I legami familiari di una generazione in sofferenza: risposte possibili
Giancarlo Tamanza – Docente Facoltà di Psicologia, Università Cattolica di Milano
Cercherò di essere sintetico e di provare a farvi arrivare un minimo di emozione che io provo quando lavoro. Rispetto alla dimensione familiare, pensata dentro la prospettiva antropologica nella quale gli interventi di questa mattina si sono mossi, molto è stato detto. Anche se non si è parlato della famiglia nel senso del dato reale o della pratica clinica-familiare, i temi e i concetti possono essere declinati anche in un’ottica familiare. Ma direi che qualcosa che si può aggiungere.
Avevo pensato di leggervi un pezzo di un testo scritto con un ragazzo che ho seguito perché mi sembrava riuscisse a dare un po’ l’idea, ma tante sono le assonanza con i discorsi sin qui fatti, molto chiari e rilevanti, che toccano il dato culturale della civiltà nei vari passaggi nell’individuo.
Quello che può aggiungere uno sguardo familiare è che cerca di mettere insieme e di tenere insieme un po’ di più i vari protagonisti. Sento vero e utile come criterio di lettura l’accentuazione posta sul padre assente nelle sue varie declinazioni e significati. Ma l’ottica familiare ci fa pensare che l’assenza del padre non è solo una faccenda della società, non è solo una faccenda del padre: nelle famiglie la faccenda è anche della madre. Nel senso che comunque rimane vero il tema, il significato della funzione paterna, ma se questa c’è o no è anche il risultato di una storia e di una relazionalità che riguarda sicuramente anche la madre. E il più delle volte, oltre alla coppia genitoriale, coinvolge senz’altro aspetti generazionali più ampi: questo è un dato non solo teorico, ma anche assolutamente visibile nell’incontro reale. Altra considerazione è che esiste un problema rispetto all’assenza della funzione del padre, della funzione generativa, e il caso che vi racconto lo fa intuire. A volte il problema va al di là ed è ancora più grosso: è il tema di una presenza del genitore che, anziché essere generativa, rischia di essere una presenza mortifera: cioè il problema di una presenza che non riesce a fare quel processo di filiazione e inscrivere quel bambino nel ruolo e nella posizione del figlio, e quindi a generarlo, perché è una presenza da parte dei genitori, non solo del padre ma anche della madre, saturata troppo su proprie necessità e bisogni o su un proprio godimento dell’ istante, che non permette di accedere a questa funzione.
Leggo qualche passaggio di una storia scritta durante un percorso di accompagnamento ad un adolescente di 15 anni, che ho incontrato nella mia pratica nel terreno di intersezione tra la psicologia e il diritto. Io lavoro prevalentemente come consulente per i tribunali e quindi incrocio queste situazioni di grande sofferenza, diffusa e generalizzata, dove non mancano episodi acuti, che non hanno la caratterizzazione della cronicità o della psicopatologia definita da una diagnosi, ma non di meno costituiscono situazioni molto difficili anche difficili da avvicinare, in quanto l’incontro avviene in presenza di un’autorità, un Tribunale che in qualche modo obbliga: in questo spazio costruire un passaggio di condivisione di vicinanza di minima fiducia e alleanza, richiede un’elevata tolleranza da parte dell’operatore.
Questo è un ragazzo che ho incontrato quando aveva 15 anni, dopo un anno di incontri con i suoi genitori dentro una vicenda complicata da ricostruire, ma che mette insieme aspetti psicologici e legali. Come tentativo di costruire una trama di lavoro che potesse essere avvicinabile per lui, gli propongo di scrivere, come fosse una sorta di copione teatrale, le cose che abbiamo provato a raccontarci ed esplorare nel primo anno di lavoro e che riguardavano la sua storia, la sua identità, la sue vicende personali e quant’altro. Vi leggo questo pezzo:
“Sono nato in una famiglia normale, anzi felice, anzi per bene, almeno apparentemente. Ho un padre, una madre, una sorella una bella casa dove stare, non mi manca niente. I miei genitori mi hanno chiamato Samuele Elia, due nomi strani, chissà dove sono andati a prenderli. Più sono cresciuto meno mi sono piaciuti, me li sento appiccicati addosso come qualcosa di estraneo. Elia soprattutto, infatti non lo uso quasi mai e preferisco non si sappia perché penso che i miei amici mi prenderebbero in giro. Sono andato a cercare il loro significato e ho scoperto che Samuele è un nome di origine ebraica che significa “il suo nome è Dio”; esiste un’altra interpretazione che fa risalire il nome a un’origine più antica, aramaica che significa “il Signore ha ascoltato”. Elia significa semplicemente “Dio”. Se è vero come dice qualcuno che nel nome c’è un segno del destino della persona a cui l’hanno dato, sono praticamente fottuto. Dio infatti non esiste, è solo un’idea, un sogno, un’immagine allucinatoria cui le persone deboli si attaccano per consolarsi delle sofferenze della vita e che ciascuno costruisce a sua immagine e somiglianza, e a cui ciascuno fa dire e fare ciò che gli pare. Sarà forse questo il mio destino? Sarà forse per questo che i miei genitori mi hanno messo al mondo?”
