Piste di riflessione a partire dall’analisi esistenziale di Viktor E. Frankl – Domenico Bellantoni
Domenico Bellantoni. Psicologo Psicoterapeuta – Roma
1. Introduzione
Viktor E. Frankl (1905-1997), da molti semplicemente conosciuto come lo “psicologo nei lager”, in virtù della drammatica esperienza di reclusione vissuta in quattro diversi campi di concentramento (cfr. Frankl, 2012), è stato psichiatra e psicoterapeuta. Nonché fondatore dell’approccio psicologico denominato “Logoterapia e Analisi esistenziale”.
Tale modello intende occuparsi tanto dell’uomo che vive situazioni di sofferenza psichica quanto, in chiave educativa e di promozione del benessere, delle condizioni che favoriscono il pieno sviluppo della persona umana.
Tra i fattori centrali dell’approccio frankliano spicca sicuramente il ruolo assegnato alla ricerca di senso della vita, senso che se individuato potrà aiutare a trovare un significato in qualsiasi situazione ci si venga a trovare, da cui il titolo dato alla seconda edizione tedesca del libro di cui sopra: TrotzdemJazumLebensagen.EinPsychologeerlebtdasKonzentrationslager (“Dire di sì alla vita, nonostante tutto. Uno psicologo nei lager”).
Risulterà immediatamente comprensibile l’accostamento tra questa breve introduzione al pensiero frankliano e il tema affrontato in questo contributo, che riguarda appunto la speranza e il suo legame con la domanda di senso, nonché la contestualizzazione di tali temi nell’ambito della “cura” e della psicoterapia.
In tal senso, in tre momenti distinti ma tra loro interconnessi e richiamantesi, cercherò di rispondere a tre quesiti fondamentali: a) Come emerge il senso religioso nel contesto di una psicoterapia? b) In quali attenzioni e modalità d’intervento si concretizza tale emergenza di senso? c) Quali caratteristiche assume la stessa relazione terapeutica alla luce delle prime due considerazioni?
Chiuderò questa riflessione con alcune esemplificazioni, a partire dalla mia esperienza clinica, e con una conclusione quale sintesi dell’intero contributo.
2. Come emerge il senso religioso in terapia?
Va detto, innanzitutto, a scanso di equivoci e di facili quanto infondati giudizi, che l’Analisi esistenziale, secondo l’intendimento del suo stesso fondatore, è una psicoterapia assolutamente laica (Frankl, 2005b, pp. 248-249; idem, 2016, p. 99). D’altra parte è lo stesso autore viennese che evidenzia come, se da una parte la psicoterapia, perseguendo il benessere psichico della persona, può promuovere un approccio più maturo dell’individuo al fenomeno religioso, dall’altra è anche vero il contrario, per cui, come evidenziato anche da numerose ricerche sperimentali, una fede religiosa matura rappresenta un positivo fattore interveniente sulla capacità resiliente e sullo complessivo benessere psicologico della persona (Frankl, 2014, pp. 90-91; Bellantoni e Montalto, 2016).
Pertanto, in relazione a quanto sopra, il clinico dovrebbe essere in grado di valorizzare l’esperienza religiosa eventualmente introdotta dal paziente nel corso della psicoterapia, evitando due rischi contrapposti: da una parte quello di un indottrinamento religioso a partire dalla eventuale esperienza confessionale del clinico, dall’altra quello di una svalutazione o di un’omessa valorizzazione dell’esperienza religiosa del paziente.
In effetti, l’esperienza religiosa, come evidenziato in particolare dall’approccio della Psicologia dell’atteggiamento religioso, rientra a pieno titolo nell’ambito delle diverse condotte umane e come tale andrà accolta e considerata all’interno del piano di trattamento (Frankl, 2014, p. 93; Fizzotti, 2008, p. 15).
A questo punto, entrando nel dettaglio della domanda che ci siamo posti nel titolo di questo paragrafo, passiamo a descrivere brevemente attraverso quali modalità, esperienze, opportunità può emergere il senso religioso nell’ambito di una psicoterapia (cfr. Fig. 1).
In effetti, durante il processo psicoterapeutico e all’interno della relazione con il clinico, nel contesto di un “incontro” autentico tra due persone, il tema del senso religioso può emergere a partire da una serie di aspetti caratterizzanti ciò che avviene in psicoterapia e, in particolare, in una psicoterapia, come quella frankliana, che si qualifichi come fenomenologico-esistenziale.
a) L’appello mosso dalle situazioni-limite. Spesso, il paziente si reca in psicoterapia motivato dal fronteggiamento con una situazione particolarmente drammatica, almeno per quelle che sono le risorse della persona. Ciò crea uno squilibrio che si presenta come ambivalente, originando una crisi (dal greco krisis, che significa “scelta” o “decisione”, il termine indica che si crea l’opportunità per una crescita personale, per un’assunzione di responsabilità): da una parte essa potrà rivelarsi un fattore patogenico e costringente in negativo il benessere della persona, una sconfitta e un fallimento; dall’altra, però, può essere occasione ed opportunità per una crescita, in chiave resiliente, una “prestazione” capace di attivare risorse “vecchie e nuove” verso il raggiungimento di un nuovo equilibrio a un più alto livello di maturità. Il ricorso o il recupero della risorsa spirituale e/o religiosa rappresenterà, all’interno di tale fase critica, una possibilità legata a tale dinamica (cfr. concetto frankliano di “valori di atteggiamento”; Frankl, 2016, pp. 77-95; Bellantoni, 2011a, p. 323).
b) Il significato della sofferenza. In continuità con quanto detto riguardo l’aspetto precedente, l’emersione del senso religioso può essere innescata da una condizione in cui non sia possibile eludere la sofferenza, in termini sia qualitativi che quantitativi. Ciò appare particolarmente vero nell’attuale contesto socio-culturale che si caratterizza come essenzialmente edonista (cfr. visione antropologica frankliana dell’Homo Patiens; Frankl, 1990, p. 43; Bellantoni, 2011a, pp. 110-111).
c) Religiosità estrinseca vs. intrinseca. Un’altra occasione in cui è possibile far emergere il senso religioso, nella sua autenticità e funzionalità al benessere esistenziale della persona, è rappresentata dal confronto, tra terapeuta e paziente, circa la visione e l’atteggiamento religioso manifestato da quest’ultimo. Spesso, infatti, la psicoterapia diviene anche il “luogo” in cui far contattare un’esigenza di maturazione della propria esperienza religiosa (concetto di religiosità estrinseca o intrinseca di Allport e successiva introduzione della religiosità quest, da Leslie J. Francis; Allport e Ross, 1967; Francis e Ross, 2000; Ross e Francis, 2010).
