Un’esperienza con un’aspirante suicida
Milly Gualteroni. Giornalista e scrittrice, Milano
Ciò che sto per dirvi è pura cronaca, il racconto di una vicenda realmente accaduta, che potrei definire “Una storia semplice” rubando il titolo a un romanzo dello scrittore Leonardo Sciascia che ben racconta la drammaticità e la complessità dell’esistenza umana. Drammaticità e complessità che è consueta nelle vostre professioni, ma che può diventare spaventosa per la gente comune. E questo è il punto della vicenda che si è svolta nell’arco di otto mesi, dai primi di dicembre a fine luglio di qualche anno fa. Al centro un ragazzo di 18 anni che aveva rivelato all’unica sua amica di 15 anni l’intenzione di uccidersi in un giorno preciso. Stava lavorando a questo progetto in modo ossessivo e metodico.
Allora facevo parte come membro Caritas del Progetto Dopo La Malaombra per la prevenzione del suicidio in Valtellina e Valchiavenna. Una mattina d’inizio dicembre mi telefona da una località lontana rispetto alla mia città un sacerdote. Accanto a lui avverto la presenza di una ragazzina che piange drammaticamente. Il sacerdote mi spiega cosa sta accadendo: la ragazzina è sconvolta perché da più tempo sa del progetto del suo amico.
Chiedo qualche notizia in più, mi dicono che il ragazzo – chiamiamolo Paolo – è sotto shock per via della morte del padre avvenuta tre mesi prima, padre che era un suo forte punto di riferimento; Il ragazzo trascorre molto tempo in solitudine nel casotto degli attrezzi paterni, è dimagrito, tende a non andare a scuola e, per di più, ha alle spalle un tentato suicidio, che risale a due anni prima. Dunque la situazione non è da sottovalutare.
Ovviamente il mio consiglio immediato è: rivolgetevi al Cps locale. Purtroppo, mi rispondono, il ragazzo si rifiuta, non vuol vedere nessuna figura professionale perché, a dir suo, è rimasto deluso dall’esperienza precedente.
Mi sento coinvolta, non desisto, chiamo uno psichiatra, mi faccio dare un nominativo in quella località, richiamo il sacerdote, faccio in modo che il nominativo arrivi a Paolo. Niente da fare. Il suo rifiuto a incontrare uno specialista è radicale e a sua volta lo specialista mi dice di non poter far nulla in quelle circostanze.
Che fare? Per un attimo penso che non c’è nient’altro ch’io possa fare – ah! tra l’altro si era tentata la carta materna ma la madre rifiutava di collaborare. Ero dunque sul punto di rinunciare quando mi venne in mente ciò che facevano gli indiani navajo quando una persona cadeva in stato di prostrazione psicofisica. Conoscete questa modalità dei navajo? Per loro, la persona depressa era l’espressione estrema di un disagio, di una sofferenza, di un male di vivere che riguardava l’intera comunità. Così, dopo un’ammissione di responsabilità collettiva, i navajo costruivano una tenda e il depresso veniva adagiato all’interno, al centro. Da quel momento, intorno a lui, sedevano a turno più membri delle diverse famiglie della tribù che, insieme, lo accudivano, lavandolo, nutrendolo, e gli manifestavano la loro partecipazione e il loro affetto. Questo era un modo di incontrare, nella sua sofferenza, anche la propria sofferenza. Per risvegliarlo alla vita, gli venivano, inoltre, offerti fiori e frutti profumati, da toccare, da odorare, da mangiare. Nel corso delle giornate, venivano alternati momenti di silenzio ad altri riempiti di dolci melodie. Soprattutto, di sostegno a quell’impegno concreto v’era la preghiera . Insieme, invocavano sulla persona e su di loro la discesa dello Spirito.
Quest’azione collettiva era un’ardua fatica, tuttavia resa lieve dalla solidarietà gioiosa di chi nella vita ha fiducia e speranza, anche quando la vita sembra sconfitta dalle tenebra di un’indicibile sofferenza. In genere, la terapia cominciava a dare i suoi benefici in un arco di tempo che variava dalle tre settimane al mese.
