Le osservazioni dei partecipanti ai seminari di lavoro a gruppi: la relazione – 12 aprile 2018

Una sintesi del contributo di chi si è coinvolto intervenendo sulla base della propria esperienza e del confronto con le proposte dei relatori. Appunti per favorire lo sviluppo del seme piantato

scarica il pdf

Il rapporto operatore paziente e la collaborazione tra professionisti sono accessori dell’agire clinico? O la relazione con l’altro è costitutiva della cura? Il soggetto emerge nell’incontro, in un clima di fiducia e di alleanza, che va sostenuto e sviluppato. Qui la funzione dell’équipe dei curanti è basilare. Non si può curare da soli. Quali metodi ed esperienze considerare?

La relazione impegna e richiede sostegno, ma conviene

Operare in un contesto in cui è così evidente la sproporzione tra risorse e bisogni è molto faticoso. In questa situazione, stabilire una relazione significa anche “aprire” spazi attraverso i quali l’altro può avanzare pretese ingiuste, con il risultato di trovarsi più spesso indifesi rispetto a queste richieste. Il che è scoraggiante. A volte sembra che la presa di distanza e il non-coinvolgimento possano rappresentare una difesa nei confronti dell’aspettativa e della pressione rivolta al medico a coprire atteggiamenti inaccettabili …

In realtà, la relazione non è un fattore di “indebolimento” della posizione del medico o dell’operatore, ma è il fattore protettivo per eccellenza, tanto del medico quanto del malato, perché è l’unico che consente di assumere una posizione franca nel rispetto della verità. 

Un’esperienza positiva e coinvolgente ad es. quella con una paziente in rianimazione, che è stata quasi “adottata”: curata e guarita ha restituito all’equipe un ritorno di riconoscenza significativo. 

Motivazioni da non far cadere per lavorare bene

Dobbiamo ritrovare le nostre motivazioni sorgive sulla volontà e il desiderio di lavorare! Quali sono le ragioni alla base della nostra scelta professionale (vocazione)? Come recuperarle?

Le motivazioni o si sviluppano e maturano o vanno incontro all’involuzione verso il cinismo.

C’è modo e modo di lavorare. Prendersi cura è lavorare con il cuore, inventando tutti i modi per costruire una relazione (anche nel dare i farmaci).

Occorre farsi carico della cura degli allievi tirocinanti, bisognosi di guide e maestri disponibili.

Idem per gli educatori, un ruolo che rischia di seguire la strada del normalizzare invece che del far uscire fuori la persona. 

Stimare la persona, condizione della cura

Siamo condizionati e limitati dalle categorie e dai giudizi: ad es. come curare un pedofilo? Perché qualcuno si rifiuta di trattarlo? L’operatore è chiamato a uno sguardo sulla persona, più che sulle sue azioni, pur se riprovevoli o addirittura criminali. 

Come possiamo occuparci di persone di cui non abbiamo stima? Ad es. alcuni operatori di riabilitazione fanno difficoltà a occuparsi di pazienti con danni cerebrali per uso di sostanze.

Accogliere la persona così com’è. Avere stima dell’altro: cosa a volte difficile, ma per la cura è conditio sine qua non. Ma esiste il pregiudizio: quando ti accorgi che l’altro ti sta antipatico, non di rado metti in atto atteggiamenti negativi.

Esempi in cui la stima e la fiducia dell’operatore verso il paziente (non solo viceversa!) sono la base per un aiuto accettato. E sono favorite da un ambiente relazionale (clima positivo di lavoro in equipe e spazi specifici) garantito dal Responsabile. 

Noi siamo soggetto in relazione

La relazione d’aiuto presuppone accoglienza e considerazione positiva dell’altro come soggetto. Un passaggio fondamentale è domandarsi il perché, le ragioni delle richieste dei pazienti per poterli capire. 

Si parla di un soggetto ridotto (prodotto più che un dato?), segno forse del cambiamento d’epoca. 

Eppure l’essere dentro una relazione tra soggetti, investire sull’altro, qualcosa di buono produce. E motiva a costruire l’équipe come luogo di riferimento.

“Sono sostenuta dalla relazione con l’altro e insieme stimolata”.

E non trascurare la funzione dei familiari, divenuti sempre più presenti e percepiti a volte come “ingombranti”, con il rischio di risposte rancorose o polemiche: occorre lavorare anche con loro come soggetti se vogliamo diventino risorse utili. 

Lavorare in equipe, apertura alla comunicazione

L’ipertecnicismo ha messo in crisi il rapporto tra il MMG e il malato, creando l’isolamento del medico e una perdita per il malato. 

Il lavoro di équipe però non costituisce “la” risposta alla solitudine del MMG: non tutti i compiti del MMG richiedono un intervento di équipe. Per vincere l’isolamento occorre attivare tutta una serie di rapporti e di scambi (colleghi, specialisti, altre figure professionali). 

Il lavoro di équipe può invece essere la modalità più adeguata per affrontare problemi complessi e implica una presa in carico condivisa e armonizzata tra i differenti attori che vi partecipano. 

Il lavoro di equipe è costruttivo se dà protezione ai singoli rispetto ad ansia e responsabilità? Ma: è un’area di aiuto o di accumulo di conflitti?

Facilita le comunicazioni con il paziente e lo pone al centro dell’attenzione e dell’operare? Alimenta la chiusura di operatori arroccati per difendersi dall’incontro con l’altro? O è mezzo e metodo di un buon lavoro aperto al bisogno e alla domanda del paziente? E’ capace di interrogarsi sugli errori fatti e di attrezzarsi al non ripeterne di nuovi? 

Per una buona organizzazione

L’esempio di una esperienza positiva: la costruzione di un reparto per disabilità acquisite, nel cui  progetto sono inseriti alcuni punti chiave: il messaggio “tu vali”; il linguaggio dell’accoglienza; i poster motivazionali negli ambienti; l’infermiere di riferimento; il caffè degli operatori. 

Infatti i  problemi organizzativi spesso intralciano e appesantiscono il lavoro degli operatori, invece che agevolarlo. E sono un ostacolo a poter riunire il gruppo di lavoro. In nome del poco o scarso tempo tutti hanno fretta e corrono, non ci si ferma a parlare con la persona e ad ascoltarla, anzi si può essere rimproverati di perdere tempo.

Il fattore tempo perso è un pregiudizio aziendalistico che impedisce la relazione col paziente e la costruzione dell’équipe, trascurando le competenze relazionali e ignorando il guadagno (prodotto) che si ricava con il tempo dedicato a conoscere il paziente e il tornaconto ottenuto dall’alleanza, dalla fiducia e dalla compliance, che stanno alla base della cura e della presa in carico.

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *