soffrendo, un amore che in tutto è l’opposto dell’esperienza del peccatore»[2]. Nel dinamismo della conversione reso possibile dall’atteggiamento di confessione si produce, per grazia, un trapasso dall’angoscia del peccato a quella della Croce.

Possiamo ora domandarci qual è lo scopo di questo trapasso. Non può che essere la vita dell’uomo nuovo caratterizzata da una liberazione che dilata la sua personalità e la rende feconda. Si potrebbe in proposito mettere a confronto l’angoscia di Giobbe di fronte alle sue prove tremende e quella di Marta e Maria di fronte a Gesù che giunge tardi – ma non in ritardo direbbero i Padri – alla tomba dell’amato Lazzaro.

Tuttavia sarà sufficiente qui dire con grande chiarezza che l’angoscia della Croce che vince in noi quella del peccato è chiaramente proposta, direi quasi imposta, dalla sollecitudine per il prossimo.

A ben vedere siamo così giunti ad individuare il locus specifico della cura.

 

  1. L’angoscia: affermazione del reale

Nella troppo rapida e rapsodica descrizione delle “potenze” (dolore, sofferenza, morte e angoscia) che urgono all’azione di cura, abbiamo già avuto modo di introdurre il passo che sto per proporvi. Lo abbiamo fatto individuando in queste tre potenze la strada per il riconoscimento e l’affermazione del reale. Nel concreto della vita umana di tutti i tempi, di tutti i popoli, di tutti i singoli senza la coscienza di questi poteri che angosciano si manca “il reale”, non lo si assume integralmente. Per inciso conviene sottolineare di nuovo il processo di conversione e di cambiamento che questo importante risultato richiede: il passaggio dall’angoscia del peccato all’angoscia della Croce.

Quando appaiono dolore, sofferenza, morte ed angoscia l’uomo, qualunque uomo, scopre definitivamente la sua finitudine, la sua contingenza, la sua fragilità. Che posto ha questa scoperta nella esperienza comune ad ogni uomo? Cerchiamo anzitutto di ri-descriverla brevemente. L’esperienza pratica dell’umana conoscenza poggia su due dimensioni. Una prima (che potremmo chiamare integrale, metodologica, ontologica) ci dice che il reale è intellegibile, si dà a conoscere e l’uomo può ospitarlo. Diceva un mio vecchio professore contemplando dalla terrazza di Venegono, in una splendida giornata invernale particolarmente ventosa le bellezze del Monte Rosa: «Vedi, io possiedo il Monte Rosa, questa bellezza è mia»: si riferiva appunto al dato che la realtà è intellegibile e che l’uomo è capace di ospitarla. E infatti la riflessione teoretica sulla conoscenza è oggi più problematica perché questo doppio dato ontologico viene messo in crisi.

La seconda dimensione dell’esperienza comune ad ogni uomo è legata al suo quotidiano. Se la prima (integrale) mette in campo il metodo (modo) con cui la realtà mi si dona, la seconda (che chiamerò elementare) mi impone dei contenuti. Mi riferisco all’esperienza quotidiana ed universale degli affetti, del lavoro e del riposo (come sorgente del tempo ritmato, fattore di equilibrio tra affetti e riposo). A questa esperienza si collegano quelle del male fisico e morale sorgente di angoscia e di cura. Anche il nostro pensiero pensa sempre qualcosa, la nostra volontà pure, e neppure si può concepire la dimensione sessuale senza un oggetto: se eliminiamo questo procreazione e sessualità diventano puri meccanismi alla ricerca di un orientamento perduto.

Sono questi gli elementi che ci consentono di cogliere la realtà come il fattore normante la conoscenza e l’azione generando esperienza. Spesso abbiamo definito la realtà come trama di circostanze e di rapporti per mettere in evidenza come essa viene al nostro incontro coinvolgendo simultaneamente l’intreccio inestricabile di volontà (fin nelle sue radici preconsce ed inconsce, per usare l’espressione un po’ generica di Maritain) e di ragione. Da qui l’esperienza. Essa esige di individuare un principio pratico unificatore che ci consenta di cogliere la realtà in termini adeguati, cioè di conoscere la realtà in modo da poterne comunicare la verità. Possiamo nominare questo principio pratico unificatore con la parola senso, utilizzata nella sua duplice valenza, come significato – ciò che mi muove all’azione – e come direzione di cammino.

Così, ad esempio, seguire Cristo è il senso della vita cristiana. Va tuttavia aggiunto che la questione del senso è insopprimibile e resta sempre aperta anche per i suoi negatori, agnostici o atei che siano. Come attesta l’esperienza di ognuno, nel cuore dell’uomo c’è il desiderio di durata.

 

  1. Il peso del corpo

Sulla base di queste premesse è necessario introdurre un altro dato fondamentale che ci avvicina ancor di più al tema della cura. Mi riferisco al peso della natura corporea dell’umana esistenza.

Non si citerà mai a sufficienza l’affermazione di Gaudium et spes 14 che l’uomo è «uno di anima e di corpo». Nella vostra pratica questa affermazione è la più imponente, eppure tutto il vostro Convegno è là a mostrare che, oserei dire, quasi normalmente è rimossa. Invece il corpo è il fattore di mediazione tra l’io e la realtà[3]. L’importanza di questa affermazione è di tutta evidenza nel caso della malattia e delle potenze del dolore, della sofferenza, della morte e dell’angoscia.

Come intendere il corpo e la sua imprescindibilità dal punto di vista della relazione all’altro, come persona, come comunità? Non mancano in proposito importanti riflessioni. Quella che mi sembra ad un tempo più semplice ed attuale è data dalla relazione tra corpo e carne messa a tema, non solo in ambito filosofico, negli ultimi decenni. Il corpo (Husserl) (1859-1938) nel senso del corpo-oggetto, Körper, indica qualche cosa di inanimato, di materiale solamente, mentre il mio corpo vissuto e vivente è Leib, perché è senziente (i Körper “sono mossi”, io “mi muovo”): mentre un quadro è Körper, io sono Leib. Sono certo che, sia pur implicitamente, questo è il dato che vi ha spinti a mettere a tema il concetto di cura e del suo confine e, di fatto, il dato dello scarto.

Si apre qui la necessità di mostrare il nesso del corpo con il tema della carne[4]. La strada che mi sembra più fruttuosa in proposito è quella di passare dall’autoevidenza originaria dell’eros[5].

Si tratta di affrontare il rapporto tra corpo e carne come si vede dalla mediazione dell’eros.

 

  1. La mediazione dell’eros

Afferma Benedetto XVI nella Deus caritas est che l’esperienza elementare dell’amore tra l’uomo e la donna [esperienza a cui] «l’antica Grecia ha dato il nome di eros, non nasce dal pensare e dal volere, ma in certo qual modo si impone all’essere umano»[6]. Noi infatti ci troviamo in un corpo, un corpo sempre situato nella differenza sessuale. A partire da questa esperienza ogni uomo ed ogni donna possono dire qualcosa dell’amore. Un qualcosa che urge ad imparare ad amare. Dice Evdokimov: «Nessuno tra i poeti ed i pensatori ha trovato la risposta alla domanda: “Che cosa è l’amore?”… Volete imprigionare la luce? Vi sfuggirà di tra le dita»[7].

Eppure ognuno di noi sa immediatamente quando c’è luce e quando c’è buio. Così succede con l’esperienza dell’eros: è autoevidente. Cosa significa propriamente?

Il contenuto di questa formulazione, nella sua precisione terminologica, può forse risultare un po’ ostico. In che modo l’esperienza elementare dell’eros è autoevidente?

