I percorsi di cura, la relazione tra soggetti, la comunità: tra relazioni di prossimità, bisogno di significato e procedure di presa in carico – Tavola Rotonda
Mario Ballantini – DSM Azienda Ospedaliera Valtellina, Sondrio
Laura Baroffio – La Nostra Famiglia
Chiara Biader – Direttore generale Fondazione per la Famiglia Edith Stein – onlus
Pietro R. Cavalleri – Direttore clinico della Fondazione AS. FRA. Onlus, Vedano al Lambro, MB
Alessandro Colombo – Responsabile Area Salute Mentale Filo di Arianna SCS Onlus
Teresa De Grada – Presidente Associazione Diversamente
Alla Tavola rotonda partecipano diverse esperienze impegnate nell’accoglienza o nell’assistenza, cura e riabilitazione di adulti e minori, prevalentemente in ambito psico-sociale, provenienti da territori della Diocesi di Milano e della Regione Lombardia.
Essa è dedicata ai percorsi di cura nell’ambito di modelli di lavoro differenti per tipologia di assistiti, soggetti proponenti e loro caratterizzazioni, metodi di lavoro, rapporto con la comunità e si propone di evidenziare il possibile impatto che ha nella pratica il tema generale del convegno “Il soggetto e i percorsi di cura”.
In questa cornice, per facilitare il lavoro e favorire il buon andamento della sessione, ogni esperienza è stata invitata a formulare un breve intervento per rispondere alla domanda: come nella propria realtà specifica, opera o progetto, si esprime la dinamica tra soggetto e percorso di cura? In altre parole abbiamo proposto di descrivere sinteticamente secondo quale declinazione i soggetti sono posti al centro nell’ambito della modalità di presa in carico (o modello di lavoro) prevista.
La Tavola rotonda è stata introdotta dagli interventi Paola Soncini e Bernhard Scholz, proposti allo scopo di offrire contributi sulla pratica della relazione tra soggetti negli ambiti di cura e assistenza, all’interno della dinamica sempre attuale tra presa in carico della persona e aspetti organizzativi.
Il Progetto “Dopo la Malaombra”
Mario Ballantini
Il suicidio tematizza da subito il rapporto che c’è fra il singolo, la comunità in cui vive, il modo con cui essa si occupa delle persone in difficoltà, il percorso che viene proposto da chi ha responsabilità di offrire una cura. Il gesto suicidario certamente non riguarda appena chi lo compie.
Qualunque cosa si intenda con la parola “decidere”, decidere di morire o continuare a vivere non dipende esclusivamente da un istinto di conservazione e dal suo venir meno per una malattia mentale.
Sia nelle premesse che nelle conseguenze, il suicidio (e più in generale la suicidalità) è un un fatto anche sociale. Un fatto che coinvolge e sconvolge, interroga e sollecita tutta la trama relazionale della persona (anche nella sua assenza), fino all’intera comunità di cui fa parte.
Come forse alcuni sanno, la comunità in cui vivo, la Valtellina, è uno dei luoghi dove la morte volontaria ha una rappresentazione maggiore che in altre parti del nostro paese.
Tra l’ottobre 2008 e l’aprile 2009 la Caritas di Sondrio, col coordinamento scientifico di AASTER, ha sviluppato un’indagine approfondita sulla percezione del suicidio in provincia di Sondrio.
Le intenzioni non erano quelle di indagare sulle motivazioni dei diversi casi, né dare ragione di tassi diversi tra Sondrio e il resto d’Italia. Più precisamente, il senso dell’indagine era comprendere se e come una comunità ritenga vi sia un legame tra integrazione sociale e suicidio.
Questo legame c’è e il gruppo di lavoro che ha promosso l’indagine non ha voluto fermarsi agli aspetti conoscitivi, ma ha voluto mettere all’opera questo legame, mobilitarsi, implementare delle azioni coerenti che portassero ad una maggiore consapevolezza, ad un maggior benessere ad una miglior prevenzione dei gesti suicidari.
È nato così il Progetto “Dopo la Malombra”. Caritas, alcune cooperative sociali e associazioni, il dipartimento di salute mentale, la asl hanno messo in campo una serie di iniziative coordinate con al centro le persone a rischio di suicidio, la promozione e la facilitazione della relazione d’aiuto e la salute mentale.
Le azioni sono state condotte da un gruppo di lavoro di psicologi ed educatori afferenti alle diverse cooperative che è stato formato sul tema. Questo è un primo risultato non banale: l’attenzione al suicidio e alla sua prevenzione non è certo una competenza diffusa e non riceve l’adeguato rilievo nei percorsi di formazione.
Nel breve tempo che è concesso voglio dare solo qualche cenno ad alcune delle azione intraprese, nell’intento di esemplificare cosa può fare una comunità per chi è in crisi e a rischio di suicidio.
Il primo obiettivo è quello di cominciare a parlare di suicidio per abbassare lo stigma e promuovere la relazione d’aiuto. Sono stati approntati e diffusi spot televisivi, radiofonici, manifesti pubblicitari e altre iniziative a cui hanno partecipato il Rugby Sondrio e il cantautore Davide Van De Sfros.
In secondo luogo si è promossa una maggior attenzione verso coloro che avevano tentato il suicidio. Un certo numero di questi soggetti sono stati arruolati in un programma di follow up aggiuntivo alla usual care, alla proposta di un percorso al CPS, con l’intervento degli psicologi afferenti alle associazioni di cui accennavo.
In terzo luogo ci si è preoccupati della formazione di gruppi che si trovano in posizione critica rispetto alle persone in crisi. È stata intrapresa una formazione specifica, in collaborazione con gli psichiatri del DSM rivolta ai Medici di Medicina Generale, che ha avuto una partecipazione davvero discreta e ha aperto la strada ad altre iniziative. Oltre ai Medici di Medicina Generale, anche i Sacerdoti svolgono un ruolo molto importante per le persone in crisi o con ideazione suicidaria che non è raro che si confidino col sacerdote; inoltre i parroci sono spesso coinvolti nella gestione, delicatissima, delle primi fasi del lutto di familiari di vittime del suicidio. È stato approntanto un depliant informativo rivolto ai religiosi con concetti elementari ma significativi, compresi il rapporto tra l’esperienza di fede e il suicidio e, sopratutto, con riferimenti da attiviare in caso di necessità. Il depliant verrà diffuso capillarmente nelle parrocchie della Valtellina nelle prossime settimane. Chi fosse interessato può ritirare una copia del depliant al banco segreteria dove è presente un operatore della caritas.
Il problema del lutto è stato tematizzato attraverso la promozioni di gruppi di automutuo aiuto per familiari di vittime di suicidio. Sono nati un paio di piccoli gruppi perchè al valle è molto dispersa e il lavoro con questi gruppi ha fatto emergere vissuti profondi e inespressi. Infine sono stati messi a punto interventi di Postvention nelle scuole dove si è verificato un suicidio e il gruppo di lavoro è disponibile a fornire sostegno a comunità che sono in sofferenza per il suicido di un loro membro.
Sono solo alcuni interventi, che in parte sono ancora in atto e ci si sta attrezzando per renderli permanenti. Il concetto fondamentale da portare a casa da queste esperienze è che la sofferenza mentale, di cui il suicidio è l’aspetto più drammatico, innegabilmente deve essere affrontata con una attrezzatura tecnica, organizzativa e conoscitiva specifica e adeguata, dalla farmacologia alla psicoterapia, alle pratiche di riabilitazione. Ma è necessario promuovere una mobilitazione di tutta la comunità in termini di solidarietà, integrazione e lotta allo stigma in modo da abbassare la soglia e facilitare l’incontro con un aiuto professionale per le persone in difficoltà.
