Crisi del desiderio del soggetto: l’irruzione dell’ideologia gender
Giancarlo Ricci – Psicoanalista e saggista, Milano
Chiedendomi come introdurre qualcosa che abbia la portata di una testimonianza volevo premettere qualche considerazione sui tre termini che compaiono nel titolo e cioè: desiderio, crisi e soggetto.
Partiamo da desiderio. Quale desiderio? Mai come oggi le parole assumono una forte equivocità e dunque è meglio precisare. Dato che la nostra società propone un’offerta infinita, sconfinata di oggetti da desiderare, e dunque siamo immersi in una iperproduzione di desideri, diciamo subito che il desiderio non è il capriccio ma, come sosteneva Freud, voto, trasporto, vocazione, spinta (Wunch). Proporrei questa puntualizzazione: il desiderio può situarsi come quel nucleo di verità che ci lega alla nostra soggettività. C’è un punto preciso in cui Jacques Lacan parla della colpa a proposito del desiderio. Si trova nel famoso Seminario sull’etica dove scrive: “La sola cosa di cui si possa essere colpevoli è di aver ceduto sul proprio desiderio”; dice proprio “di aver ceduto sul proprio desiderio”. Immediatamente si capisce che non si tratta di desiderio come effimero capriccio, ma qualcosa di completamente differente dal principio di piacere. Il desiderio dunque è quella forza che esige uno sforzo pulsionale per raggiungere la soddisfazione. C’è qui una complessità teorica e clinica che non possiamo approfondire. La società del consumismo è la società del principio di piacere dove un oggetto vale l’altro. Il godimento – lo accennava benissimo Vittorino Andreoli quando parlava della pulsione di morte e della distruttività – è talvolta un godimento mortifero, basti pensare alle patologie delle dipendenze. Freud lega la pulsione alla soddisfazione. In un’altra lettura potremmo dire: la soddisfazione riguarda la persona. Senza soddisfazione una persona non può crescere, non può formarsi.
Crisi: è una parola straordinaria. Infatti crisi viene dal verbo greco “krisis” che significa scelta, da “crino”, distinguere. La parola crisi sappiamo come viene usata: ci troviamo in un’epoca di crisi, di difficoltà economica, ecc. Sfugge spesso la dimensione di occasione, di opportunità, di presa di posizione. In tal senso la questione della crisi si connette a una dimensione etica proprio perché decidiamo di “non cedere sul nostro desiderio”. La parola crisi è anche quella da cui viene “discrimen”, ciò che separa; proviene da “crino”, distinguo, separo, scelgo, preferisco, decido, giudico. I latini traducevano con “cernere”, ossia discernere, cioè l’uso e la pratica della ragione, dell’intelletto.
Lancio una provocazione: in un’epoca in cui si parla sempre di diritti e in nome dei diritti, si dice che non bisogna discriminare (giustamente). Questo è il politicamente corretto, che passa a tutti i livelli. Forse possiamo spingerci oltre. Interroghiamoci ad un altro livello: proprio in un’epoca di crisi occorre “discriminare”, cioè occorre “discernere” tra quelle posizioni che non cedono sul loro desiderio da altri discorsi che intendono il desiderio come espressione del principio di piacere. Secondo quest’ultima scelta tutto è possibile, ogni godimento è legittimo e quindi un oggetto sessuale vale l’altro, ogni piacere è uguale all’altro, possibilmente cercando il godimento più estremo, più distruttivo. Discernere significa prendere posizione.
Una digressione su Freud, che è un gigante del secolo scorso. È uno dei pochi intellettuali che si è posto contro le visioni nichilistiche del proprio tempo. Freud molto finemente distingue la parola Kultur, traducibile genericamente con civiltà, da “Zivilisation”, civilizzazione. E insiste: attenzione, una civilizzazione senza civiltà è inconcepibile, non può esistere civilizzazione senza civiltà. Come possiamo leggere oggi questa notazione? Non possiamo diffondere tecnologia – tecnocrazia come si dice oggi – senza civiltà, senza un’interrogazione che ci riporta alle nostre radici antropologiche, culturali e soprattutto etiche. Non vi può essere scienza o tecnologia che possano esentarsi dall’interrogarsi sul gesto etico e cioè sul desiderio. La tecnologia produce cose sorprendenti, gli effetti speciali dell’ipermodernità. Ma qual è il telos, lo scopo? Dove va tutto ciò? La contemporaneità è attraversata da una vertigine.
Infine: il soggetto. La parola soggetto è ricca di malintesi. Soggetto è una parola che ha grande dignità, anche giuridica. Il diritto romano – che nell’ipermodernità viene smontato e fatto a brandelli – distingueva tra persone e cose. Occorre ricordare e dire che il concetto di persona è un’invenzione del cristianesimo, per esempio. Perché è importante interrogarci attorno al soggetto? “Subjectus” è una parola a due sensi, “saponosa”, che va da una parte e dell’altra: soggetto a qualcosa e soggetto di qualcosa.
La mitologia della libertà, dell’auto-determinazione presuppone che l’uomo sia libero, perciò dotato di facoltà di scelta. Dunque l’uomo è soggetto di scelte. Mai quanto il Novecento, e la psicoanalisi va in questa direzione, testimonia e racconta come il soggetto sia strutturalmente diviso. Anche i giuristi lo sottolineano: ancor prima che possa dire Io ciascuno di noi è assoggettato, in un modo assolutamente irrevocabile ed indisponibile. A che cosa è assoggettato? È assoggettato a una lingua, che è quella che continuamente gli suona nelle orecchie. È assoggettato a un corpo, che non ha scelto. Ed è anche assoggettato, che lo voglia o no, al fatto che ciascuno di noi, venendo al mondo, gli viene assegnato un cognome (che è quello del padre) e un nome che indica il sesso di appartenenza: maschio o femmina. Questo accostamento tra il nome del padre e il sesso è molto significativo, denso di implicazioni.
Dunque: desiderio, crisi, soggetto. C’è una frase di Goethe che Freud riporta diverse volte e che mi sembra quasi la cifra di questi tre termini: “Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero”. In questa frase è espresso un desiderio: “se vuoi possederlo davvero”. La crisi: “ciò che hai ereditato”. Il soggetto: “riconquistalo”. Ognuno di noi venendo al mondo ha già un’eredità, ha un corpo, ha una lingua che prima o poi comincerà a parlare; e ha un sesso, ha una famiglia, un padre ed una madre che non ha potuto scegliere.
In questa seconda parte vorrei cercare di testimoniare qualcosa della pratica. In ogni caso clinico c’è qualcosa che risuona differentemente, che ci interroga intorno alla nostra epoca e alla nostra civiltà. Nella mia esperienza è capitato che arrivassero giovani e meno giovani con, chiamiamoli così, disturbi dell’orientamento sessuale e che ponevano la questione dell’omosessualità: immaginata, presunta, praticata, attribuita da altri, e via dicendo. Da parecchi anni lavoro su questo tema. Nel libro “Il padre dov’era” ho cercato di tracciare una sorta di mappa della complessità delle questioni che vengono portate da questi pazienti.
Innanzitutto, un mito da sfatare: non esiste un’omosessualità unica, predeterminata. Vi sono varie forme di omosessualità. Cioè non esiste un contenitore di tutte le omosessualità come vorrebbe invece una certa modalità mass-mediatica, sociologica, che insiste sulla condizione dei gay e dei diritti dei gay, sulla discriminazione, sull’omofobia. Nella singolarità di ogni caso le cose sono differenti. Nel raccontare il loro disagio, i pazienti compiono un percorso che attraversa alcuni punti radicali della soggettività. Ne metto in rilievo alcuni. Per esempio nella miriade di forme, e ciascuno ne ha una propria, che si riferiscono all’omosessualità, talvolta non prevale tanto l’attrazione verso persone dello stesso sesso quanto una difficoltà, una complicazione, un inceppamento relativo all’assunzione della propria identità sessuale. In effetti il modo con cui un individuo approda all’identità sessuale, è un lavoro psichico immane, è un processo che si svolge in quasi due decenni. Da quando nasce, e ancor prima, fino alla post adolescenza. Noi adulti lo dimentichiamo.