Comunque sia, ispirata da questo modello mi dissi che, data la morte del padre, un primo aiuto poteva essere trovare nella comunità di Paolo una figura maschile adulta per il quale il ragazzo avesse fiducia, stima, magari affetto. Decisi di ricontattare la ragazzina. Per avere la sua fiducia furono necessari vari colloqui, tutti telefonici perché eravamo troppo distanti, colloqui necessari anche per aiutarla a vincere il terrore che la parola suicidio scatenava in lei. Riuscii a fare ciò mettendo in gioco le mie competenze ma anche parlando della mia esperienza personale visto che il dramma del suicidio è una componente che fa parte del mia vita, familiare, personale. Tornando alla ragazzina, mi indicò la persona giusta: il suo insegnante di filosofia, tra l’altro un cattolico, di una quarantina d’anni. Lo contattai, gli spiegai la situazione, il progetto che avevo in mente e ottenni un frustrante rifiuto. In quel momento mi fu chiaro lo stigma che ancora esiste molto forte dinnanzi a questo tema. Stigma che è innanzitutto paura e che lui poi giustificò dicendo che si sentiva troppo turbato, disarmato, impreparato. Lo pregai di non essere precipitoso, che non era necessario nulla di speciale, che era solo necessario tentare di vivere con pienezza una relazione…Mi offrii di risentirlo ancora a distanza di qualche giorno per parlare dell’argomento in modo più disteso e articolato. Alla fine, lo convinsi.
Tra l’altro, due furono i concetti cruciali con tutte le persone con cui parlai:
1) Persuaderle che l’essere coinvolte in questo esperimento estemporaneo, nato solo dalla necessità, non comportava una responsabilità sulla riuscita o meno dell’esperimento stesso: nessuno doveva farsi carico o sentirsi responsabile o colpevole per un eventuale fallimento. (facile a dirsi ovviamente…)
2)Nessuno può essere salvato da nessuno. Perfino Dio, che ha creato l’uomo, non può salvare l’uomo senza l’uomo e la sua cooperazione, come disse, tra l’altro, sant’Agostino.
Certo stavo chiedendo molto a me stessa e a loro ma dai racconti della ragazzina e del sacerdote mi ero persuasa che questo ragazzo fosse ancor dentro dei margini di sicurezza, nonostante il dolore, nonostante l’angoscia, e che dunque fosse possibile aiutarlo, anche senza gli specialisti che lui peraltro rifiutava. Come? Ricorrendo a una a parte della comunità per strapparlo alla sua solitudine luttuosa, far agire una piccola rete di sostegno per fargli dimenticare quella corda da impiccato che aveva già acquistato. Il ragazzo frequentava l’ultimo anno del liceo dunque era anche necessario che si rimettesse a studiare innanzitutto per ritrovare una motivazione, occupare il tempo, avere un obiettivo: superare gli esami di maturità. Decisi allora che era tempo di coinvolgere altri insegnanti, ancora una volta sulla base delle preferenze del ragazzo: superate le difficoltà, arruolammo nella rete il professore di matematica e la professoressa di scienze naturali. Dopo un’attentissima valutazione si riuscì a individuare anche un compagno da coinvolgere nell’operazione.
A marzo si presentò la data del compleanno di Paolo. Proposi al gruppo l’idea di organizzare una festa a sorpresa proprio nel casotto del padre. Sgomento. Dubbio. Lo fecero. Quando il ragazzo arrivò ebbe una immediata reazione di rifiuto e si allontanò, ma poi ritornò e si fermò a festeggiare. Nel frattempo aveva ripreso a studiare grazie agli insegnanti che gli davano ripetizioni al pomeriggio. E’ poiché era aumentata la confidenza tra lui e l’insegnante di filosofia mi sentii di spingere il professore ad un passo ulteriore e cruciale: affrontare con ovvia delicatezza i temi della morte e del suicidio, visto che la data indicata si stava avvicinando. Nello studio del professore accade un evento importante: Paolo, che a parte la visibilità faceva di tutto per mascherare il suo disagio, dopo un’apparente freddezza, scoppiò improvvisamente a piangere, buttò fuori quella bestia nera che gli rodeva il cuore, si lasciò andare a uno a sfogo totale – a partire dalla domanda “che cosa sto facendo della mia vita? – Quest’episodio segnò un discrimine tra un prima e un dopo.
Si rimise a studiare con impegno, riprese le attività sportive, affrontò e superò la maturità,per poi iscriversi all’università.
Tra gli aspetti positivi di questa storia c’è anche il fatto che i tre insegnanti erano dei perfetti estranei, quasi non si salutavano nemmeno, e attorno alla sofferenza di questo ragazzo, forse specchio di loro disagi, hanno condiviso un’avventura umana di notevole bellezza, nata soltanto dalla volontà di concorrere insieme all’accudimento della vita. Vincendo pregiudizi, fatiche, rigidezze,, eccetera…
Un beneficio che si riversò anche sulla mamma di Paolo.
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