L’Associazione La Nostra Famiglia
Laura Baroffio
Chi siamo: mission dell’Associazione La Nostra Famiglia
L’Associazione La Nostra Famiglia (1946) è un Ente Ecclesiastico (civilmente riconosciuto con D.P.R. n. 765 del 19.6.58) nata dall’intuizione di un sacerdote della Diocesi ambrosiana, Don Luigi Monza.
La mission dell’Associazione (spinta da una motivazione caritativa e di solidarietà sociale) assume questi tratti caratteristici:
· tutelare la dignità e migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità;
· farsi carico della sofferenza personale e familiare che la accompagna;
· promuove politiche sociali di inclusione e di tutela della persona disabile secondo i principi della solidarietà e della sussidiarietà.
I percorsi di cura
A livello operativo questa mission si declina e concretizza in molteplici e differenti Percorsi di cura e presa in carico che, sinteticamente, si possono riassume nelle attività di
· diagnostica;
· riabilitazione;
· educazione, istruzione e formazione professionale;
· accompagnamento delle famiglie;
· inserimento lavorativo e sociale;
· ricerca scientifica (studio delle problematiche mediche, psicologiche e psicoeducative delle varie disabilità) attraverso l’attività dell’Istituto Scientifico “E. Medea”;
· accoglienza di bambini con grave disagio familiare in attesa di affido o adozione, bambini e adolescenti soli o con disagio socio-ambientale in piccole comunità o in nuclei di tipo familiare;
· gestione di centri diurni e residenziali per persone adulte con disabilità;
· formazione professionale e universitaria di operatori dei servizi alle persone (“il bene va fatto bene” beato Luigi Monza).
Operiamo all’interno di un Sistema che è complesso per sua natura e per unità di offerta,
che si trova a sua volta all’interno di una più ampia costellazione di Sistemi,
diviene quindi fondamentale agire frequentemente un’opera di ricollocazione perché lo sguardo, l’attenzione, la specificità non perdano mai di vista il bambino e la sua famiglia quali soggetti centrali di qualsiasi intervento.
Incontriamo bambini e famiglie che arrivano a noi iniziando un nuovo percorso o prose-guendone qualcuno intrapreso altrove.
Dovere nostro, qualunque sia la circostanza, accompagnarli attraverso i nostri percorsi di cura all’interno di un più grande percorso che stanno affrontando.
Diventa quindi imprescindibile considerare, quali soggetti e partner dei nostri interventi, anche i Territori di appartenenza delle famiglie, gli ambiti di vita – casa, scuola, strutture educative -, le relazioni significative…
Nell’agire quotidiano la parola percorso assume quindi una dimensione più ampia, varca la soglia delle mura delle nostre Strutture, non si ferma a ciò che è dato o innovabile al nostro interno ma deve permettere la continuità di questo percorso, la continuità della cura che inizia con noi o passa attraverso noi ma non si ferma da noi.
Questi quindi gli elementi che considero importanti per operare con le persone:
· possedere una visione strategica dell’intervento, operando sulle risorse: Lavorare dentro con lo sguardo fuori; con interventi Ex ante – in itinere – ex post
· accompagnando un processo (counseling e facilitazione) in cui l’intervento sociale a volte si dilata nel tempo, oltre la mera presa in cura e necessita, nelle situazioni di cronicità, di trovare spazi mentali ed operativi di novità perché non sia lo stesso Operatore e la sua professionalità a cronicizzare
· Attraverso un modello sistemico partecipativo e comunicativo (case management) che tenga insieme due importanti categorie di agenti:
– coinvolgimento dei caregivers (famiglia e reti informali): obiettivi condivisi, sostenere le risorse, promuovere autonomie (empowerment e self-care), accompagnare i cambiamenti
– interprofessionale: profili funzionali e gestionali differenti
· affrontando dinamiche dalle sfaccettature sempre differenti: da un maggior coinvolgimento tra Servizi ad azioni di mediazione ed advocacy tra Servizi e a favore delle famiglie
· Dentro ad un binomio in cui è importante sviluppare e/o mantenere vivo nellaltro un senso di affiliazione e filiazione: affiliazione al nostro Servizio che prende in cura, accompagna e sostiene in un tempo dato e filiazione al proprio Territorio di appartenenza
· Prestando la massima e possibile attenzione perché:
– dentro ad un tempo dato e sempre più contratto, in uno spazio dai confini oltre le soglie del visibile, le domande scolorite, sgrammaticate, incerte trovano sempre meno possibilità per essere interpretate e valutate con dovizia di cura
– la multiculturalità e la disgregazione familiare in particolare ci pongono di fronte a nuclei con credenze e stili genitoriali diversi, che vivono in luoghi differenti, abitano molteplici contesti, sono frammentati e sfuggono alla realtà dei Servizi oppure, ancor più grave, sono “di tutti e di nessuno” (altrimenti detto sono di Ulisse chiamato Nessuno).
· Ricordandomi di operare sempre allinterno di una relazione educativa e di corresponsabilità dove, nonostante le possibili resistenze reciproche, le nostre famiglie hanno anche bisogno e diritto di sapere che il percorso fatto da noi ha un inizio, una fine e una continuità altrove (handover). Dentro questo tempo, più volte stringente, salutare un utente è un impegno organizzativo e gestionale ma salutare un bambino e la sua famiglia dentro di me e congedarmi da loro è dovere etico e professionale, è garanzia e investimento per accogliere chi nuovo verrà.
La Fondazione per la Famiglia Edith Stein – Onlus
Chiara Biader
La Fondazione per la Famiglia Edith Stein, è composta da 4 consultori privati accreditati di ispirazione cristiana. I consultori sono equiparati ai consultori pubblici, cioè fanno riferimento ad una normativa che sostiene la logica prestazionale: ad ogni bisogno espresso si risponde con una prestazione specifica.
A partire da questa logica i consultori inseriscono le prestazioni in un processo dove il focus, la parte centrale, é determinata dalla persona in relazione, la relazione dentro la quale la persona si definisce e definisce il proprio sé significante nelle esperienze di vita familiare, di coppia, nei legami.
Il processo é costituito da tre fasi : accoglienza, valutazione, progetto. Metaforicamente parlando, il gioco di luce che si produce durante tutto questo percorso illumina sia l’operatore che la persona accolta alternando ora l’uno ora l’altro o tutti e due.
L’accoglienza.
Presuppone ascolto : ogni persona ha una storia da raccontare e la dimensione del tempo legata all’ascolto non é indifferente (45/60 minuti) così come non lo é il modo nel quale ci si pone. Ci viene in aiuto Edith Stein che nella definizione di empatia, seppur difficile da definire, ci parla di una dimensione che propone una conoscenza data dalla percezione dell’altro, della sua esperienza interiore. Una modalità che va quindi al di là della semplice raccolta di informazioni, ma desidera percepire l’esperienza dell’altro anche nel suo essere “in relazione con”.
Ritornando alla metafora, si potrebbe affermare che la luce illumina e colpisce principalmente il soggetto accolto e solo alla fine della narrazione si estende all’operatore. L’apertura alla fase della valutazione si chiude con la definizione della domanda portata.
La valutazione.
La fase della valutazione viene concretizzata attraverso un iter che approfondisce il bisogno. Qui il soggetto é l’esperto che, attraverso le competenze dell’operatore, ricostruisce e approfondisce la sua storia e il suo vissuto. Il movimento è sempre doppio: l’operatore accoglie, mette a disposizione il suo sapere e si muove verso il soggetto che, a sua volta, si propone come protagonista. È attraverso la restituzione che il professionista fa della narrazione dell’altro che si chiude la valutazione. La restituzione ha il compito di rendere chiaro ad entrambi i soggetti di questa relazione (operatore e utente) quali sono i confini della sua domanda e valutare la definire la DIAGNOSI che ne segue. La luce sembra, a questo punto, illuminare l’operatore.
L’ultima fase: il progetto individuale/familiare.
Il progetto che impegna l’operatore nella comprensione del bisogno e nella proposta della presa in carico con la definizione della cura, impegna a sua volta la persona accolta nell’adesione ad un percorso che definisce obiettivi, strumenti, tecniche.
Sottolineo il fatto che la presa in carico, intesa come il prendere su di sè responsabilmente la persona con il suo vissuto, parte già dall’ accoglienza. Anche quando il percorso non prevede la sua prosecuzione nelle fasi successive. La preoccupazione é quella che la persona non venga solo inviata, ma accompagnata verso altri servizi.
Anche la CURA é parte integrante di un unico processo che parte dal primo incontro. Crediamo infatti che mettere a disposizione uno spazio, un luogo protetto dedicato all’altro, seppur definito dai confini di una struttura, sia l’inizio di una RELAZIONE nella quale lo sguardo attento e dedicato faccia scaturire una CURA che prende in considerazione la PERSONA non solo il suo bisogno.
Chiudo con un breve testo scritto da una collega in occasione di una giornata di formazione fra gli operatori dei nostri consultori della nostra Fondazione che aveva come tema una riflessione sulla mission dei consultori e che descrive bene, a mio parere, la realtà dei consultori.
Quando entri nei consultori ti accorgi che sono luoghi a “soglia bassa” dove l’accesso é davvero pubblico, dove le contraddizioni e le debolezze umane (di tutti!) hanno diritto di accedere. La soglia bassa é esigente ed educa a cambiare spesso prospettiva a favore della persona e della famiglia; anche come professionisti siamo chiamati a cambiare punto di vista: non siamo operatori privati, ma soggetti partecipAttivi di una équipe e di una rete che sempre più si confronta con la complessità della vita reale.
La squadra, in questa soglia bassa, ha il compito di osare alto perchè la realtà non si fa attendere e semplicemente si presenta bussando. Questa tensione tra il mantenere un “basso” e un “alto”, fa sì che non poche storie di drammi, separazioni, lutti, identità e appartenenze perdute, diventino un nuovo inizio, perciò una buona notizia. Chi varca la soglie bassa, a qualsiasi titolo, entra in un mondo che fa crescere, guardando in alto con i piedi per terra. L’augurio è che questi nostri luoghi possano mantenere il loro stile ove l’alto non é sinonimo di élite, ma di profondità che nasce dalla terra.
La Fondazione AS.FRA. Onlus
Pietro R. Cavalleri
Ringrazio gli amici che mi hanno invitato, perché la partecipazione a una tavola rotonda – stante la pluralità delle voci e la ristrettezza del tempo a disposizione – dà il privilegio di svincolarsi dall’obbligo della completezza e dell’organicità e mi permette di circoscrivere l’intervento all’argomento cruciale che desidero comunicare, tralasciando tutto il resto. Tralascio pertanto di illustrarvi la realtà di AS.FRA., invitando, chi fosse interessato, a visitare il sito web www.asfra.org, dove potrà trovare la descrizione di ciò che la Fondazione fa e i numeri che la descrivono.
Tralascio tutto questo, salvo richiamare l’aspetto rappresentato da una finalità cara alla fondatrice Adele Bonolis, ossia l’occuparsi di persone portatrici di un disturbo mentale che abbiano commesso reato.
Fin dagli anni ‘50, all’inizio dell’Opera, la realtà che in seguito è diventata Fondazione non si è posta solo in termini caritativi, bensì in una prospettiva di trattamento psichiatrico che, nel tempo, si è maggiormente attrezzata, fino ad integrarsi organicamente nel SSR, attraverso accreditamento e appartenenza alla rete dei Servizi sanitari del territorio.
Il richiamo a questo aspetto caratterizzante la missione che l’Opera si è data, ci introduce alla condizione paradossale con cui ci misuriamo ogni giorno: ossia la libertà e la mancanza di libertà, l’aspirazione alla libertà che muove ogni soggetto e la costrizione, che è la vera e propria cifra della malattia psichica.
La malattia mentale, infatti, è stata definita anche come la “patologia della libertà”; non vado oltre nel commento di questo giudizio, salvo dirvi che condivido questa definizione. La psichiatria moderna si è stabilita nel solco di un processo di liberazione dalle catene esteriori e interiori che vincolavano il folle. Tutti abbiamo presente questa intenzione di cui la psichiatria si è fatta protagonista, che vive nel nostro immaginario, sostenuta dall’icastica rappresentazione datane da Charles Louis Mullet nel dipinto che raffigura il momento ideale in cui lo psichiatra francese Philippe Pinel, nel 1793, libera dalle catene i malati rinchiusi nel manicomio di Bicêtre.
Si trattava, allora, delle catene esteriori della reclusione asilare e dell’esclusione sociale, che trasferivano nella condizione sociale e materiale dei malati il presupposto delitto rappresentato dalla loro impossibilità di conformarsi alla norma di tutti.
Come psichiatri e operatori dello psichico ci siamo formati nella tematica della norma, rimettendo in questione l’appiattimento della norma individuale sulla norma sociale, e spesso ci siamo sentiti paladini e difensori della libertà, nel rivendicare per i malati la legittimità di vivere secondo la norma loro possibile e rompendo l’automatismo che portava ad imputarli mediante l’attribuzione, a questa differenza, del marchio dell’illegalità e della pericolosità
sociale.
Ora la situazione è mutata: negli ultimi 15-20 anni almeno, il campo della malattia mentale si è affollato di soggetti in cui si presenta una nuova forma di patologia, un modo di essere che coniuga strettamente il disagio interiore con l’azione che spesso travalica non solo il diritto astratto della norma sociale, ma diviene esercizio di sopraffazione e di violenza, in primo luogo nell’ambito delle relazioni primarie.
Ma non si tratta semplicemente di delinquenza perché questi soggetti sono essi stessi regolarmente inclusi nel novero delle vittime delle loro azioni, in quanto sono esposti
tragicamente al rischio del crollo interiore, che li porta non infrequentemente a un suicidio agito prima ancora di essere pensato.
Non ininfluente su questi precari equilibri è l’azione delle sostanze, che accompagna ormai regolarmente (le statistiche ci dicono che il 50% dei malati mentali è un utilizzatore di sostanze, ma nel gruppo di coloro di cui parliamo, ossia di coloro che hanno commesso o commettono abitualmente reati, questa percentuale sale significativamente, fino a raggiungere quasi la totalità del gruppo), sovrapponendo alla condizione di questi disturbi della personalità, caratterizzati da instabilità, disarmonia, precipitosità e rigidità dei pattern comportamentali, tutta la sintomatologia che presentavano le precedenti forme psicotiche, ma rendendo il trattamento di queste psicosi secondarie (innescate dagli effetti delle sostanze) assai più complicato di quanto non fosse il trattamento delle originarie forme primarie della psicosi.
Questa è la popolazione di pazienti con la quale siamo maggiormente impegnati e che ci ingaggia maggiormente.
Con loro il confronto con il paradosso della libertà e illibertà si mostra in maniera più confusa e contraddittoria, perché sono soggetti che:
a) rivendicano la propria libertà, non nella maniera confusa, frammentaria, derealizzata e delirante propria dei vecchi pazienti, ma con armi dialettiche ben sviluppate e appoggiandosi a una lettura della propria realtà esistenziale storica, sociale e familiare lucidissima, in cui si trovano traumi, deprivazioni precoci e abusi infantili;
b) agiscono in maniera coatta, che si palesa nella rigidità e precipitosità delle risposte agli eventi della vita, come se, in ogni situazione, avessero la possibilità di accedere a un solo tipo di comportamento, con il risultato che molte delle azioni da essi compiute risultano mal adattive, fino ad essere distruttive;
c) sembrano non avere alcun riferimento a un concetto di norma a cui appoggiarsi (fosse anche la norma psicotica dello strapotere dell’altro, propria della psicosi);
d) hanno perso la loro libertà in seguito ai loro propri atti e non più, come capitava ai malati ancien régime, a causa dell’esclusione sociale;
e) non chiedono alcuna cura, al massimo un aiuto, che rinnegano nel momento stesso in cui debbono misurarsi con una frustrazione.