d) Luoghi comuni, pregiudizi. Il setting terapeutico, che si caratterizza per l’apertura e l’esplorazione dei vissuti del paziente, in un clima di reciprocità e rispetto, diviene l’occasione per poter individuare, contestualizzare, discutere su eventuali luoghi comuni e pregiudizi circa la religione, presenti nelle convinzioni del paziente o nel più ampio humus socio-culturale in cui questi è inserito. Ciò permette di “purificare” e far maturare il senso religioso del paziente.
e) Esperienze e storia di vita. È evidente come la narrazione autobiografica permetta di considerare i significati che la persona ha assegnato alle diverse esperienze della propria vita, arrivando a evidenziarne il grado di soddisfazione/insoddisfazione in riferimento al procedere del percorso psicoterapeutico, alla mutata interpretazione dei fatti e a una eventuale riconsiderazione di una “lettura” spirituale e/o religiosa di questo o quell’evento.
f) Interpretazione dei sogni. Viktor Frankl ha evidenziato come ciascun livello della persona (ontologia dimensionale) ˗ biologico, psicologico e spirituale ˗ sia caratterizzato dai tre sistemi psichici identificati dalla prima topica di Sigmund Freud: conscio, preconscio e inconscio. In tal senso, il fondatore dell’Analisi esistenziale afferma, accanto a un inconscio psicologico traumatico, l’esistenza di un inconscio di natura spirituale, in cui sarebbe sempre possibile, per la persona, contattare i significati spirituali e/o religiosi, ciò ad esempio nel lavoro sul materiale onirico (Frankl, 2014, pp. 47-58).
g) Religiosità rimossa. In continuità col punto precedente, il contesto psicoterapeutico può rappresentare un “luogo” privilegiato per l’emersione di materiale psichico rimosso che abbia a che fare con esperienze religiose di natura personale, familiare e/o istituzionale. Non di rado, la “repressione”, rimozione di tali contenuti rimanda a esperienze vissute come traumatiche, che “agiscono” inconsciamente influenzando la condotta della persona e, anche, il suo rapporto con la religione: «tale trascendenza repressa si manifesta talvolta con una ‘inquietudine del cuorÈ […]. In questo caso si può dire della religiosità inconscia ciò che si dice dell’inconscio: può essere patogena. Anche la religiosità repressa cioè può essere ‘infelicemente repressa’» (Frankl, 2014, p. 80; 2005b, pp. 215-216).
h) Letture, biblioterapia. Così come l’approccio cognitivista, anche l’analisi esistenziale evidenzia la funzionalità della “biblioterapia”, da non intendersi come un approccio psicoterapeutico a sé stante, bensì come un complemento e una risorsa da utilizzare all’interno del processo terapeutico (Bellantoni, 2010, pp. 185-186). Frankl stesso consigliava ai pazienti testi, generalmente di natura filosofica, che allargassero l’orizzonte verso la comprensione di concetti centrali nell’approccio analitico-esistenziale, quali: la trascendenza, il senso della vita, la weltanschauung, il fenomeno religioso, ecc.
3. In che modo accedere ed intervenire a tale livello nell’ambito professionale?
La conoscenza e il rispetto per il fenomeno religioso, in generale, e per l’esperienza di fede del paziente, in particolare, dovrà innescare nel clinico un conseguente atteggiamento che risulterà caratterizzato da tutta una serie di “attenzioni”. Pertanto, il setting terapeutico e la natura stessa del fatto religioso suggeriscono alcune linee guida, che presentiamo di seguito, in relazione a come approcciare il tema del “senso religioso” in psicoterapia (cfr. Fig. 2).
a) Agnosticismo metodologico. Secondo l’indicazione della Psicologia della religione, lo psicologo è chiamato ad assumere, nello studio del fenomeno religioso, un atteggiamento definito di“agnosticismo metodologico”(Fizzotti, 2008, pp. 18-20). Infatti, in modo particolare, nella fase iniziale della relazione terapeutica è bene fare in modo che il paziente si senta completamente a proprio agio nel parlare della propria esperienza religiosa e di Dio, qualunque essa sia. Solo in un secondo momento, quando si sarà stabilita un’alleanza e un clima di reciproca fiducia e rispetto, il terapeuta potrà utilizzare una comunicazione maggiormente espressiva o rappresentativa riguardante la propria esperienza a riguardo. Di seguito, vengono indicati due tra gli strumenti più funzionali a sostenere tale atteggiamento di sospensione del giudizio.
b) Empatia (exopatia). La fase iniziale del rapporto terapeutico andrà caratterizzata dal diffuso ricorso a un atteggiamento di ascolto empatico (ascolto attivo), funzionale al far sentire il paziente accolto, compreso e non giudicato, facilitando la sua libera auto-espressione. Di recente, alcuni autori hanno introdotto il concetto di exopatia, per indicare un atteggiamento empatico volto alla comprensione/accoglienza di persone (pazienti) che abbiano un bagaglio culturale molto diverso dal nostro, condizione sempre più frequente nell’attuale contesto che si presenta come multi-etnico, multi-culturale e multi-religioso. Infatti, in tale situazione anche la stessa “domanda dell’empatia” (“Cosa proverei io al suo posto?”) potrà condurre a risposte fuorvianti e inadeguate, motivo per cui sarà ancor più importante stare in contatto con la reale comunicazione dell’altro, onde evitare fraintendimenti e incomprensioni (Bellantoni e Cocco, 2016).
c) Ars maieutica. In ambito analitico-esistenziale, accanto alla pratica dell’ascolto empatico, un’altra tecnica a servizio dell’autoesplorazione e dell’attivazione delle risorse del paziente è rappresentata dal dialogo socratico, in cui il terapeuta attraverso il ricorso alle cosiddette domande ingenue mira a stimolare la messa in discussione delle convinzioni del paziente, verso l’individuazione di ulteriori domande di senso e possibili risposte significative. Rispetto alla tecnica dell’ascolto attivo, tale strumento si presenta come una comunicazione leggermente più direttiva e che rimanda, tanto nel clinico quanto nel paziente, a una discreta capacità di autodistanziamento e umorismo (autoironia) (Bellantoni, 2010, pp. 183-184).
d) Dialogo, interscambio. A mano a mano che il processo terapeutico vede lo stabilirsi di una efficace alleanza terapeutica, aumenta il ricorso al dialogo e all’interscambio delle rispettive esperienze, in generale e per ciò che concerna il tema religioso. Ciò avviene in un clima di reciproca fiducia, rispetto e accoglienza.
e) Progressiva apertura. Via via che la terapia procede, si registra una sempre maggiore reciproca apertura dei due protagonisti della relazione terapeutica, volta allo stabilirsi di una reale relazione interpersonale, sebbene contenuta entro i confini del rapporto professionale, calda e autenticamente umana, funzionale a sperimentare un “incontro” tra le due persone, funzionalmente al raggiungimento degli obiettivi terapeutici(ivi, pp. 182-183).
f) Introspezione del clinico. Il terapeuta partecipa attivamente alla relazione e anch’egli è chiamato a mettersi in discussione, a stare in contatto con i propri vissuti attivati dal dialogo sul tema del “senso religioso” e ad aprirsi lui stesso a un processo introspettivo che lo porti a permettere il contatto con il tema della ricerca di senso, con particolare riferimento al senso religioso e alle domande esistenziali(idem, 2011b, p. 115).
g) Testimonianza del clinico. Nel far quanto sopra descritto, il terapeuta entra in gioco anche con la propria testimonianza e con la comunicazione dei propri valori religiosi, pur nel rispetto dell’esperienza del paziente. Ciò è funzionale allo stabilirsi di un clima di reciproca trasparenza (Frankl, 2016, p. 81).
h) Eventuale “invio”. Così come accade per l’invio a professionisti della salute, esperti nella cura medica e segnatamente farmacologica, laddove il terapeuta lo valuti necessario, di comune accordo col paziente, potrà essere individuata l’esigenza/opportunità di un “invio” a un ministro di culto, nel rispetto dell’appartenenza religiosa del paziente, per approfondire temi particolari emersi durante la psicoterapia e che coinvolgono il vissuto di fede del paziente (inserisci citazione).
4. Quali modifiche produce all’abituale modus operandi col paziente?
In riferimento a quanto già emerso nei due precedenti paragrafi, la considerazione e la valorizzazione del senso religioso in psicoterapia comporterà necessariamente l’assunzione di un conseguente modus operandi all’interno del rapporto terapeutico clinico-paziente.
In particolare, l’approccio analitico-esistenziale, caratterizzato da una metodologia di tipo fenomenologico, presenta alcune peculiarità che, in relazione al tema del “senso religioso”, pongono al centro della relazione terapeutica una serie di elementi:
a) Favorisce l’introspezione del paziente. Nell’evidenziare il ruolo e l’importanza del fenomeno religioso, il terapeuta cercherà di facilitare nel paziente il contatto, oltre che con gli altri temi esistenziali, anche con quello più segnatamente religioso e/o spirituale.
b) Suscita domande di senso. L’approccio analitico-esistenziale ha, tra i suoi obiettivi specifici, quello di suscitare, stimolare la domanda di senso e cogliere verso questa possibili risposte. Lo stesso Frankl, più volte, evidenzia tale dato nei suoi scritti: «Ho trovato il senso della mia vita nell’aiutare gli altri a trovare nella loro vita un senso» (Frankl, 1997, p. 93;); «Se non lo faccio io, chi altri lo farà? – E se non lo faccio ora, quando sarà il momento di farlo? – E se lo faccio solo per me stesso, chi sono io?» (idem, 2010, p. 69) e, infine, «Chi ha un perché nella vita sopporta quasi ogni come» (idem, 2012, p. 129). Nel sostenere il paziente, lo psicoterapeuta non esclude pregiudizialmente la dimensione religiosa da tali percorsi di senso e significati.
c) Stimola la ricerca di senso. In continuità col punto precedente, all’interno del setting psicoterapeutico ci si apre al tema del progetto o del piano di vita: Dove si trova il paziente? Da dove viene? Dove vuole andare? In che modo intende raggiungere tale meta?
d) Facilita la consapevolezza del proprio atteggiamento religioso. Laddove la persona manifesti la propria esperienza religiosa o mostri interesse per tale ambito, lo psicoterapeuta accoglierà tale domanda di senso, verificando l’effettiva motivazione del paziente verso la sfera trascendente e valutando se l’atteggiamento o l’interesse religioso esprime una motivazione di tipo estrinseco o intrinseco e se è espressione di una apertura, di una ricerca personale o di una chiusura, rigida e difensiva. In altre parole, l’esperienza religiosa si presenta come maturante l’individualità della persona o, piuttosto, posta al servizio di carenze personali in funzione difensiva e/o compensativa?
e) Capacità di autotrascendenza. La dimensione religiosa o spirituale è contemplabile solo a partire da una visione di uomo rispettosa tanto della ricchezza e della complessità della persona, quanto di quella dell’esperienza di fede. In tal senso, Viktor Frankl si riferisce a una visione tripartita e gerarchizzata dell’essere umano che presenta tre diverse dimensioni, reciprocamente implicantesi e di cui la terza ha il ruolo di garantire armonia e direzionalità (guida): biologica, psicologica e spirituale. A motivo della sua dimensione spirituale, la persona si mostra sempre orientata a un senso: una compito da realizzare, un valore da affermare o una persona da amare. Tale intenzionalità verso una meta esistenziale, consapevole e frutto di decisione, attinge alla capacità di autotrascendenza, per la quale la persona è sempre rivolta verso il trascendimento di sé, dinamica della quale la realizzazione personale e la stessa felicità sono semplicemente delle conseguenze non direttamente perseguite (Frankl, 2005c, pp. 58-59; Maslow, 2005, p. 72). In questo dinamismo di autotrascendimento occupano un ruolo centrale l’amore, come ricerca del bene altrui, e la coscienza, nella sua funzionalità, continuamente e progressivamente da affinare, volta alla scoperta del “senso” (scopo) a cui orientare la propria esistenza e dei “significati” (valori situazionali) come appelli rivolti alla persona dalle diverse situazioni di vita. L’esperienza religiosa, così come anche ogni educazione, se autentica, dovrà essere in grado di favorire, e non di ostacolare, tale affinamento e tale capacità di autotrascendersi.
f) Capacità di autodistanziamento. La capacità di orientarsi liberamente verso un valore, un compito, una persona da amare, nell’assunzione di un senso e nella continua scoperta di significati, implica quasi necessariamente una condizione di libertà interiore, che può essere certamente limitata da fattori diversi, ma che se venisse negata condurrebbe anche ad affermare l’incapacità di intendere e volere della persona, per cui il condizionamento verrebbe interpretato come un determinismo assolutamente inconciliabile con quello che, in ambito religioso, viene definito il “libero arbitrio”. L’uomo sarebbe, laddove invincibilmente “determinato”, causato motivazionalmente da variabili di tipo biologico, psicologico o sociologico. Per Frankl, la “responsabilità” (o libertà per…) è semplicemente una delle due facce di una stessa medaglia che rimanda necessariamente a quella della “libertà” (o libertà da…), e così come la prima rimanda alla capacità di autotrascendenza, così la seconda si radica in quella di autodistanziamento, tipica come la prima della dimensione spirituale o noetica della persona (Frankl, 2005a, pp. 102-105).In tal senso, anche in ambito clinico, la persona non è mai identificabile con la sua malattia, con il suo sintomo e, anche, con la sua sofferenza, in quanto ella è sempre potenzialmente in grado di oggettivare “ciò che abbiamo”, che andrà sempre distinto da “ciò che siamo”.
g) Inconscio spirituale. Come già evidenziato al punto 2f, l’approccio analitico-esistenziale prevede di dare attenzione non solo al materiale inconscio di natura psicologico-traumatica, ma anche a quello causato dalla repressione, sempre più frequente nella secolarizzata cultura contemporanea, di esperienze e bisogni a sfondo religioso. In tal senso, da un punto di vista operativo e tenuto in grande considerazione il lavoro sui sogni e sulla storia di vita, per facilitare il “contatto” e la “scoperta” con contenuti e significati “spirituali/religiosi” rimossi e/o non elaborati.
h) Ruolo delle virtù. Recentemente una specializzanda in psicoterapia ha affermato, implementando un famoso detto: “Non è bello ciò che è bello, non è bello ciò che piace, ma è bello ciò che fa star bene”. In questa frase è racchiuso tutto il rischio di una società che corre il rischio di confondere l’estetica con la funzionalità. Potremmo infatti chiederci ulteriormente cosa intendere con “stare bene”, domanda che rimanda al concetto e alla comprensione di cosa sia realmente, nella specie umana, il “benessere”. Non potendo approfondire tale riflessione in questa sede, mi limito ad evidenziare quanto rintracciabile in autori quali Martin Seligman oltre allo stesso Viktor Frankl: oggi, in molti, la ricerca del benessere s’identifica con la ricerca di sensazioni (sensationseeking) in contrasto con la ricerca del senso della vita e dei significati degli eventi (senseseeking). In tal senso, il rimando e il confronto con la dimensione religiosa potrebbe facilitare il recupero di un confronto con il vero, il buono e il bello e, quindi, con il tema delle virtù umane (cfr. Fizzotti, 2007)
5. Spunti di riflessione a partire da alcune esperienze cliniche
Fin qui sono state portate delle argomentazioni generali rispetto al come accogliere e considerare il fenomeno religioso in un contesto clinico o consulenziale, un approccio potremmo dire “nomotetico”, così come quello, per intenderci, privilegiato dagli interventi basati sulle evidenze, evidenze d’altra parte di tipo statistico e non fenomenologico.
In tal senso, la storia della psicologia clinica si è sempre mossa cercando un equilibrio tra due diverse istanze, quella nomotetica, appunto, e quella, invece, idiografica (Haynese O’Brien, 2000, p. 111).
Nella prima vengono privilegiate le categorie, le risposte campionarie, le statistiche, ciò che mediamente avviene o meno, nella seconda l’attenzione è data al dato fenomenico, individuale, caratteristico di quella persona, per la quale potrebbe non essere vero ciò che è invece “normale” nella maggioranza. Da questo punto di vista, la clinica non potrà mai esaurire la sua attenzione a ciò che “mediamente funziona”, sacrificando le risposte individuali, appartenessero anche a una minoranza: in altri termini, l’essere umano non è mai sacrificabile!
Ecco che allora, di seguito, saranno presentate alcune situazioni che hanno a che fare con la dimensione spirituale e/o religiosa, situazioni che riguardano dinamiche ricorrenti – pur senza alcuna pretesa di nomoteticità e/o di generalizzazione – considerate a partire da singole esperienze cliniche o di consulenza.
5.1. “Cosa ho fatto per meritarmi questo?”
Nell’ambito della psicoterapia o della consulenza psicologica, non di rado, capita che le persone si chiedano e chiedano il “perché” di ciò che è capitato loro, a un loro congiunto o, comunque, di qualcosa che li ha “toccati” da vicino. Ebbene, tale situazione diviene un momento fecondo per esplorare l’atteggiamento religioso della persona e la sua comprensione della divinità, sia quando si è dinanzi a un credente sia quando ci si dovesse trovare dinanzi a un non credente.
Infatti, spesso la fede della persona o la sua comprensione di Dio rivela un atteggiamento di tipo estrinseco, utilitaristico, disposto unicamente a credere in un Dio che mi dia secondo le mie esigenze e necessità, piuttosto che manifestare una posizione rispettosa della “realtà” di un Dio che non può essere asservito a ciò che mi è utile o a ciò che tranquillizza la mia coscienza e le mie ansie: se Dio esiste, esiste come una realtà che può essere accettata o rifiutata per ciò che è e non per l’immagine che io me ne faccio a mio uso e consumo (cfr. concetto di “idolo”).
Inoltre, recentemente è emerso come, in realtà, ancor più di un atteggiamento religioso intrinseco, che potrebbe anche coesistere con elementi di rigidità, la vera maturità religiosa sembra essere caratterizzata dalla elasticità e, in chiave frankliana, dalla capacità di autodistanziamento proprie di un atteggiamento di continua ricerca (Quest) che protegge la dimensione di fede da pericolose assolutizzazioni e fanatismi. In ambito clinico o consulenziale, ad esempio, una domanda ingenua, in stile dialogo socratico, che può essere utile in questi casi è la seguente: «La sua esperienza di fede le dice che Dio distribuisce premi e punizioni a seconda dei nostri meriti?», oppure volendo ricorrere a una parafrasi, secondo l’approccio dell’ascolto attivo: «La sua esperienza di fede le dice che Dio distribuisce premi e punizioni a seconda dei nostri meriti». Interventi di questo tipo, generalmente, aprono alla possibilità che la persona acquisti maggiore consapevolezza circa il proprio atteggiamento nei confronti della divinità e del fatto religioso, arrivando anche ad operare modifiche verso una maggiore maturità religiosa.
5.1.1. “Una sola cosa avevo chiesto a Dio…”
Già Epitteto, filosofo latino del I sec. d.C., evidenziava come l’uomo non reagisce tanto ai fatti in sé, quanto piuttosto all’interpretazione che egli dà a ciò che gli accade. Ebbene, ciò rimanda a ciò che abbiamo appena evidenziato, nell’ambito dell’esperienza religiosa e di fede, riguardo i diversi atteggiamenti che la persona può assumere nel confronto con i diversi eventi della vita. In tal senso, propongo un brevissimo parallelo tra due esperienze di consulenza.
Nella prima, si rivolge a me una signora di 61 anni, sposata e madre di due figli. Da un anno, ha perso il più grande dei due, all’età di 29 anni, a causa di un incidente in moto. La donna, sebbene in sofferenza, sembra aver elaborato il lutto e il motivo della visita sembra piuttosto al preoccupazione per l’altro figlio, di 26 anni. La signora teme che possa non aver superato la morte del fratello, cui era molto legato. Nel presentarsi, con grande semplicità e senza nessuna ostilità, la signora aveva sottolineato:«Una cosa sola avevo chiesto a Dio: di non toccarmi i miei figli…».
Nel corso di quella prima e unica sedute, la signora mi evidenziò da cosa nasceva la sua preoccupazione verso il secondo figlio, quali indicatori l’avessero turbata e, alla fine del nostro colloquio, la signora appariva più serena e rassicurata rispetto ai suoi timori. In ogni caso, le dissi che per qualsiasi evenienza avrebbe potuto tornare da me o inviarmi il figlio, se questi avesse manifestato una qualsiasi necessità di parlare di sue eventuali difficoltà.
Alla fine, riprendendo l’espressione iniziale della signora e ricorrendo alla modalità socratica della “domanda ingenua”, volta a facilitare nella persona nuove esplorazioni e comprensioni dei propri vissuti, le domandai: “Signora, prima di salutarci, un’ultima cosa: ma Dio, quando lei gli ha chiesto di toccarle tutto tranne i suoi figli, le aveva risposto?”. La signora, mi sorrise, e rispose: “Dottore, ora capisco che, in fondo, avevo fatto un patto con me stessa e non con Dio. Dio ci sostiene in ciò che ci accade, anche quando sembra non ascoltare le nostre preghiere”.
Qualche giorno dopo, mi capitò di incontrare un’altra signora. Aveva 59 anni ed era stata accompagnata da me suo malgrado: si diceva depressa. Era scura in volto, forse arrabbiata per il fatto stesso di essere stata condotta al mio studio. Mi limitai ad ascoltarla, dicendole come spesso in questi casi che mi dispiaceva che lei fosse lì contro la sua volontà, che chi l’aveva accompagnata aveva magari comunque delle buone intenzioni e che, in ogni caso, se le andava poteva raccontarmi qualcosa di sé e di cosa stava vivendo. Infine, le dissi che laddove ne avesse avvertita l’opportunità, avrebbe potuto tornare da me anche in seguito.
In maniera riluttante e scontrosa, probabilmente avendocela più con chi l’aveva accompagnata che con me, la signora mi raccontò la sua vicenda. Tuttavia, quello che mi preme sottolineare è che, a un certo punto, la signora fece riferimento alla sua esperienza di fede, dicendo che era sempre andata in chiesa e che, quando sua madre, all’età di 84 anni si era ammalata di tumore, lei aveva molto pregato Dio perché la guarisse. Purtroppo, ciò non era avvenuto e la madre, lo scorso anno e dopo un anno di malattia, era morta. Da allora era passato un anno, lei non aveva più messo piede in una chiesa e aveva smesso di credere in Dio che, “se fosse esistito, certo non avrebbe fatto morire mia madre”.
5.1.2. “Perché a me?”
In relazione a questa sezione e in riferimento alle due esperienze citate, che rimandano a due diversi tipi di atteggiamento religioso (intrinseco, la prima ed estrinseco, la seconda), c’è da evidenziare che spesso le persone manifestano la convinzione che ciò che accade nella vita possa essere ricondotto a una giustizia divina di tipo distributivo, per cui ciascuno riceverebbe beni o mali a seconda dei suoi comportamenti. È evidente, in tal senso, che queste persone pensano che il riferimento a Dio possa essere una sorta di garanzia verso questa o quella possibile calamità. Tale atteggiamento viene considerato di tipo “estrinseco”, in quanto lega la “fede” a una sorta di patto, per cui, ad esempio, la mia pratica religiosa dovrebbe fungermi da “vaccino” contro ogni male. Ad esempio, Fiorenza, 39 anni, impiegata, convivente, con un figlio e una figlia morta drammaticamente, diceva coerentemente a tale atteggiamento:«A volte le persone mi parlano di Dio, ma io mi chiedo: cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?».
5.2. “Cosa dovrei fare in questa situazione?”
Questa domanda, che spesso i pazienti rivolgono o si rivolgono nel setting della relazione d’aiuto, diviene un’opportunità per favorire un confronto tra l’esperienza religiosa, se presente nel soggetto, e la situazione concreta che ci si trova ad affrontare. In tal senso, si tratta di favorire nel soggetto una più consapevole esigenza di coerenza tra la propria esperienza di fede e il quotidiano.In situazioni di questo tipo, interventi utili possono ricalcare, ad esempio, questa modalità: «Prima mi ha parlato della sua esperienza di fede. Che risposta le viene da questa? Cosa sentirebbe di essere chiamato/a a fare alla luce della sua fede?». Tuttavia, è bene tener presente che, come qualsiasi altro intervento teso a favorire un confronto nel soggetto, ciò presuppone un clima positivo e una salda alleanza tra terapeuta e paziente.
In Frankl, la persona è chiamata a considerare la coerenza tra il senso individuato come proprio orientamento esistenziale e i significati, cioè le decisioni e i valori “scoperti” come risposte agli appelli che le vengono rivolti dai diversi eventi della vita e nelle differenti situazioni (cfr. Fig. 4). Una fede matura, in tal senso, viene a rappresentare l’orientamento esistenziale di fondo della persona e, come tale, dovrebbe caratterizzarsi per la sua funzione integratrice della condotta umana(cfr. Fig. 5; Bellantoni, 2015, pp. 111-112). In appendice alcuni esempi clinici.
6. Conclusione
Insegnando al Master in Psiconcologia, La psicologia esistenziale e la relazione d’aiuto col paziente − in considerazione che lo statuto delle cure palliative prevede che i vari operatori aiutino i pazienti a dare un senso alle condizioni, a volte, drammatiche e finanche terminali della loro esistenza – chiesi agli allievi che partecipavano al corso:«Secondo voi è importante che l’operatore condivida il fatto che quella fase della vita ha senso?». Ebbene, circa la metà dei corsisti risposero che ciò non era necessario. A questo riguardo, la domanda è se chi non crede in qualcosa può sostenere quella fiducia in un altro che si trova a vivere in condizioni drammatiche la propria malattia.
Ebbene, a questo riguardo, un ulteriore aiuto può venire dalla dimensione di fede che può sostenere due elementi, entrambi assai importanti: il primo, sta nel vivere la consapevolezza della propria creaturalità e, dunque, anche la propria vita non come proprietà ma come dono di un Altro; la seconda, risiede nella possibilità di continuare a sperare. In tal senso, la speranza manifesta due dimensioni non escludentesi e che hanno a che fare con il percepire, anche dinanzi alla fine delle possibilità, qualcosa di ulteriore. Alla luce di Frankl, ciascuno di noi, anche laddove si troverà costretto da una sofferenza ineliminabile o dinanzi all’ineluttabilità della morte, resterà ultimamente libero e responsabile circa l’atteggiamento che assumerà in questa condizione; inoltre, anche laddove la persona dovesse non percepire alcuna possibilità, avrà sempre l’opzione di sperare, questa volta a livello trascendente, in una ulteriore risposta di Dio, speranza questa potrà essere alimentata unicamente da un atteggiamento di fede (Bellantoni, 2016).
Questo contributo non ha alcuna pretesa di esaustività sul tema della funzionalità della dimensione religiosa in psicologia e in psicoterapia. L’intento è piuttosto quello di sollevare questioni e offrire provocazioni. In tal senso, anche i riferimenti agli stralci tratti da colloqui e storie cliniche vengono offerti unicamente quali “luoghi” di dialogo e riflessione ulteriore.
Appendice
Di seguito un brevissimo esempio riguardo l’esigenza di una coerenza tra fede come senso della vita e scelte concrete. Si rivolge a me Carlo, 25 anni, cattolico praticante, impegnato nella pastorale come educatore. Dice di essere venuto a fare una “chiacchierata”. Ecco alcuni stralci del nostro colloquio, per il quale abbiamo concordato un obiettivo di maggiore comprensione della situazione portata dal giovane.
Carlo: «Facendo l’amore con la mia ragazza [con cui sta da quattro anni] mi si è sfilato il profilattico […]. Ho portato la mia ragazza a prendere la pillola del giorno dopo».
Psicologo: «Eravate preoccupati».
Carlo: «In verità più io. Lei per niente. Non mi posso permettere di avere un figlio adesso».
Psicologo: «Capisco. Hai agito in funzione di questo».
Carlo: «Certo. Altrimenti non mi sarei preoccupato. Io lo voglio un figlio… ma non adesso e poi… »
Psicologo: «E poi?».
Carlo: «E poi non sono sicuro di voler restare con la mia ragazza. Ci sto bene, ma… Non so se sposerò lei. Non so neppure se intendo sposarmi. Penso che oggi convenga convivere, senza legarsi».
Psicologo: «Non ti senti pronto e non sai ancora cosa vuoi. Inoltre, il matrimonio non ti convince».
Carlo: «Certo. Come si fa a sapere che starai con una tutta la vita…». […]
Psicologo: «Sembra siano emersi due aspetti. Da una parte tutta una serie di posizioni riguardo a vari temi: rapporti sessuali, pillola anticoncezionale, significato di una relazione di coppia, matrimonio sì o matrimonio no, ecc. Dall’altra ti sei presentato come un cattolico praticante, impegnato come educatore verso un gruppo di adolescenti. Mi chiedo sei hai valutato la rispondenza tra le posizioni di cui mi hai parlato, l’esigenza di una testimonianza come educatore e il riferimento di fede verso l’istituzione cui tu fai riferimento, come specificazione della tua fede in Dio».
Una situazione simile si è verificata con Gianni, 26 anni, anche lui cattolico praticante e attivamente impegnato nella sua parrocchia come catechista. Presenta una situazione che rimanda al suo rapporto di coppia.
Gianni: «Quando siamo stati dai miei, al mare, lei mi rimproverava che io stavo fuori, per conto mio, dalla mattina alla sera. In realtà, dottore, io facevo semplicemente vita da campeggio, come del resto ho sempre fatto. […] In vacanza coi suoi, invece, era un ‘mortorio’, dalle 14 alle 18 a letto a dormire, poi alle 18 andavamo in spiaggia…».
Psicologo: «A me sembra che siamo davanti a due diversi modi di vivere la vacanza. Dai tuoi, tu hai impostato la giornata-tipo secondo le tue abitudini e preferenze, quando sei andato dai suoi, invece, è stata lei a “importi” il suo modo di viversi la vacanza al mare».
Gianni: «Ma a me il suo modo non piace!».
Psicologo: «E sembra che lei non gradisca il tuo. Siete diversi. […] Prima hai molto parlato, riguardo al tuo impegno di catechesi, di come oggi si ragioni in termini essenzialmente individualistici. Bene, sembra che anche in questo caso ci sia almeno da accettare che l’altro, la tua ragazza in questo caso, abbia un punto di vista diverso dal tuo».
Gianni: «Non avevo considerato questo punto di vista. Secondo me lei sbagliava e basta».
Psicologo: «Certo. E probabilmente per lei sei tu a sbagliare».
Gianni: «Infatti. Quindi devo essere più tollerante».
Psicologo: «Piuttosto avere più dialogo e reciprocità. Ciascuno provando a mettersi nei panni… negli interessi dell’altro».
Alla fine cercammo di valorizzare la sua esperienza religiosa, anche pastorale, per vedere come il riferimento ad alcune sue convinzioni e atteggiamenti religiosi avrebbero potuto illuminare alcuni ricorrenti contrasti tra lui e la sua ragazza.
Un’ultima esperienza di consulenza che evidenzia la necessità di sostenere nelle persone il bisogno di coerenza interna, tra la fede religiosa, intesa quale senso della vita, e la consequenzialità etica, è quella che riguarda Roberto, 30 anni, seminarista, attivamente impegnato nella pastorale giovanile, che si rivolge alla consulenza per comprendere meglio le sue tensioni omosessuali ed, eventualmente, gestirle. Fin dall’inizio, Roberto dichiara con enfasi:«Il senso della mia vita è il dono di me agli altri». Riporto un brevissimo stralcio del colloquio relativo alla prima seduta avuta con Roberto, che fa seguito alla prima presentazione di Roberto.
Psicologo: «Bene Roberto, cosa ti porta qui a questo colloquio ».
Roberto: «In realtà, di preciso non saprei. Diciamo che sono qui sotto consiglio del mio direttore spirituale».
Psicologo: «E per quale motivo il tuo direttore spirituale ha ritenuto che potesse esserti utile questo incontro con me?».
Roberto: «Lui dice che forse mi converrebbe confrontarmi con un esperto per quanto riguarda il mio orientamento sessuale».
Psicologo: «Che sarebbe?».
Roberto: «Io mi sento attratto dai maschi, dai ragazzi».
Psicologo: «E questa “attrazione” da quando la proveresti?».
Roberto: «Da sempre. Io sono sempre stato così».
Psicologo: «E in che modo questo per te, e non per il tuo direttore spirituale, può essere un motivo di colloquio con me».
Roberto: «Non saprei. Per me non è un problema. Alla fine, ho scelto il seminario proprio perché sentivo che non mi piacevano le donne. A me il matrimonio non interessa».
Psicologo: «Non ti senti attratto dalle ragazze, non ti interessa il matrimonio… Ma mi hai detto che ti senti attratto dai maschi».
Roberto: «Si, è così».
Psicologo: «E questo non potrebbe essere ugualmente un problema? Ad esempio, rispetto al tema della castità, a cui, in futuro, come prete sarai chiamato?».
Roberto: «Ma io non ho mai avuto rapporti sessuali completi con un uomo».
Psicologo: «Parli di rapporti completi… E per quanto riguarda altro, sempre nei confronti dei ragazzi?».
Roberto: «Ci sono state esperienze di masturbazione reciproca. E poi capita che m’innamoro. A questo riguardo, spesso mi è stato detto che tendo a fare preferenze, che mi lego ad alcuni ragazzi in maniera morbosa, che tendo troppo a “fare coppia”…».
Psicologo: «E tu cosa pensi di questo?».
Roberto: «Che male c’è? Se nasce un’amicizia più intensa che c’è di male? Si tratta poi di ragazzi grandi… Hanno 17/18 anni, non sono mica bambini… Mica sono un pedofilo».
Psicologo: «Non si è mai pedofili ad avere un rapporto amicale o educativo, anche con ragazzi più piccoli. Come mai hai parlato dell’età e di “pedofilia”?».
Roberto: «Che male c’è se sento il bisogno di abbracciare un ragazzo, di tenergli la mano? Non si possono avere manifestazioni d’affetto?».