Un’altra tematica ricorrente è la difficoltà ad avvicinarsi al mondo femminile. Per alcuni è assolutamente complesso, inconcepibile. Talvolta il disorientamento di alcuni giovani proviene dal fatto che il mondo femminile è barrato dalle affettuosità materne che si protraggono oltre la pubertà, la preadolescenza e proseguono nell’adolescenza. Sono madri che non possono fare a meno del figlio. Sono madri che non consentono ai loro figli di diventare uomini, li vogliono mantenere bambini. E purtroppo i padri tacciono, latitano, si sottraggono silenziosamente. Taluni non capiscono la differenza tra bambino e figlio.
Il tema dell’assenza del padre è decisivo. Ma attenzione a intendere l’assenza solo come qualcosa di fisico, di concreto. L’assenza è essenzialmente assenza simbolica. Suscita amarezza sentire giovani che parlano del padre che non hanno avuto, che era inadeguato, sfuggente. Ma emerge anche un altro aspetto ricorrente: “mia mamma disprezzava mio padre, non lo considerava, lo umiliava”. È frequente spesso queste e altre forme di azzeramento simbolico del padre. L’effetto è che la madre divora i figli.
Dunque la formazione di un’identità sessuale, su questi presupposti, risulta complessa, difficile. In quello che si chiama il romanzo familiare del soggetto, il tema dell’identità del figlio è rilevante. Si pensa che l’identità sia qualcosa che deve rimanere identico a sé, che deve rimanere fedele a sé. A ben vedere l’identità, da un punto di vista logico, è un concetto che nasce dall’alterità e ha bisogno dell’alterità per affermarsi. L’identità è una relazione. Dunque per un figlio, maschio o femmina, è decisivo, per il suo processo di costruzione dell’identità, potersi relazionare adeguatamente sia con la madre sia con il padre. Dobbiamo tuttavia formulare questa constatazione alla rovescia: una madre e un padre occorre che consentano al proprio figlio di relazionarsi con loro in un modo “sufficientemente” sano.
La sessualità è un altro grande tema di rilievo. Si situa infatti nel cuore della soggettività e chiama in causa il passaggio dal caso singolare a una dimensione sociale, culturale e storica. Sostengo che la sessualità – base della relazione tra i sessi, dei legami familiari e sociali – è un termine assolutamente da riscoprire nei tempi d’oggi in cui domina una versione sessuologica in cui prevale la prestazione, la seduzione, il corpo-immagine, l’erotizzazione. L’era delle immagini, sempre più voyeurista, ci mostra l’erotismo, la bellezza come obbligo, vari modi degradati per giocare a confondere la differenza sessuale, per mascherarla o uniformarla a stereotipi narcisistici. L’uso della pornografia, tanto diffuso quanto sottovalutato, ha effetti devastanti sui giovani perché attua una trasformazione irreparabile dell’immaginario erotico a svantaggio della relazione amorosa, del legame con l’altro, con il suo enigma. E talvolta la pornografia diventa una vera e propria dipendenza.
In coloro che giungono a interrogarsi intorno a un disagio relativo al proprio orientamento sessuale, le storie delle loro famiglie sono molto particolari, problematiche. Emerge come gli statuti di padre e di madre siano stati ben lontani da quanto occorreva che fossero. Senza cioè una misura adeguata rispetto al desiderio e alla legge.