Per indagare su questo affascinante dato dell’umana esperienza, ho trovato spesso di grande utilità ricorrere al genio letterario. In questo caso voglio citare un folgorante passaggio di un romanzo di C. S. Lewis (1898-1963), Quell’orribile forza, il terzo volume della sua trilogia di fantascienza. È forse il volume meno amato dei tre (gli altri due sono Al di là del pianeta silenzioso e Perelandra), ma io trovo che Lewis, con la sua proverbiale raffinatezza britannica, vi difenda con efficace realismo (per lui la fantascienza non è fuga) il principio-amore (eros) affrontato anche nel gustoso saggio I quattro amori. Non è possibile in questa sede descrivere, anche solo sinteticamente, la trama. Mi limito ad estrapolare una citazione in cui l’autore riesce a dire con efficacia in cosa consista l’eros in tutta la sua complessità: «L’amore, dice Platone, è figlio del Desiderio. Il corpo di Mark [il protagonista con la moglie Jane] era stato più saggio di quanto lo fosse stata, fino a poco tempo prima, la sua mente [infatti, Mark partecipava alla costruzione materiale di una sorta di città rigorosamente tecnoscientifica, un mondo nuovo che inseguiva l’utopia dell’onnipotenza della scienza e della tecnica], e anche i suoi desideri sensuali erano l’indice vero di qualcosa che a lui mancava e a cui Jane aveva dovuto supplire. All’inizio, quando aveva attraversato l’arido mondo polveroso in cui albergava la sua mente, lei era stata come una pioggia di primavera; non aveva sbagliato ad aprirsi a quella freschezza. Aveva sbagliato solo quando aveva presunto che il matrimonio in sé gli desse il diritto o il potere di appropriarsene. Adesso capiva che era come pensare di comprarsi un tramonto acquistando il campo dal quale lo si è visto»[8].

L’espressione di Lewis è veramente acuta: «Il corpo di Mark era stato più saggio di quanto lo fosse stata la sua mente […] e anche i suoi desideri sensuali erano l’indice vero di qualcosa che a lui mancava». È l’esperienza immediata che ognuno di noi fa, nel suo costitutivo orientamento all’altro, a mostrare l’autoevidenza dell’eros. Potremmo parlare, parafrasando Lewis, di una saggezza del corpo quale via di accesso, sempre aperta e possibile ad ogni uomo, alla relazione feconda con l’altro, all’esperienza dell’amore: eros si apre così, senza opposizione, ma non senza maturazione, ad agape.

Questa autoevidenza è strutturalmente legata al dato che il corpo dell’uomo e della donna, che sono entrambi “carne”, corpo senziente e vivente, esistono sempre situati nella differenza sessuale.

Eppure non sempre la specificità della differenza sessuale umana è stata riconosciuta in modo adeguato. Nelle specie animali la sfera e la pratica sessuale è un dato “naturale”, affidato all’istinto, che ha come orizzonte la sopravvivenza della specie. Anche nell’uomo è così?

Penso proprio di no. Innanzitutto perché questa autoevidenza dell’eros, che mi si offre nella mia stessa “carne” (corpo vivente), per la sua costitutiva apertura all’altro è di natura dinamica, mi dice che il mio essere situato nella differenza sessuale è donato, in ultima analisi, alla mia libertà. L’essere situati nella differenza sessuale non è riducibile ad una mera sequenza ripetitiva di comportamenti, ma invoca scelta, autodeterminazione, senso. Nell’assunzione libera della differenza sessuale, l’apertura all’altro domanda una decisione per l’altro che, contemporaneamente, mi spalanca ad una conoscenza progressiva della mia sessualità. Potremmo parlare in proposito di un processo di “sessuazione” (il neologismo, che proviene dall’analisi del profondo, è impervio ma esprime bene la dinamica del processo stesso). Inizia così l’itinerario dall’eros verso l’agape a cui allude Benedetto XVI nella Deus caritas est: «Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente – fascinazione per la grande promessa di felicità – nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà “esserci per” l’altro. Così il momento dell’agape si inserisce in esso»[9]. Non c’è più dualismo, né opposizione: è anche una risposta ad un’osservazione mossa nei confronti dei cattolici di non aver saputo mettere al centro l’esperienza dell’amore nel contesto dell’uomo concepito uno di anima e di corpo. Si deve riconoscere, senza per questo cadere in relativismi equivoci che dissolvono la differenza stessa, che la sessualità possiede anche un carattere culturale.