Psicologo: «Le manifestazioni d’affetto acquisiscono significato a seconda di come definiamo i rapporti. Si tratta di capire cosa cerchi tu, cosa cercano i ragazzi con cui scambi gesti d’affetto, e se queste manifestazioni rappresentano qualcosa che ti aiuterà a crescere nella capacità di vivere una castità consacrata e di gestire quella che tu stesso definisci un’attrazione verso i maschi. Forse è per questo che il tuo direttore spirituale ti ha consigliato di venire da me: per capire e decidere con più consapevolezza».
Il prosieguo della consulenza evidenziò come Roberto avesse, più o meno consapevolmente, messo in atto una strategia di fuga rispetto ad assumersi la responsabilità delle sue pulsioni e della loro comprensione e gestione. Comprese che, pur nella buona fede di farsi dono per gli altri, correva il rischio di mettere a servizio delle proprie esigenze proprio alcuni di quei giovani che era invece chiamato a educare e a far crescere nella fede. Senza contare che la sua stessa vocazione alla vita consacrata rischiava, magari in buona fede, di divenire semplicemente un paravento rispetto a una realtà difficile da accettare e integrare. La considerazione delle esigenze di coerenza tra missione e pulsioni portarono Roberto a decidere, questa volta responsabilmente, di intraprendere un percorso di comprensione e rivisitazione del suo progetto di vita.
A volte le persone vivono un senso di confusione tra fede in Dio e appartenenza una istituzione religiosa, avvertendo inoltre la norma religiosa come qualcosa di oppressivo, estraneo. È il caso, ad esempio, di Claudio, 21 anni, praticante evangelico, che facendo riferimento alle sue esperienza di carattere bisessuale, dice di avvertire una situazione conflittuale, anche perché si sente “chiamato” a diventare pastore della comunità e a sposarsi e avere dei figli.
Claudio: «Da quando frequento la Chiesa Evangelica avverto un senso di colpa… Ma mi chiedo: è giusto sentirmi così solo per Lv 18,22? [“Non avrai con maschio relazioni come si hanno con donna: è abominio”, NdR]».
Psicologo: «Hai dei dubbi circa l’accettare la normatività di questo versetto per la tua vita».
Claudio: «Sì, è così. Mi chiedo se è vero che sia sbagliato avere rapporti omosessuali».
Psicologo: «Non sei convinto che la tua Chiesa ti stia indicando la strada giusta per la tua vita».
Claudio: «Io credo alla dottrina della Chiesa, credo che sia per la mia salvezza e felicità».
Psicologo: «Ma? ».
Claudio: «Ma il dubbio è su questa norma».
Psicologo: «Per quanto riguarda l’aspetto religioso credo sia giusto confrontarti con i ministri della Chiesa. Dal punto di vista psicologico, il problema è se tu credi o meno che questa norma sia buona per te. In coscienza sei tu che decidi se la strada che ti viene offerta da una istituzione la senti adeguata o meno alla tua esperienza, valori o vissuti. Assumerti questa decisione è una tua responsabilità».
Claudio: «Si tratta, dunque, non solo di credere in Dio, ma di credere che quanto mi viene indicato dalla Chiesa sia per una mia crescita personale e non vivermela come una imposizione».
Psicologo: «Ti meravigli di essere in conflitto dal momento in cui assumi qualcosa come una imposizione?».
Claudio: «No. Credo sia normale. Quindi si tratta di risolvere il conflitto chiedendomi se vivo questa proposta come buona o non buona per me».
Psicologo: «Questa intanto sarebbe una strada. Inoltre, ci sarebbe da esplorare anche il significato che hanno per te le condotte sessuali e come le collochi nelle relazioni, anche in relazione alla tua esperienza di fede».
Roberta, 51 anni, è operatrice in una comunità di affido, di ispirazione cristiana, in cui è entrata come volontaria a 18 anni. Si è sempre dedicata anima e corpo a quest’opera, come lei la chiama, che all’inizio le garantiva il vitto, l’alloggio e un compenso minimo per le sue spese. Da circa dieci anni ha preso ad insegnare religione a scuola, percependo un regolare stipendio. Ciò l’ha costretta a sottrarre tempo alla comunità, cosa che sembra aver creato tensione tra lei e lo staff e soprattutto con la fondatrice dell’Opera, che lei ha sempre considerato come una sorta di sorella maggiore. A un certo punto, iniziando ma soffrire di attacchi di panico, Roberta ha deciso di rivolgersi a una psicoterapia.
Roberta: «Mi chiedo perché io non possa trovare il senso della mia vita nell’attività che svolgo presso la comunità?».
Psicologo: «Cosa glielo impedisce?».
Roberta: «Lo staff e soprattutto Enrica, la fondatrice, hanno fortemente ridimensionato il mio ruolo, dal momento in cui non ho più assicurato la stessa presenza».
Psicologo: «Non riesce più a trovare il senso della sua vita in ciò che le viene permesso di fare in comunità».
Roberta: «Non si tratta solo di ciò che facevo. Per me, il rapporto con Enrica, con le altre operatrici, con gli stessi ragazzi ospitati, erano la mia famiglia».
Psicologo: «Erano? Non lo sono più, adesso?».
Roberta: «Per me sì. Ma da quando ho ridotto la mia presenza per il lavoro a scuola, sembra che ad Enrica non vada più bene e che mi voglia allontanare, estromettendomi dalle mansioni e dal programma».
Psicologo: «Perché pensa che Enrica stia facendo questo?».
Roberta: «Perché per lei esiste solo l’Opera. Si è sentita tradita».
Psicologo: «Sembra che mentre per lei l’Opera era la sua famiglia, per Enrica era soprattutto una comunità di servizio. Chi la cerca della comunità al di fuori dell’attività di lavoro?».
Roberta: «In realtà, nessuno. A parte, un’operatrice con la quale condividiamo l’appartamento».
Psicologo: «E altre relazioni amicali o affettive?».
Roberta: «Non ho nessuno. Io vivevo per il servizio».
Psicologo: «Non potrebbe offrire il suo servizio presso altre realtà di volontariato?».
Roberta: «Ma io voglio svolgere il mio servizio lì: è la mia famiglia».
Psicologo: «Il desiderio di servizio è un valore e come tale permane anche cambiando luogo o attività; se, invece, la reale motivazione è l’aver considerato quel “luogo di lavoro” come la sua famiglia, sembra che debba elaborare un “lutto”».
Roberta: «Mi sento sola».
Psicologo: «Probabilmente ha confuso o le hanno permesso di confondere relazioni di lavoro con legami affettivi e familiari. Oggi, si rende conto di aver investito forse unilateralmente e dovrà imparare a separare la realtà delle relazioni affettive, da costruire o ri-costruire, e il proprio impegno di lavoro e di servizio, volontario o meno».