Mi sembra importante a tal proposito evocare uno spunto notevole che E. Scabini e V. Cigoli hanno sollevato in un articolo (“Paradossi dell’omogenitorialità”, Vita e Pensiero 3 – 2013) Può sembrare una metafora forse un po’ semplificante ma ci consente di intendere meglio alcune cose: la distinzione tra Bambino e Figlio. Spesso i problemi di orientamento sessuale, di identità sessuale non compiuta, hanno sullo sfondo una situazione familiare in cui, in qualche modo, il nascituro è stato pensato, concepito e programmato in quanto Bambino e non in quanto Figlio. E cioè in quanto oggetto di desiderio di una madre o di un padre. “Voglio avere un bambino”, dicono questi genitori. Una frase con una risonanza diversa sarebbe: “voglio fare un figlio”. In un certo senso si nasce Bambini, ma Figlio occorre diventarlo. Non si nasce Figli. E questo dipende soprattutto dal padre e dalla madre. Dipende cioè in quale struttura di discorso il nascituro è situato dal punto di vista simbolico. Il desiderio di maternità è qualcosa di complesso, di opaco, anche se sembra la cosa più naturale. E il desiderio di paternità altrettanto. Parlare di generatività significa evidenziare l’asse verticale della sessualità, quello in cui si svolge la procreazione, la trasmissione, il futuro della civiltà. Del resto è lo statuto di Figlio, e non quello di Bambino, a chiamare in causa il funzionamento della filiazione, ossia a consentire che una civiltà possa rigenerarsi, assicurare l’alternarsi delle generazioni. Se togliamo questa possibilità la società implode, si omosessualizza potremmo dire, e cioè si mantiene identica a sé, collassa in una sterile stessità.
Il figlio nello statuto del discorso occidentale – qui si aprirebbe una serie di considerazioni – è il figlio generato e non creato. Questo occorre ricordarlo, tenendo conto degli scenari in cui le biotecnologie (per esempio la fecondazione eterologa) divengono sempre più forme di gestione biopolitica della società. Il rischio è di promuovere forme di perversione erette a sistema. Il termine, così medicalistico, di riproduzione assistita proviene dalla zootecnia; per gli umani si tratta di procreazione, di struttura di filiazione, di rapporti di parentela. Françoise Dolto, una grande psicoanalista di orientamento lacaniano, interveniva nei dibattiti sull’educazione sessuale dicendo: “L’unica educazione sessuale per me concepibile come analista è insegnare ai bambini e ai giovani quali sono i rapporti di parentela”. Infatti i rapporti di parentela permettono simbolicamente all’individuo di trovare il proprio posto e di elaborare uno statuto sessuale. Non si tratta solo di trasmettere il divieto dell’incesto ma di evitare alcune sue forme sostitutive come atteggiamenti di simbiosi, di adesività, di identificazioni problematiche se non patologiche.
Qualche parola infine intorno all’irruzione dell’ideologia gender. Che cos’è la teoria gender è semplice e complesso al tempo stesso. È quella teoria di ispirazione americana, di impronta costruttivista, secondo cui un individuo può scegliere a suo piacimento a quale sesso appartenere. Fa come se il soggetto avesse la disponibilità di scegliere a quale sesso di appartenere, a prescindere se è maschio o femmina. Questo principio base si è strutturato successivamente in una serie di implicazioni che vengono assunte dai movimenti LGBT (lesbico, gay, bisessuale, transessuale) promuovendo la lotta contro l’omofobia, contro la discriminazione e una serie di diritti. Come se l’essere umano venendo al mondo avesse davanti a sé una sorta di menu in cui sceglie, mettere una crocetta: omosessuale, bisessuale, transessuale, ecc. C’è qui una questione importante: non è affatto vero che omosessualità ed eterosessualità sono strutturati come un’alternativa, non sono simmetrici, non sono opzioni. Nell’essere umano, la sessualità è strutturalmente eterosessuale. Mettere sullo stesso piano eterosessualità e omosessualità è un bluff, un trucco concettuale che ormai è passato.