È l’incipit, un po’ costruito, ma sono concetti suoi, che dice di una posizione. Il caso si dispiega a lungo, con molti aspetti che riguardano l’ossessività del padre, la separazione dei genitori, aspetti di violenza e di reato che lui compie e che si incastrano molto bene su questa posizione iniziale: cioè a dire, se la funzione dei genitori nella filiazione ha certamente qualcosa di divino nel senso che rimanda in qualche maniera a un bisogno di generare, ma anche di creare e lasciare qualcosa di proprio nel tempo – ed è importante per i figli riconoscere in parte questa funzione . Credo però che diventi estremamente pericoloso e patogeno quando si verifica un ribaltamento, per cui la funzione divina e salvatrice viene affidata al figlio, come scrive Samuele in qualche passaggio successivo: “in fondo a me piaceva anche fare la parte di Dio”, perché va ad alimentare un senso di potenza, per quanto immaginario e insostenibile, che dà spazio di godimento nell’immediato, anche se il costo è di corrispondere totalmente a un bisogno salvifico dei genitori.
Fatalmente, come quasi sempre succede, nell’aprirsi all’adolescenza il legame diviene soffocante, insostenibile, mortifero e rispetto a questo si apre la crisi e la rottura, che diviene rottura del Sé del ragazzo, di fronte al quale i genitori non possono che appiattirsi su una lettura sintomatica, su un’attribuzione del problema al figlio. Un figlio che passa tre sere in cella e poi non finisce in carcere non si sa bene perché. A volte i genitori arrivano a dire che il problema è che il ragazzo non è ancora abbastanza maturo, a riprova della loro estrema difficoltà a riconoscere il significato e la gravità di questi passaggi.
Cosa aggiunge di più l’attenzione rivolta al familiare, oltre a provare a tenere e mettere insieme almeno i due genitori e l’intorno delle relazioni? Credo il fatto che, nonostante tutte le situazioni difficili, sociali e familiari, la famiglia rimane inevitabilmente un referente obbligato per i figli e che mantiene una funzione specifica, che non può essere sostituita. Su questo punto verte quella crisi che anche la professoressa Scabini ricordava in apertura. Cioè, se è vero che da un punto di vista del profilo biologico e sociologico l’essenziale è che venga garantita una funzione riproduttiva, in quanto sufficiente per dare continuità nel tempo, con la possibilità che la famiglia sia sostituita da differenti forme, o totalmente asettiche e tecnicistiche o altre che nell’esperienza incontriamo, quello che rimane insostituibile non è solo l’aspetto riproduttivo, nel senso di mettere nella società nuovi individui che ben si adattino alle esigenze dei criteri e delle logiche che governano l’inciviltà. L’essenziale per la famiglia oggi è sottolineare la sua funzione generativa: nel nostro linguaggio “generativo” rimanda, come hanno detto con parole diverse gli interventi che mi hanno preceduto, alla possibilità di offrire uno spazio, un tempo, una relazione all’interno della quale l’individuo costruisca la propria soggettività, si realizzi l’umanizzazione della persona, qualcosa che va oltre l’esistenza di un dato individuale e richiede un processo che soltanto in una continuità di relazione, in una relazione in cui gli elementi vitali prevalgono su quelli mortiferi, si può realizzare.
Ho detto prima che non potevo assumermi nemmeno per scherzo la risposta sul cosa si può fare, perché in quest’ottica, oltre a quanto è già stato richiamato, dentro la prospettiva in cui noi ci muoviamo, dovrebbe essere fondante l’attenzione alle dimensioni etiche intese come aspetto specifico anche di una relazione di cura. Se occorre provare a fare qualcosa in più, ancora una volta riferito allo specifico del familiare, penso che bisogna stare attenti: se si vuole prendere sul serio l’idea, nella clinica, di incontrare la dimensione della relazione familiare e di farne una risorsa anche nel processo di aiuto, questo non avviene se non se ne predispongono le condizioni, i tempi, gli spazi e i modi per poterci provare. Noi che riteniamo così importante la dimensione familiare, anche se poi nelle nostre pratiche lavoriamo in contesti diversi con modalità diverse, forse a volte corriamo il rischio di pensare che, convinti come siamo che la dimensione familiare sia decisiva, nel momento in cui ci apprestiamo a cercare offrire un aiuto più o meno specialistico o terapeutico a una persona, sia quasi sufficiente avere questa attenzione. Io credo che qualcosa in più si può fare se noi teniamo conto che la dimensione relazionale della famiglia ha una sua consistenza, ha una sua specificità e che per poter provare a incontrarla, a capirla, a farne una risorsa nel processo d’aiuto occorre anche attrezzarsi in modo specifico: cosa possibile, che però non coincide soltanto o tanto con l’incontrare la famiglia tutta insieme sempre e comunque, ma consiste anche nel far sì che la relazione stessa per le persone per cui ci mettiamo a disposizione divenga in qualche modo oggetto di cura. Ed è tutt’altro che scontato che, quando le persone chiedono aiuto a noi portandoci una rappresentazione del loro bisogno come legato a quello che vivono nella relazione con la madre, il padre, il partner ecc, mostrando così nella loro rappresentazione un’apertura al relazionale, ciò in sé significhi che siamo nella condizione di poter lavorare su una vera dimensione di legame. Occorre attrezzarsi affinché le persone arrivino, attraverso un lavoro con noi, non certo spontaneamente, a identificarla come un elemento che accomuna sia nella responsabilità che nella possibilità di risoluzione.
L’altra cosa che mi viene da pensare riguarda più la posizione dell’operatore: forse dovremmo avere il coraggio di lavorare per una guarigione e non soltanto per una cura. So che è il contrario di quello che spesso si dice, ma credo che in molti contesti e pratiche di cura, per necessità e abitudine, ci sia quasi una rinuncia a questa dimensione ideale di lavorare per la guarigione, che non vuol dire eliminare la sofferenza, eliminare tutti i problemi. Guarigione in senso relazionale significa che è possibile ricollocare la persona al suo posto, dentro le sue relazioni, in un modo sufficientemente soddisfacente e funzionale. Io sento molto forte il limite e anche il rischio di puntare a un ripristino di funzionalità o di adattamento che, se non è soltanto la compensazione sintomatica, rischia di essere poco di più. Lavorare invece su una trasformazione degli assetti relazionali è più impegnativo e costoso per tutti, anche se rimane il rischio di essere soddisfatti di un ripristino più o meno sostanziale di un certo equilibrio: pensare invece alla guarigione, nel senso in cui ho spiegato, averlo in mente, nella testa dell’operatore, non solo contribuisce a sostenere la nostra motivazione e implicazione nel lavoro, ma anche dà un respiro di speranza più piena alle persone che possiamo incontrare.
Lavorando con la dimensione familiare naturalmente è la relazione stessa che andiamo a costruire con le persone lo strumento fondamentale, ed è evidente che noi non possiamo pretendere di perseguire obiettivi relazionali, fare diagnosi relazionali, se prima di tutto non siamo allenati e capaci di lavorare attraverso la relazione che andiamo a costruire con la famiglia. Questo non è scontato e semplice, perché abbiamo spesso un’esperienza di lavoro con singole persone, non sulla specificità di cosa significhi metterci in una relazione di cura nella dimensione familiare. Se è vero che tutte le dimensioni di sofferenza hanno sempre inevitabilmente un’eco nella realtà personale, è anche vero che a volte incontrare le persone e le famiglie ci espone a sollecitazioni in qualche modo differenti, con tempi diversi e forme diverse. Questo credo sia molto importante averlo in mente come obiettivo, come direzione da prendere sul serio, nel senso di entrare in profondità sulla possibilità di sperimentarlo, di metterlo in atto.
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