Riguardo al fondare la propria vita sull’assolutizzazione di un senso che, in realtà, si presenta in sé come precario, presento la storia di Gianni, 65 anni, un professionista di fama internazionale, che nel tempo aveva sempre più posto a fondamento della sua vita il successo professionale, trascurando realtà importanti come la sua relazione con la moglie, poi, dopo il divorzio, con la successiva compagna e, soprattutto, anche con i figli avuti dal primo matrimonio.
Gianni: «Dottore, mi accorgo che impegno più tempo a scrivere un articolo o una relazione, che ai congressi cominciano a invitare, al mio posto, colleghi più giovani o ad assegnare loro più spazio. In pratica, sto perdendo i colpi».
Psicologo: «Sente di non essere più efficiente come un tempo».
Gianni: «Proprio così. E questo non lo accetto: mi deprime e mi fa sentire sempre angosciato. Inoltre, questo umore influisce sulle mie capacità… Un serpente che si morde la coda».
Psicologo: «Posso chiederle una cosa: com’è per lei pensare alla pensione?».
Gianni: «Per me è la fine. Pensare alla mia vita senza il lavoro non ha senso».
Psicologo: «Ha pensato che non sarebbe mai andato in pensione?».
Gianni: «Semplicemente ho evitato di pensarci».
Psicologo: «Beh. Sembra ci sia ben riuscito, almeno fino ad adesso».
Gianni: «Ma adesso non ci riesco più. Le verrà da ridere, ma pensi che mi trovo spesso a pensare a Dio e a chiedermi se non ho sbagliato tutto».
Psicologo: «Le sembra stia ridendo? Quello che sento è che si trova in un momento in cui deve ri-orientare, ri-formulare la sua vita. Certo può essere impegnativo, forse doloroso, ma potrebbe aiutarla a trovare nuovi equilibri».
Gianni: «In effetti, può sembrare banale, ma ho bisogno di nuovi equilibri».
Bibliografia
Allport G.W. e Ross J.M. (1967), Personal religiousorientation and prejudice, «Journal of Personality and Social Psychology», vol. 5, n. 4, pp. 432-443.
Bellantoni D. (2010), è possibile trattare la visione esistenziale e la psicopatologia? Psicopatologia e significato della vita. Il contributo dell’Analisi esistenziale alla psicoterapia, in Mancini F. e Pacciolla A. (a cura di), Cognitivismo esistenziale. Dal significato del sintomo al significato della vita, Milano, FrancoAngeli, pp. 170-201.
Bellantoni D. (2011a), L’analisi esistenziale di Viktor E. Frankl. 1. Origini, fondamenti e modello clinico, Roma, LAS:
Bellantoni D. (2011b), L’analisi esistenziale di Viktor E. Frankl. 2. Definizione e formazione per un approccio clinico integrato, Roma, LAS:
Bellantoni D. (2015), Linee guida per un Counselling Esistenziale Frankliano, «Ricerca di senso», vol. 13, n. 2, pp. 103-139.
Bellantoni D. (2016), Destinazione speranza: convergenze tra Viktor E. Frankl e la Scuola di Francoforte, «Ricerca di senso», vol. 14, n. 2, pp. 103-118.
Bellantoni D. e Cocco M. (2016), Dall’empatia all’exopatia: la «diversità» ncome opportunità di crescita. Una riflessione analitico-esistenziale, «Ricerca di senso», vol. 14, n. 3, pp. 249-259.
Bellantoni D. e Montalto F. (2016), L’atteggiamento religioso maturo come fattore di resilienza. Riflessione analitico-esistenziale e indagine sperimentale, «Ricerca di senso», vol. 14, n. 2, pp. 137-157.
Fizzotti E. (2007), Il logoterapeuta e le virtù. A confronto con le sfide del vuoto esistenziale, «Ricerca di senso», vol. 5, n. 2, pp. 163-171.
Fizzotti E. (2008), Introduzione alla psicologia della religione, Milano, FrancoAngeli..
Francis L.J. e Ross C.F.J. (2000), Personalitytype and questorientation of religiosity, «Journal of PsychologicalType», vol. 55, n. 1, pp. 22-25.
Frankl V.E. (1990), Un significato per l’esistenza. Psicoterapia e umanismo, Roma, Città Nuova, 2ª ed. [orig. (1978), The UnheardCry for Meaning, New York, Simon &Schuster].
Frankl V.E. (1997), La vita come compito. Appunti autobiografici, Torino, SEI [orig (1995), Wasnicht in meinenBüchernsteht, München, Quintessenz MMV Medizin-Verlag].
Frankl V.E. (2005a), Alla ricerca di un significato della vita. Per una psicoterapia riumanizzata, Milano, Mursia, 5ª ed. [orig. (1952), DasMenschenbildderSeelenheilkunde, Stuttgart, HippokratesVerlag].
Frankl V.E. (2005b), Logoterapia e analisi esistenziale, Brescia, Morcelliana, 6ª ed. [orig. (1968), ÄrzlicheSeelsorge,Wien, Franz Deuticke].
Frankl V.E. (2005c), L’autotrascendenza come fenomeno umano: in dialogo con Abraham Maslow (1966), in D. Bruzzone e E. Fizzotti (a cura di), La sfida del significato. Analisi esistenziale e Ricerca di senso, Trento, Erickson, pp. 57-68.
Frankl V.E. (2010), Senso e valori per l’esistenza. La risposta della Logoterapia, Roma, Città Nuova, 3ª ed [già pubbl. come (1977), Fondamenti e applicazioni della logoterapia, Torino, SEI; orig. (1969), The Will to Meaning, New York, New American Library].
Frankl V.E. (2012), Uno psicologo nei lager, Milano, Ares, 21ª ed. [orig. (1946), EinPsychologerlebtdasKonzentrationslager, Wien, VerlagfürJugend und Volk].
Frankl V.E. (2014), Dio nell’inconscio. Psicoterapia e religione, Brescia, Morcelliana, 4ª ed. [orig. (1973), DerunbewussteGott. Psychotherapie und Religion, München, KöselVerlag].
Frankl V.E. (2016), Homo patiens. Soffrire con dignità, Brescia, Queriniana, 5ª ed. [orig. (1984), Homo patiens. VersucheinerPathodizee, Bern, Hans Huber].
Haynes S.N. eO’Brien W.H. (2000), Principles and practice of behavioralassessment, NewYork, Kluwer.
Maslow A.H. (2005), Verso un compito oltre l’autorealizzazione: annotazioni al testo di Viktor E. Frankl (1966), in D. Bruzzone e E. Fizzotti (a cura di), La sfida del significato. Analisi esistenziale e Ricerca di senso, Trento, Erickson, pp. 69-77.
Ross C.F.J. e Francis L.J. (2010),The relationship of intrinsic, extrinsic, and quest religious orientations to Jungian psychological type among church goers in England and Wales,«MentalHealth, Religion& Culture», vol. 13, n. 7/8, pp. 805-819.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Fornisci il tuo contributo!