Come rapportarsi con loro? Cosa significa “prenderli in carico”? Come è possibile proporre un percorso di cura, quando la privazione delle condizioni estrinseche di libertà
monopolizza l’interesse del soggetto e collude con la tacitazione della condizione di interiore mancanza di libertà, obliterando la possibilità stessa di percepire lo stato di intima costrizione, che è all’origine della sofferenza e che costituisce il punto su cui necessariamente si innesta il processo di cura, di riforma interiore?
Il nostro lavoro è un lungo preliminare alla cura: il lavoro riabilitativo è un preliminare alla cura, perché ancora non c’è alcuna domanda; e può accadere – per alcuni – che mai arrivino a formularne una. La cura può avvenire solo se vi è una domanda sufficientemente stabile. Quando ancora non vi è domanda, occorre prendere iniziativa: la riabilitazione è questa iniziativa, che può raggiungere il soggetto anche attraverso la coazione della legge. Se scegliamo di fare riabilitazione, dobbiamo sapere che è necessario attrezzarsi per accostarsi a un soggetto che si trova doppiamente prigioniero di uno stato di costrizione: la costrizione della propria assenza di norma e la costrizione della legge, che gliene impone una, la sanzione, che egli sente solo come una morsa che spesso catalizza tutte le sue energie indirizzandolo a puntellare, attraverso le consuete strategie patologiche, la falsa immagine di un ideale di sé grandioso, pur nella miseria.
La riabilitazione, ossia il trattamento di questi soggetti che si dibattono, oscillando tra velleitaria grandiosità e disperazione, si delinea come una strategia per ingaggiarli in un percorso verso autenticità, adattamento e autonomia.
Cosa significano queste tre parole? È importante che siano nella testa di noi che li trattiamo, che siano come la bussola che guida il nostro cammino.
Autenticità indica il percorso verso l’autenticità di sé, ossia la possibilità di entrare in contatto con il proprio nucleo più vero, comprese le parti più deboli e sofferenti che essi tentano respingere e di disconoscere.
Adattamento richiama il compito dell’adattamento alla realtà, fondamentale per ogni processo vitale, che richiede la riattivazione e l’ampliamento di un’attitudine alla plasticità e al cambiamento.
Autonomia significa autonomia nella relazione, ossia non autarchia né sottomissione, ma sviluppo di una capacità di stabilire partnership con l’altro.
Da ultimo un nota bene: per operare nel campo dell’aiuto allo psichico, non solo con questi pazienti, ma con tutti coloro che soffrono di una malattia mentale, occorre sapere che l’empatia non è sufficiente. Non solo perché occorre possedere una solida tecnica: infatti tutte le azioni, nella relazione, devono essere pensate e molte sono anti intuitive; ma è possibile praticare questa tecnica solo se si è in grado di individuare nel singolo paziente un quid degno di vera stima.
Ciascun soggetto che opera in questo campo non può sfuggire dal compito di individuare, ogni giorno, questo quid in ciascuno dei pazienti che incontra.
La Cooperativa Filo d’Arianna
Alessandro Colombo
Essendo la Cooperativa Filo di Arianna promossa da Caritas Ambrosiana, voglio innanzitutto premettere la condivisione e l’adesione dell’analisi e dei valori riportati precedentemente dalla Dr.ssa Paola Soncini.
Il mio intervento quindi si struttura su quattro parole che secondo la nostra esperienza girano intorno alla tematica affidatami e che vogliono solo essere spunto di riflessione e confronto: casa – cibo – vicinato – cura.
Casa: La casa non è solo un luogo fisico, di grande e strategica importanza, degno di cura e dettagli, ma è anche luogo mentale, spirituale, ideale. È sinonimo di accoglienza e non di contenimento, di riparo, protezione e non di esclusione come per anni, alcune mura ben identificate, hanno rappresentato per molti dei nostri ospiti. È importante quindi che non sia un luogo anonimo ma carico di identità e di senso, dove si possa depositare un significato alla propria esistenza.
La casa quindi come posto da cui poter uscire avendo sempre un motivo per cui tornare.
Cibo: Sembra un argomento secondario invece per le nostre comunità è di primaria importanza. Non a caso si è scelto di assumere un cuoco titolato all’interno dell’organico proprio per garantire un servizio di alta qualità. Il cibo in realtà è un bisogno primario per tutti gli uomini, per chi soffre diventa una necessità, a volte l’unico motivo di benessere nell’arco della giornata, spesso invece diventa anche un pericolo, un elemento discriminatorio e drammatico. Ed è per questo che attorno al cibo si sviluppano aspettative, psicosi, progetti, percorsi, che vanno gestiti nel migliore dei modi.
Attorno a questo aspetto della vita quotidiana passa il nostro messaggio di accoglienza, più o meno attento, più o meno caloroso, più o meno significativo. Gli esempi sono tanti in cui ricordiamo tanti episodi che a tavola si sono espressi, conclusi, risolti; quante volte con una buona pietanza si sono potuti raggiungere risultati insperati. Nel panorama delle figure professionali non convenzionali che ruotano attorno al benessere di persone con disagio psichico, quella del cuoco assume quindi un grande valore.
Vicinato: Abbiamo un’esperienza di Condominio Solidale a Bruzzano (quartiere di Milano) dove un gruppo di sette famiglie ha deciso di vivere accanto a due comunità psichiatriche, nello stesso stabile.
La cosa meravigliosa è che le stesse famiglie dicono che in questo modo cresceranno al meglio i loro figlio, con l’esempio vivo di alcuni valori come la solidarietà, la ricchezza nella diversità, la sobrietà e la fratellanza.
Gli ospiti delle comunità Mizar (nome di stella binaria dell’Orsa Maggiore), che nel suo significato esprime il concetto di stella illuminata da altre stelle nascoste, sono accolti ma nello stesso tempo “illuminano” la vita di chi li incontra, pur avendo vissuto “nascosti” per lunghi anni. È sul territorio che si costruisce la piena riuscita di un percorso riabilitativo e risocializzante, è con il territorio quindi che si debbono costruire ponti di dialogo e collaborazione. Le famiglie di ACF (Associazione Comunità e Famiglie) hanno aiutato tantissimo il territorio a dire che la malattia mentale può essere accettata e che la salute mentale è un bene prezioso per tutti. Sul territorio di Bruzzano in quindici anni non solo la Parrocchia che in quanto Caritas è stata la nostra prima sponda a cui aggrapparci, ma anche gli esercenti, i dirimpettai, le associazioni di territorio hanno capito quanto fosse bello, a volte impegnativo, coinvolgente e arricchente vivere insieme la stessa strada, la stessa chiesa, lo stesso panettiere, gli stessi percorsi quotidiani, la stessa vita.
Cura: Su questo argomento, avendo ascoltato con molta attenzione gli interventi precedenti non mi sento di aggiungere nulla: condivido quanto detto e appoggio tutte le riflessioni esposte.
Riporto soltanto una voce molto più autorevole che è sempre carica di verità inconfutabili: la Bibbia.
Nel salmo 8 si canta: “Che cos’è l’uomo per cui di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo per cui te ne prendi cura? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli!”. Mi commuove sempre leggere la parola “cura” accanto alla magnificenza del creato e al mistero/miracolo dell’uomo. Credo sia davvero un messaggio profondo, indipendentemente dal credo religioso di ognuno di noi, paragonare l’uomo ad un angelo, ad una creatura quindi che vada al di là del suo aspetto e della sua fragilità fisica, che vada oltre alla sua malattia e alla sua provenienza. Credo tuttavia possa essere la vera risposta alla domanda di senso che ci poniamo ogni volta che prendiamo in cura un essere umano.
Ringrazio per l’invito a questo convegno, ricco di spunti illuminanti e per avermi dato la possibilità di confrontarmi con voi.
L’Associazione Diversamente: la famiglia si prende cura
Teresa De Grada
L’Associazione Diversamente che rappresento in quanto presidente nasce nel 2004 a sostegno di familiari di persone con disagio o malattia psichica.
Il nostro interlocutore privilegiato quindi è la famiglia che coinvolta nella malattia può diventare alleata della cura.
Questa scelta è stata fatta sia per l’esperienza significativa di rapporto con il familiare malato che alcuni di noi hanno passato , sia per l’importanza che la famiglia assume anche dal punto di vista dei risultati di efficacia nella cura .
Noi lavoriamo affinché il familiare diventi soggetto attivo positivamente. Questo vale su due fronti:
per sé. perché attraverso l’accoglienza, l’auto aiuto e la formazione, recupera la sua personale dimensione ed è in grado di stare nella sofferenza che la malattia comporta con atteggiamento equilibrato .Diventa consapevole di quello che può fare, di quello che non può fare e non deve fare e di quando ha bisogno di aiuto nel decidere le scelte quotidiane per l’accudimento che la malattia comporta .
per l’altro . in alleanza coi curanti e formato all’ascolto attento e alla comunicazione adeguata in situazioni difficili il suo supporto può essere a volte decisivo nelle scelte che il malato compie (pensiamo alla compliance farmacologica , al partecipare ad attività riabilitative , all’accettazione stessa delle fatiche che la malattia comporta , ad accettare il distacco dalla famiglia per sperimentarsi nelle proprie capacità ecc).
Il dato positivo di aggancio delle famiglie a percorsi di condivisione e formazione, circa più dell’80% dopo il colloquio iniziale, nasce dal fatto che questo colloquio conoscitivo è “alla pari”, da famigliare a famigliare , anche se tenuto da due persone . Questo permette un’accoglienza, anche in casi molto difficili, che non giudica (chi sono io per giudicare ?) o propone soluzioni.
Invece nei corsi il familiare è aiutato ad orientarsi a trovare da sé soluzioni adeguate fuoriuscendo così dal sentimentalismo in cui il dolore tende a rinchiuderti, o del tutto o niente del pensiero astratto o distorto.
Il familiare come soggetto è uno dei requisiti del lavoro sussidiario e tutti dovrebbero tenerne conto mentre le cifre in Regione Lombardia (ricerca dei dott.ri Monzani e Lora) dicono che questo avviene solo al 10%- circa nei soggetti con patologia importante.
Dall’accoglienza del familiare si passa all’accoglienza della persona in cura per integrare in accordo col curante creando opportunità di vita sana e di inclusione sociale pensate sulla singola persona .
A Milano lavoro in rete con altre associazioni per aumentare l’offerta di opportunità e migliorare la qualità del lavoro confrontandosi ed integrando metodi … e diventando amici.
Ad esempio : Il gruppo del laboratorio di canto è diventato così affiatato da aver già fatto tre esibizioni in pubblico; quello di ascolto musica, tenuto presso una Parrocchia che gentilmente ci ospita, è diventato un gruppo integrato coi parrocchiani che vi partecipano e la ciclofficina ha recuperato ad una vita sociale e a gestirsi responsabilità gli utenti grazie al fatto che: smontando e rimontando i pezzi della bici e poi in sella ! … forse puoi pensarlo anche di te.
Il rapporto tra soggetto e la cura qui è dato dal fatto che chi è stato malato ha perso molti treni nella sua vita . Si offre la possibilità dunque di avere una vita relazionale nella quotidianità non tanto legata al fare, quanto alla possibilità di pensarsi in azione; questo si sta dimostrando molto utile.
Queste esperienze che facciamo sono riassunte nel poster sull’empowerment sia del familiare che dell’utente che abbiamo presentato al Convegno. Cito solo le frasi finali:
”Vieni travolto dalla malattia in un modo inaspettato e violento. Se la vedi poi su un versante più maturo capisci che questa situazione ti appartiene anche se non l’hai voluto, ti attivi, ti muovi e incontri un mondo totalmente nuovo..” (una mamma)
Adesso la situazione è cambiata, non abbiamo più la pretesa che lui sia come lo vorremmo idealmente noi…” (un papà)
“”Sono stato invitato a una partita dell’Inter.. io non ci volevo andare perché tengo al Milan, poi ho pensato alle cose che ci diciamo qui e ho detto.. vabbè mi dò una possibilità… però la prossima volta vado a vedere il Milan“
(un utente del laboratorio di canto)
Ancora poche osservazioni :
l’importanza della parola: tutti la conosciamo e inoltre per il familiare nei gruppi diventa condivisione sul significato. Abbiamo un bellissimo strumento fatto da alcuni presenti in sala e altri : il glossario della salute mentale . Noi lo usiamo nei corsi e viene recepito tantissimo e ci permette di fare ordine nei ragionamenti , che è cosa utilissima . Dovrebbe essere sulla scrivania di ogni psichiatra o psicoterapeuta o assistente sociale invece per la mia esperienza coi CPS di Milano e provincia è poco conosciuto e usato.
Quando un genitore di un paziente psichiatrico ti viene a dire che sarebbe meglio che suo figlio avesse il cancro oppure che è meglio che le azioni irragionevoli che compie siano dovute alla dipendenza da sostanze piuttosto che dal dolore dei fallimenti esistenziali e dalla malattia , tu capisci che la sofferenza del familiare nel tempo è diventato un macigno difficile da rimuovere . Forse questo dolore intercettato prima e accolto per tempo non sarebbe diventato così devastante.
Per questo ci aiutano molto le parole del Cardinale Angelo Scola Arcivescovo di Milano in occasione della giornata del 10 ottobre:
Poter fare affidamento su una relazione di accoglienza incondizionata
La persona supera la sua malattia in un’unità che si esplica là dove si vive
.. non solo perché la famiglia è parte della comunità e da essa và sostenuta ma anche perché è lo spazio relazionale nel quale sviluppare una cultura della solidarietà.
Per concludere: la famiglia è anello essenziale del passaggio dalla cura al prendersi cura e ogni familiare consapevole di questo con la sua testimonianza è fautore di una prevenzione basata su un vero e profondo significato del vivere e quindi del concetto stesso di salute.
La Fondazione Don Gnocchi
Chiara Bottari
Nel titolo della tavola rotonda ci sono 2 parole chiave e particolarmente significative: “soggetto” e “cura”.
La Fondazione Don Gnocchi e, in particolare, le UO di Neuropsichiatria e Riabilitazione dell’Età Evolutiva, operano e lavorano per la “cura” della “persona”, intesa nella sua globalità psico-fisica.
A questo proposito possiamo citare le parole pronunciate da Don Gnocchi nel discorso di inaugurazione del Centro fisioterapico di Roma nel marzo 1954, parole che ancora oggi sono attuali.
“Terapia dell’anima e del corpo, del lavoro e del gioco, dell’individuo e dell’ambiente: psicoterapia, ergoterapia, fisioterapia, il tutto armonicamente convergente alla rieducazione della personalità vulnerata;
medici, fisioterapisti, maestri, capi d’arte ed educatori, concordemente uniti nella prodigiosa impresa di ricostruire quello che l’uomo o la natura hanno distrutto o, almeno, di compensare con la maggiore validità nei campi inesauribili dello spirito, quello che è irreparabilmente perduto nei campi limitati e inferiori della materia”.
Mission della Fondazione è “una nuova cultura di attenzione ai bisogni dell’uomo”.