Talvolta l’antropologia classica, anche quella cristiana, non è riuscita a mettere in rilievo l’importanza di questo processo di “sessuazione”, oscurando di conseguenza uno dei cardini della concezione della differenza sessuale e dell’amore: il corpo sessuato è il corpo personale (singolare) e spirituale (libertà).

Il testo di Lewis lo insinua con delicatezza: i desideri sensuali dell’uomo Mark erano indice di qualcosa che gli mancava ma che era in grado di ricevere dalla donna Jane. Il proprio corpo personale, in forza della differenza sessuale, contiene un’apertura spirituale. Un’apertura che situa l’uomo-donna nell’esistenza come capace di ricevere e di donare la vita (fecondità).

La seconda parte della citazione di Lewis illumina questa apertura alla relazione che, perfino nel rapporto tra gli sposi, resta sempre ricettiva. Solo così può essere feconda e duratura: «All’inizio, quando aveva attraversato l’arido mondo polveroso in cui albergava la sua mente, lei era stata come una pioggia di primavera; non aveva sbagliato ad aprirsi a quella freschezza. Aveva sbagliato solo quando aveva presunto che il matrimonio in sé gli desse il diritto o il potere di appropriarsene. Adesso capiva che era come pensare di comprarsi un tramonto acquistando il campo dal quale lo si è visto». L’amore come dono di sé ha sempre il timbro del gratuito: non è possibile appropriarsene.

La considerazione del corpo come vivente e vitale si rivela nell’autoevidenza dell’eros (autoevidenza significa che ogni singolo uomo “sa” dell’eros indipendentemente dalla capacità speculativa di esprimerla), in cui si innesta l’agape. Questa autoevidenza, se ben connessa ai due aspetti prima richiamati – angoscia e peso del corpo –, ci mette davanti al senso compiuto della cura intesa come relazione sostanziale. Se non si ama in modo realistico non si cura. E questo vale in modo del tutto radicale con il paziente. Qualunque atto clinico, anche quelli che vengono e verranno dall’editing del genoma e dall’epigenetica, non diventerà cura e il fossato tra care e cure si allargherà ulteriormente.

 

 

  1. Cura e risurrezione della carne

Manca ora un ultimo passo, che sarà come i precedenti anch’esso puramente allusivo, sul nesso senso-cura e su come questo nesso può sempre, in ogni caso, garantire un esito positivo alla cura. Positivo nel modo dell’atto del morire.

Per descrivere questo rapporto come decisivo parto da una domanda che nasce da una mia esperienza diretta. Essa assume la forma del dubbio, anche se non del dubbio scettico ma, come si imparava al liceo studiando Cartesio, del dubbio metodico.

Ecco la questione. Per ogni ammalato le potenze del dolore, della sofferenza e della morte terrena genesi di angoscia nascondono una domanda assai insidiosa: “È possibile trascendere definitivamente (fare a meno) di questo corpo ed essere ancora viventi?” Se il corpo possiede, nel suo essere carne, questa forza mediativa incoercibile cui abbiamo fatto cenno, documentata in maniera originaria e indiscutibile dalla potenza bramosa dell’eros, che in sé è chiamato a giungere fino ad aprirsi all’agape, il corpo è insuperabile (indeducibile) o no?

Uno degli elementi preparatori di questo vostro Convegno è stato la Mostra su Cecily Sanders, di cui ho avuto modo di vedere il catalogo. Un esempio straordinario del cammino adeguato alla scoperta del senso: assecondare criticamente la realtà. Tuttavia l’invenzione delle cure palliative come forma di relativo dominio del dolore, della sofferenza e dell’angoscia che da essi derivano e persino sull’accompagnamento pacifico del morente, è sufficiente a farci parlare di una vittoria sulla morte o non ci mantiene all’interno della condanna a morte, come diceva Ionesco («una cosa insieme certa e incerta»), del “crepare” (Adorno[10]) come avverrebbe nella società di oggi o, nella migliore delle ipotesi, quella di Rilke[11] che prega Dio perché ognuno possa vivere la sua morte personale? Quale via percorrere? Non certo, l’abbiamo già detto all’inizio, per togliere l’elemento naturale insito in queste potenze, ma perché si possa parlare di vittoria su di esse?