L’ideologia gender sta avendo, da pochi anni, un forte impatto anche da noi. Un numero del Times, uscito nel marzo del 2013, aveva una doppia copertina: su una due uomini che si baciano, sull’altra due donne che si baciano. Il titolo era lo stesso: “Matrimoni gay: abbiamo già vinto”. In quei giorni Obama aveva chiesto alla Corte Suprema degli USA di togliere dalla Costituzione il riferimento al fatto che i matrimoni debbano essere solo tra uomo e donna. C’è una pressione internazionale, che va di pari passo con una forte tendenza neoliberista, costituita da lobbies, da istituzioni governative, da fondazioni che premono per affermare la visione gender della sessualità. Premono per esempio per i diritti al matrimoni gay. Questa pressione giunge anche in Europa e in seguito viene diramata nei vari paesi. Nel 2010 c’è la raccomandazione affinché l’Italia si doti di una legge contro l’omofobia. C’è il decreto Scalfarotto in discussione al Senato. Se passa non possiamo più dire che una famiglia normale è composta da padre e da madre perché discriminiamo.
Non dimentichiamo che la civiltà mediterranea è molto diversa da quelle anglosassoni, da quelle del nord Europa. Proprio nei paesi che oggi riteniamo più avanzati, per esempio l’Inghilterra, sino a qualche decennio fa gli omosessuali erano messi in carcere. Oggi all’Italia viene chiesto di non discriminare gli omosessuali e di dotarci di una legge. Non si dice che l’Italia è tra gli ultimi posti, per i casi di effettiva omofobia o discriminazioni, rispetto ad altri paesi europei.
Si tratta di tematiche e di argomenti che hanno una forte impronta ideologica. Per esempio le associazioni LGBT dicono che oggi in Italia ci sono 100 mila bambini nati o che vivono in famiglie omosessuali. Sono dati inventati, non esiste un vero censimento. Eppure è un’informazione che passa per vera. Evidentemente i numeri fanno forza. E ugualmente le ricerche che affermano che i bambini nelle famiglie omogenitoriali crescono bene, spesso sono ricerche scarsamente affidabili, sempre condotte in paesi anglosassoni o americani. Gli esiti dell’educazione e della crescita di un bambino o di una bambina in famiglie gay, secondo queste ricerche, non comporterebbe in linea di massima alcun problema. Se poi si va a vedere ricerca per ricerca, anno dopo anno, rivista dopo rivista, (come hanno fatto alcuni colleghi), ci si accorge che queste ricerche sono abbastanza imprecise, talvolta pilotate: i parametri e le campionature risultano arbitrari o si limitano a verificare gli effetti sino alla pubertà trascurando l’adolescenza. Alcune addirittura sono finanziate dai movimenti LGBT. Troviamo questionari autocompilati o interviste spontanee.
Il risultato tuttavia è abbastanza interessante. Perché passerebbe l’idea che l’amore, in un’unione gay, sarebbe sufficiente a svolgere bene la funzione genitoriale. In un certo senso potrebbe essere vero ma bisognerebbe capire che cosa intendiamo per amore. Se c’è amore c’è tutto, vien detto. Evidentemente questa notazione si riferisce al concetto di Bambino, lo enfatizza, lo rende narcisisticamente trionfante. Per far sì che un Bambino divenga Figlio non basta l’amore. Non a caso in queste ricerche spesso viene evitata la parte più cruciale, quella dell’adolescenza e della post adolescenza, quando un soggetto incomincia a diventare Figlio cioè ad affacciarsi per la prima volta sul mondo con la propria soggettività. Ma ciò può avvenire se ha elaborato il mito della propria origine. Come farebbe a scegliere dove andare se non intende pienamente da dove viene?
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