L’ UO si inserisce nel Polo Territoriale 1, che , oltre a Milano, comprende i centri di Inverigo, Salice Terme, Legnano, Centro Vismara.
Su 28 Centri della Fondazione don Gnocchi presenti in tutta Italia, 8 sono i Poli Territoriali.
Vediamo ora, in modo operativo e concreto, come la UO di Neuropsichiatria e Riabilitazione dell’Età Evolutiva del Centro s. Maria Nascente IRCCS di Milano cerca di applicare con metodo, rigore, professionalità ed umanità la presa in carico e la cura del soggetto fino ai 18 anni, sia in regime di accreditamento con il Servizio sanitario Nazionale che in API.
Alcuni dati: Personale ( sia dipendenti che collaboratori professionali)
Sono presenti: primario neuropsichiatra, neuropsichiatri infantili, 1 fisiatra, psicologi e neuropsicologi, psicoterapeuti, 1 assistente sociale.
Terapisti della riabilitazione: logopediste, terapisti della neuropsicomotricità, fisioterapisti, 1 musicoterapeuta, 5 educatori.
Visite e trattamenti
32 visite NPI in un mese (sono 8 a settimana, più i bollini verdi e i controlli)
7 visite NPI API settimanali
Ambulatorio TIC , Centro per la diagnosi e la cura dei disturbi da tic e della Sindrome di Tourette,( con l’utilizzo dell’approccio cognitivo-comportamentale Habit Reversal Training)
Ci sono circa 600 bambini in trattamento.
Al di là dei numeri, ciò che conta è l’attenzione e il desiderio di una presa in carico globale di ogni soggetto.
Vediamo ora, a livello metodologico, quali sono i vari passaggi per la “presa in carico”.
Il primo livello è la diagnosi, che è di competenza dello specialista di neuropsichiatria infantile; è il medico che incontra e accoglie la famiglia, apre la cartella clinica e si avvale poi della competenza dello psicologo/neuropsicologo che integrano con altre valutazioni ed ipotesi diagnostiche.
Soggetti in età evolutiva che afferiscono al Servizio: teniamo presente che gli ambulatori delle prime visite sono divisi per fasce d’età 0/5, 6/18.
I maggiori disturbi neuropsichici presenti sono: disturbi del linguaggio, (del linguaggio espressivo e recettivo, semplici ritardi), disturbi di apprendimento (DSA, BES, con difficoltà che variano tra stati Intellettivo limite e borderline cognitivi, ritardi mentali lievi), disturbi di tipo emozionali-relazionali ( ritardi di sviluppo, mutismo elettivo, inibizioni) o in comorbilità.
Ci sono poi ancora quadri neurologici e sindromi genetiche/malformative e ritardi motori.
La presa in carico è la risposta terapeutica ai bisogni clinici che sono stati individuati e viene formalizzata in un piano di trattamento riabilitativo individuale (PRI), che viene firmato dalla famiglia che diviene quindi, assieme al bambino, “soggetto” fondamentale di alleanza per un buon successo terapeutico della cura.
Il trattamento è assicurato da uno o più terapisti con professionalità specifica in un determinato settore dei disturbi del neurosviluppo (fisioterapisti, logopedisti/specialisti della CAA, psicomotricisti, educatori professionali, musicoterapisti) o da psicologi anch’essi con professionalità caratterizzata in ambiti diversificati ( approccio psicodinamico/terapia con le sabbie, sistemico, cognitivo-comportamentale).
La presa in carico è globale e multidisciplinare, nel senso che più figure professionali sono coinvolte per far in modo che la “cura” coinvolga in modo diretto tutto l’ambiente che circonda il bambino, sia quello familiare che scolastico-ambientale/sociale.
Nessuna terapia , nessun intervento terapeutico è efficace se non interagisce con l’ambiente del bambino (famiglia, soprattutto e scuola).
La metodologia di lavoro è anch’essa multidisciplinare mediante equipe settimanale, in uno scambio e in confronto clinico sui casi che spesso sono molto complessi e richiedono una presa in carico da parte di più figure professionali.
L’Associazione “iSemprevivi”: come è nata e perché
Domenico Storri
La malattia psichiatrica è un mondo a sé. Parlare di disagio mentale è come parlare di una galassia composta da migliaia di pianeti e stelle. La galassia è la diagnosi madre come la schizofrenia, il disturbo bipolare o il borderline, mentre i pianeti e le stelle sono le diverse modalità attraverso le quali ogni persona disagiata vive la sua diagnosi psichiatrica. Da questo semplicissimo paragone si comprende come parlare di riabilitazione del disagio mentale significa essenzialmente parlare di creatività, allo scopo di riuscire a mettere in campo una pluralità di strategie in grado di aiutare la persona nel suo specifico disagio.
L’associazione iSemprevivi è la risultante della creatività di poche persone che hanno fatto della passione di andare in montagna, della ricchezza relazionale di una comunità parrocchiale e della constatazione che la presenza di alcuni sintomi variavano al cambiare del contesto sociale il loro punto di forza. La creatività di questo gruppo iniziale stava anche nella sua composizione: un neo-laureato in ingegneria, un prete psicologo e due giovani psicotici. Ed è così che questo quartetto di amici un sabato mattina del maggio 2004 recandosi al rifugio Zamboni sopra Macugnaga iniziò un percorso di montagnaterapia.
Oggi l’associazione de iSemprevivi è costituita da circa ottanta persone comprese tra i ventidue e i sessant’anni affette da diverse disturbi psichiatrici e da una quarantina di volontari. Lo scopo dell’associazione è quello di fare riabilitazione sociale attraverso il canale della parrocchia. L’aspetto di estrema novità consiste proprio nel rendere la comunità ecclesiale soggetto attivo della riabilitazione mettendo in campo le ricchezze delle relazioni capillari. Spesso la riabilitazione fatta da diverse associazioni sia pubbliche che private, pur nella validità di competenze professionali e di strumenti che vengono messi in gioco, pagano lo scotto di essere relegate entro una struttura protetta che invece di favorire l’integrazione sociale ne ostacolano di fatto la realizzazione. Una struttura protetta infatti può correre il rischio di creare una socializzazione solo fittizia perché appunto troppo controllata e con variabili un po’ troppo prevedibili. L’associazione iSemprevivi ha preferito beneficiare della realtà parrocchiale, quale insieme di relazioni autentiche perché più spontanee e variegate, come agente terapeutico verso la socialità. Le persone affette da disagio psichico dei Semprevivi vivono infatti la dimensione parrocchiale, in modo particolare dell’oratorio, in tutti i suoi aspetti e con la massima normalità: prestano servizio al bar, al cinema e al grest estivo con i ragazzi, partecipano alle diverse riunioni di gruppo, alla Messa domenicale e si incontrano sul sagrato a chiacchierare senza alcuna distinzione dalle persone sane.
Come la realtà parrocchiale è diventata così attenta e disponibile alla malattia mentale? Attraverso una costante e precisa azione di formazione e informazione. Parallelamente alla nascita dell’associazione, avvenuta nel gennaio 2005, sul nostro informatore parrocchiale sono stati pubblicati diversi articoli sul disagio mentale e sulla riabilitazione psichiatrica allo scopo di scalfire i tanti pregiudizi che avvolgono il malato mentale, accanto a dettagliati resoconti delle iniziative dei Semprevivi, in modo particolare delle nostre gite in montagna. Indubbiamente di grande ricaduta positiva sull’immaginario collettivo sono stati convegni che l’associazione organizza (due all’anno) con lo scopo di far cultura intorno alla malattia psichiatrica, convegni che hanno visto la partecipazione diretta dei nostri ragazzi e dei loro genitori: sentire un giovane che spiega cosa significa per lui essere un malato mentale o ascoltare un genitore che racconta il suo dolore profondo nel vivere con un figlio con diagnosi psichiatrica non può lasciare indifferenti. Sta di fatto che oggi la presenza di malati mentali all’interno della parrocchia non desta alcuna preoccupazione: mai sentito un genitore che accompagna il proprio figlio al catechismo o a giocare all’oratorio lamentarsi. Certo le cose non sono lasciate al caso o all’improvvisazione: la presenza di psicologi o di volontari dell’associazione è sempre garantita.