Dobbiamo rileggere i paragrafi 4, 5 e 6 della nostra riflessione nell’orizzonte della prima parte.

Da questa rilettura, sul rapporto senso-cura dobbiamo trattenere un dato fondamentale universalmente riconoscibile. Il corpo vivente non ha ultimamente a che fare con la sua interiorità spaziale e quantitativa di tipo biologico, ma prende forma dall’intimo dell’io stesso. È in questo modo che raggiunge una decisiva importanza per il darsi dell’esperienza comune di ogni uomo, per il nostro dire “e io che sono?”. La singola persona è, nello stesso tempo, totalmente aperta alla trascendenza – esigita dalla natura stessa dell’atto di libertà che pur possedendo una propria energia propositiva (tetica) non può non uscire necessariamente da sé –, mentre resta radicata, proprio attraverso il linguaggio del corpo, nel mondo (immanenza).

Il mistero cristiano della risurrezione della carne, che non può essere preteso dalla natura, e che ricomprende anche il senso naturale del rapporto senso-cura, rappresenta una risposta alla drammatica domanda sull’oltre della morte.

Noto anzitutto che il mistero della risurrezione della carne porta con sé l’importante dato pre-cristiano dell’immortalità dell’anima, ma lo trasfigura in termini radicali. La fede ci insegna che chi muore nel Signore partecipa alla sua opera di redenzione. La morte diventa allora per ciascuno di noi l’ultimo dono terreno a chi resta e, nel contempo, ingresso in quel Paradiso a cui tutti agogniamo con tutte le fibre del nostro essere. La morte è ab-bandono.

Nostro Signore non ci ha spalancato la conoscenza piena del “come” sarà l’aldilà. Egli si è limitato a tracciare un sentiero offerto al nostro indispensabile atto di libertà teso ad accogliere, con l’aiuto della Sua grazia e nella ragionevole fede, il dono di poterLo vedere faccia a faccia insieme con tutti i nostri cari già passati all’altra riva. Giustamente San Paolo dice che siamo chiamati quaggiù ad aggiungere ciò che manca nella nostra carne (torna qui la parola decisiva) ai patimenti di Cristo. Ai patimenti di Cristo, alla sua angoscia di Crocifisso non manca nulla perché Egli, infatti, attraverso il dolore, la sofferenza e la morte sulla croce ha vinto il maligno, il peccato e la morte stessa. In me, in te, in noi manca l’atto della libertà che finalmente, nella morte, si piega all’adesione totale della Trinità che dal nostro concepimento non cessa di attirarci a Sé.

Si può intuire dalla Parola di Dio che l’aldilà non va visto in termini spazio-temporali ma in termini di relazione. Ecco la cura: niente può battere il faccia a faccia della relazione personale! Come una sposa fedele il cui marito è lontano e di cui non ha notizie (pensiamo all’ARMIR in Russia) non cessa di restare in relazione con lui, come due fidanzati separati dall’Erasmus non cessano di restare in relazione, così superando lo spazio ed il tempo, dobbiamo pensare il Paradiso come una relazione beata nella grande casa di porte aperte che è la Santissima Trinità («… e così per sempre saremo con il Signore», 1Ts 4,17b).

 

  1. Suggerimenti

Volutamente non entro nell’articolato e complesso mondo delle implicazioni pratiche con cui avete ogni giorno a che fare. Per due ragioni: primo perché lo avete già fatto e non solo nel lavoro di questi giorni. Secondo perché tocca inevitabilmente a voi. Vi lascio però qualche suggerimento limitandomi a quattro titoli:

  1. a) Il positivo della finitudine (non limite), da non confondere con lo scarto. Essa dice figliolanza e mette in risalto che noi siamo voluti ed amati da Dio. Non riesco a trovare una ragione così potentemente adeguata per la cura. Per quanto nel mondo contemporaneo Dio sia lasciato alle spalle a partire dalla inespressa obiezione: “Perché sono creato come finito?”, “Perché io non sono Dio?”, il riferimento vivente a Dio, che i cristiani toccano con mano in Cristo-Gesù, giustifica la passione per l’umano – che può essere definita come cura. Pensiamo ai martiri del nostro tempo.
  2. b) Cura come condizione del compimento dell’io. Essa è il livello normale e più elevato dell’autentica relazione all’altro. È dilatazione della relazione di carne e di sangue (familiare).
  3. c) Cura come cartina tornasole del grado di civiltà di un popolo e di un paese.
  4. d) E contrario emerge in cosa consiste l’esperienza dello scarto di cui si debbono ovviamente studiare le condizioni psicologiche, sociologiche e culturali da cui nasce e che produce.

 

  1. L’incarnazione: la cura di Gesù Cristo

Mi congedo con una citazione di sant’Agostino: «Come la cura è la via per recuperare la salute, così fu della cura adottata da Dio: si rivolse a dei peccatori per guarirli e rimetterli in salute. E come quando i medici fasciano le ferite lo fanno non alla buona ma con arte, per cui dalla fasciatura deriva non solo un’utilità ma anche una specie di bellezza, così è stato della medicina della Sapienza, quando assumendo l’umanità [incarnandosi] si è adeguata alle nostre ferite… Si è comportato come colui che cura le ferite del corpo. Usa, a volte, rimedi contrari (cose fredde a ciò che è caldo)… Usa anche rimedi congeneri, come una benda rotonda ad una ferita rotonda… Così fece la Sapienza di Dio quando volle curare l’uomo»[12].

«Noi crediamo nella resurrezione del Signore dai morti… questo evento… dà alla nostra fede… una grande speranza… Fin d’ora per consolarci del nostro pellegrinaggio»[13], «[perché ] siamo in via – una via non consistente in luoghi ma in affetti…»[14].

Curare l’altro, curare l’ammalato è dare forma veramente reale alla forza definitivamente liberante della fede. È sempre, in ogni caso, dare vita.

[1]Cfr. H. U. von Balthasar, Il cristiano e l’angoscia, in Gesù e il cristiano, Scritti minori, Jaca Book, Milano 1998, vol. 25, p 32.

[2]Ibid, 58.

[3]A questo proposito nota Balthasar: «Il mio corpo è una zona tramite fra me e il mondo. Il mio corpo appartiene a me non come un oggetto, ma “come fosse un pezzo di me”. E tuttavia esso è qualcosa come un pezzo del mondo esterno, fatto che mi viene spesso richiamato (ad esempio in un’amputazione). In quanto mi appartiene esso è ciò mediante cui io – spesso non dolcemente – urto in altri corpi e solo allora mi accorgo che il mondo, gli altri, non sono per il mio spirito dominabili nella loro libera alterità», H. U. von Balthasar, La mia opera ed Epilogo, Jaca Book, Milano 1994, 153.

[4]Cfr. M. Henry, Incarnation. Une philosophie de la chair, Seuil, Paris 2000, 135-238; J. L. Nancy, Corpus, Metaillé, Paris 2000.

[5] Cfr. A. Scola, L’amore tra l’uomo e la donna. Persona, famiglia e società, Centro Ambrosiano, Milano 2012, 15-23.

[6]Benedetto XVI, Deus caritas est, 3.

[7]P. Evdokimov, Il sacramento dell’amore, CENS, Sotto il Monte 1983, 121.

[8] C. L. Lewis, Quell’orribile forza, Adelphi, Milano 1999, 477.

[9]Benedetto XVI, Deus caritas est, 7.

[10]«Un miserevole inganno con cui si cerca di nascondere il fatto che gli uomini, ormai, crepano e basta», T. W Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1988, 284.

[11]«Dà, o Signore, a ciascuno la sua morte. La morte che fiorì da quella vita, in cui ciascuno amò, pensò, sofferse» R. M. Rilke, Das Buch von der Armut und vom Tode, Das Stundenbuch 1903.

[12]Agostino, La dottrina cristiana, Città Nuova, Roma 1992, 14, 13.

[13]Ibid, 1, 15,14.

[14]Ibid, 1, 17, 16.

 

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