Nel corso di questi anni l’associazione, vedendo il numero dei partecipanti aumentare notevolmente, ha dovuto maggiormente strutturarsi. Nel 2009 si è costituita Onlus e al suo interno si è diversificata progressivamente in tre grossi rami: iSemprevivi lab, iSemprevivi èquipe e iSemprevivi casa. ISemprevivi lab è la sezione coordinata prevalentemente da volontari che offrono il loro tempo allo scopo di creare con le parsone disagiate un valido “spazio sociale”, unico propulsore di riabilitazione. È necessario infatti che i nostri pazienti trovino un luogo dove allenarsi al gusto della relazione gratuita, (e non solo all’interno di un setting terapeutico), alla fatica di elaborare un pensiero socialmente condivisibile e alla gestione delle proprie emozioni. Compito dei volontari, debitamente formati, è quello di creare una zona cuscinetto tra il momento terapeutico, propriamente detto, e la società con tutte le sue ricchezze e tutti i suoi limiti. Nei iSemprevivi lab sono poi previsti dei momenti canonici costituiti da dodici laboratori (cucina, cucito, arte pittorica, giornalismo, letteratura, informatica, cartonaggio, giardinaggio, nuoto, manualità, creta e fotografia) e da un momento di terapia di gruppo condotto da psicoterapeuti e da psichiatri che si conclude poi con un momento conviviale organizzato dai volontari. Per ogni partecipante ai iSemprevivi lab viene redatta una scheda di valutazione sulla quale si elabora un progetto individuale e si aprono contatti di collaborazione con i rispettivi CPS di competenza. Nella strategia de iSemprevivi lab assumono poi molta importanza le uscite di uno o più giorni: gite in montagna a scadenza mensile e periodi di vacanza come a Roma, Parigi, Gallipoli, Assisi, Lourdes e Israele. Per poter accedere all’associazione occorre essere preferibilmente già in cura presso un CPS o al Dipartimento di Salute Mentale e rendersi disponibili ad un paio di incontri conoscitivi.
Il secondo ramo che l’associazione ha dato vita è iSemprevivi èquipe. Il numero sempre più alto di pazienti psichiatrici partecipanti all’iniziativa “lab” ha reso necessario anche interventi di psicoterapia individuale. Inoltre la costante crescita di notorietà e credibilità della proposta psicologica che l’associazione offre durante la Scuola dei Genitori (incontri tenuti una volta al mese la domenica mattina e al lunedì sera a carattere pedagogico e psicologico sulla genitorialità) vedeva poi incrementare la richiesta sia di consulenze brevi su problematiche educative, sia di richieste di interventi di psicoterapia a lungo termine. Per far fronte a tutte le domande l’associazione iSemprevivi ha costituito un èquipe di psicologi, di psicoterapeuti e di psichiatri (a oggi l’èquipe ha raggiunto le diciotto unità) con l’intento di prendere in carico le diverse problematiche. Ogni richiesta viene accolta da un “primo colloquio” fatto obbligatoriamente dal responsabile dell’associazione, anch’egli psicoterapeuta, e poi inviata ai singoli professionisti competenti per le diversi aree del ciclo di vita e con differenti scuole di riferimento psicologico. A oggi le richieste prese in carico hanno superato le quattrocento unità. L’èquipe si incontra regolarmente ogni venti giorni per un momento di supervisione sui casi presi in carico. All’èquipe di psicologi spetta anche il compito di organizzare incontri, a scadenza mensile, di supporto psicologico con i familiari dei pazienti psichiatrici.
L’ultimo ramo dell’associazione è iSemprevivi “casa”, cioè tre appartamenti presi in affitto e situati a pochi metri dalla parrocchia, dove dodici pazienti dell’associazione potranno abitare per un minimo di sei mesi e un massimo di tre anni allo scopo di educarsi all’autonomia personale e sociale. Il modulo abitativo viene interamente gestito dagli ospiti sotto la supervisione di alcune coordinatrici. Ai pazienti l’onere di riordinare l’appartamento, di fare la spesa, di pagare le bollette, di cucinare e di organizzarsi la giornata. Gli ospiti che provengono da modelli famigliari invischianti, superprotettivi o svalutanti devono educarsi a riconquistare l’autostima e la capacità di pianificare la loro giornata. Le varie attività che ogni ospite eseguiva prima dell’entrata nella “casa” vengono mantenute, mentre i momenti vuoti sono coperti dalle attività de iSemprevivi èquipe, in modo particolare dai laboratori. Per ogni paziente ospitato in casa viene richiesta una relazione di consenso da parte dei CPS di competenza.
Un sogno nel cassetto? Trovare degli appartamenti per creare dei moduli abitativi permanenti dove le persone con basso disagio psichico potrebbero vivere (in numero di tre) sotto una leggera supervisione dell’associazione. La realtà de iSemprevivi-onlus è la risultante di un bellissimo intreccio tra competenza psicologica, volontariato e fede. La parrocchia, per la sua natura spirituale, porta in sé una grande potenzialità di aiuto agli ultimi e alle sofferenze umane, ma non deve mai dimenticare che la carità (quella che fa veramente bene) non è mai pressappochismo o buonismo. La parrocchia deve avere il coraggio di coniugare la fede con le diverse competenze sociali, psicologiche ed economiche se vuole essere veramente “sale e luce” di questa società e senza cadere in quella forma di assistenzialismo che toglie dignità e speranza alla persona. Mi sembra che la comunità parrocchiale di San Pietro in Sala abbia preso seriamente questa sfida.
La centralità della persona nel processo di cura: l’esperienza di Casa della carità a Milano
Silvia Landra
Si pone la persona al centro riconoscendola soggetto dei diritti di cittadinanza che sono di tutti e che non dipendono in prima istanza dalla semplicità del problema portato o dal merito. L’accento posto sui diritti induce inevitabilmente a costruire un graduale percorso di integrazione sociale nel circuito dei servizi e ancor più nella vita della città. C’è una “vocazione pubblica” nell’agire di Casa della carità, ed è per questo che il Progetto Diogene – per fare l’esempio di uno dei progetti di intervento che la Casa della carità promuove in collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale – è l’azione di specialisti qualificati che incontrano persone italiane e straniere homeless, con grave disagio mentale, proprio sulla strada, dove esse trascorrono il tempo, dove sembra abbiano scelto di “abitare”, quasi noncuranti delle molte offerte di aiuto e quasi insensibili ad interventi di emergenza come il ricovero sanitario obbligatorio. È l’esempio di un agire all’interno delle istituzioni con uno stile e delle metodologie che sono tipiche del privato-sociale, ma con obiettivi che sono propri del sistema pubblico.
Ci domandiamo continuamente come dare centralità alla persona sofferente e multiproblematica quando sembra non chiedere nulla, sottovalutare la precarietà della sua condizione, rifiutare gli appigli che servono per uscire da una condizione di emarginazione grave. Cerchiamo innanzitutto di porci nell’atteggiamento complessivo di superare le contrapposizioni e la falsa convinzione che oggi si possa rispondere alle questioni poste dalla sofferenza urbana solo identificando il servizio giusto al quale inviare il soggetto. L’esperienza di diversi anni con persone che soffrono malattia mentale e che vivono sulla strada ci dice che non può esistere il servizio totipotente, che offre tutte le risposte, ma che nemmeno basta mettersi intelligentemente in rete, ciascuno continuando a svolgere la sua funzione: colloqui e farmaci al servizio pubblico, un letto al dormitorio sociale. È questa una soluzione che si adatta a pochi. Ci è chiesto di sperimentare strade nuove, di operare in modo diverso.
Rimanendo sempre in un clima di intensa collaborazione con la rete territoriale dei servizi, abbiamo identificato in questi anni alcuni obiettivi specifici da perseguire per mettere sempre al centro la persona anche quando ci riferiamo a soggetti che si autoemarginano o vengono emarginati:
L’aggancio relazionale dei “persi di vista” (ormai l’espressione è entrata nel nostro gergo per indicare coloro che risultano meno o per nulla complianti nel servizio pubblico) o dei “mai visti”, ovvero di coloro che, pur manifestando patologia psichica conclamata, non hanno alcuna predisposizione a rivolgersi ad un servizio. Non chiedono e non criticano. Semplicemente non si presentano, non vanno, non lo cercano. Preferiscono la strada, il nascondimento, il vagabondaggio, i circuiti informali della “città invisibile”, di quella Stazione Centrale, ad esempio, che si popola di sofferenze e di aiuti di vario genere dalle 23 in poi ogni giorno.
La garanzia di cura per tutti. Soggetti molto fragili perdono facilmente documenti e quindi luoghi di riferimento e possibilità di aiuti e cure. Pensiamo ai più fragili tra gli italiani che vanno in blocco anagrafico perchè non rispondono ai periodici censimenti della popolazione, perdendo così la posizione sanitaria, oppure ai più fragili tra gli stranieri, che non sono stati in grado di attivarsi nel modo giusto per la regolarizzazione della loro posizione giuridica.
La motivazione alla cura e la consapevolezza di malattia. Anche su questa delicata questione si può lavorare molto se si collabora tra servizi e soggetti diversi con uno sguardo che parta dalla strada. Chi non si riconosce malato o bisognoso deve poter fare un percorso previo che gli permetta di avvertire il bisogno prima di chiedere aiuto. Tale aspetto non può risolversi in una questione on-off: o viene al servizio o non viene al servizio. C’è una crescita nel capire il proprio disagio e molte persone vanno accompagnate a capire che c’è un motivo valido per chiedere di farsi curare. Uno dei tratti peculiari del Progetto Diogene consiste nei tempi lunghi che ci si concede per l’incontro sulla strada: talvolta il soggetto è incontrato regolarmente e ogni settimaana per mesi o anni prima che possa accettare la proposta di un farmaco, di una alloggio, di una cura, di una comunità. Vi sono casi in cui si comincia sulla strada la somministrazione di un farmaco o una serie di colloqui psicologici in attesa che maturino i tempi per un’adesione al più complessivo progetto di cura.
Occuparsi delle persone gravose e bisognose di molti interventi di tipo diverso. Osserviamo che i soggetti che hanno bisogno di molto tendono a sviluppare rapporti conflittuali con i servizi, muovendosi con discontinuità, producendo un’alternanza ingestibile tra crisi-fuga-ricovero e poi ritorno con miriade di richieste. Non dimentichiamo i due paradossi di fronte ai quali ci mette la realtà: che la strada può diventare istituzione dalla quale è difficile uscire e che il proprio appartamento può diventare luogo ostile nel quale non si riesce ad entrare sentendosi a proprio agio.
Il protagonismo della persona che ha bisogno di cure. I percorsi prendono forza e quota se si ingenera quel meccanismo virtuoso per cui il soggetto stesso “si prende in mano”, agisce per trasformare la sua posizione, per curare la sua salute, per chiamare le persone giuste, per rompere cattive abitudini.
Conoscenza e attenzione per le persone fragili che abitano le periferie urbane. Ci sono soggetti e gruppi che possiamo ritenere a rischio più di altri di ammalare, perchè abitano le baraccopoli, i caseggiati problematici, le zone degradate della città. La città oggi va conosciuta anche nelle sue “periferie esistenziali”, attenti alle nuove povertà che contribuiscono a generare sofferenza mentale.
Questi obiettivi ci hanno indotto negli anni a sperimentare e a verificare continuamente alcune strategie di lavoro:
la cultura dell’accompagnamento. È quasi un’ovvietà affermarlo, ma la strada ci ha insegnato a camminare. Camminiamo con l’interessato per capire chi è, che giro fa, in quale “mondo” vive. Gli stiamo accanto per raggiungere i luoghi della città dove è possibile trovare alcune risposte, ma anche certi luoghi dell’interiorità che permettono di comprendere bisogni profondi e inespressi. Pensiamo sia importante un’azione comptente e combinata tra l’intervento esterno, volto a favorire l’incontro tra bisogno e risposta, e l’intervento interno volto a far incontrare desideri e bisogni. Capacità di riabilitare e fare rete si intrecciano con competenze psicoterapiche al di là di separatismi e steccati ideologici. Il risultato sorprendente è che le persone rintanate in un mondo autistico e apparentemente irraggiungibile cominciano a chiedere con un linguaggio chiaro. Accompagnare ha una concretezza disarmante e una grande efficacia: significa stare in coda con una persona presso lo sportello della questura e poi stargli accanto quando cerca di spiegarsi non conoscendo bene la normativa e/o la lingua, andare presso un ambulatorio, andare o restare fermi con la disponibilità continua a conversare sull’ostilità che si avverte nel contesto urbano.
Inversione dell’asse direzionale utente-servizio. La strategia dell’accompagnare si associa ad una importante inversione dell’asse classico che muove l’utente verso un servizio di assistenza e cura ma che non favorisce il viceversa. Chi non sa venire ad un servizio sembrerebbe perduto. Occorre invece andare verso le persone, cominciano a rappresentarci nella mente luoghi di cura mobili e più vicini. Portiamo in strada le competenze professionali, portiamole in casa per tempi più prolungati rispetto alle normali visite domiciliari, troppo spesso rare e brevi. Proviamo cioè a far camminare i servizi verso le persone la cui fragilità li fa arrivare solo quaando si interpone una segnalazione d’urgenza e un’ambulanza tra loro e il pronto soccorso. Il servizio per acuti diviene l’unica interlocuzione per molti di loro, seguita non di rado da un vuoto di risposte e interventi continuativi.
Flessibilità di interventi e servizi. Altra strategia irrinunciabile è la flessibilità intesa soprattutto come possibilità agile e veloce di consentire l’entrata e l’uscitra da un contesto senza che questa rappresenti un notevole dispendio di soldi ed energie. Pensiamo a quanta rabbia e a quanti sentimenti di impotenza invadono gli operatori quando un soggetto “fa fallire” un progetto di comunità terapeutica a lungo preparato o un inserimento lavorativo. Secondo lo schema classico dei nostri servizi psichiatrici, dopo tre giorni di assenza la retta non viene più erogata: bisogna dimettere e ricominciare da capo, con riduzione degli entusiasmi e allungamento dei tempi necessari per trovare una nuova risposta da parte dell’equipe curante. È invece proficuo, come abbiamo sperimentato, promuovere luoghi che consentano una residenzialità anche discontinua. Ci viene in aiuto l’immagine dei cerchi concentrici: la persona con i suoi bisogni è al centro e le viene permesso di migrare da un cerchio all’altro, ovvero da una posizione più protetta ad una più autonoma, regredendo e progredendo, ogni volta negoziando, fino a che il passo successivo non è consolidato perchè sostenuto da sufficiente sicurezza interna. È essenziale che i cerchi concentrici facciano parte dello stesso sistema di pensiero: non salti nel vuoto ma movimenti visti, conosciuti, commentati insieme con il soggetto. Talora mancano “rampe di lancio”, percorsi propedeutici che portino, con la gradualità necessaria a compiere il passo successivo del processo di riabilitazione.
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