Quale cura?

Marcello Santi, Saverio Palumbo, Elena Mauri, Mario Ballantini

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La Lettura Magistrale di Mons. Bressan è stato preceduta e introdotta dalla presentazione di temi e questioni pregnanti in cui i professionisti del campo psico-sociale spesso s’imbattono nell’incontro con i pazienti e i loro bisogni e che oggi, secondo l’esperienza dei colleghi intervenuti, vengono avvertite più acutamente.

Marcello Santi

Psichiatra, Verona

 Seguendo la riflessione dello psicoanalista svizzero Gaetano Benedetti, si può dire che, nella sua essenza, la sofferenza psicopatologica – ma anche la sua intrinseca condizione di fragile creatura – origina dalla “mancanza esistenziale” dell’uomo, di cui è, nello stesso tempo, l’espressione più radicale. Le dimensioni fondamentali di tale “mancanza” sarebbero, secondo tale autore, le seguenti:

la mancanza umana della sicurezza istintuale, cui consegue, per l’individuo, la necessità di operare scelte, valutazioni e decisioni, da cui consegue l’esperienza dell’insicurezza;

la presenza del conflitto etico, derivante dal fatto che le azioni umane possono essere, allo stesso tempo, buone e cattive e che se la volontà di vivere porta con sé una necessaria dose di violenza, questa causa ad altri sofferenza, suscitando il vissuto del senso di colpa;

– la necessità antropologica e l’incompletezza dell’incontro: l’uomo diviene se stesso, fin dalle origini, nell’incontro ma tale necessità aumenta enormemente i bisogni, le attese e pretese dell’individuo e le conseguenti delusioni di fronte ai limiti altrui e propri;

l’ambivalenza sperimentata fin dall’infanzia tra il totale bisogno di cure e amore parentali e il conseguente adeguamento alla tradizione familiare e l’aggressività scaturente dai limiti imposti dall’educazione e dall’insofferenza della dipendenza;

le differenze naturali e sociali tra gli individui, che esasperano il senso della mancanza individuale e suscitano senso di inferiorità, invidia, rabbia e depressione;

la mancanza del genere umano e la crisi della civiltà, dove la mancanza diventa planetaria con lo sviluppo di psicopatologie collettive. 

Oltre che la dimensione della “mancanza”, l’autore individua nell’uomo e nell’umanità un’angoscia archetipica, riflessa dal fatto che in tutti i miti e le religioni vi è la rappresentazione di una catastrofe occorsa agli albori dell’umanità. Questa catastrofe è spesso rappresentata come una ribellione dell’uomo contro Dio, che sarebbe, allo stesso tempo, premessa necessaria della vita umana ed elemento tragico del suo divenire.

La sofferenza psichica è, quindi, propria dell’uomo e radicata come possibilità nella struttura stessa dell’esistenza. L’angoscia e la colpa, che la rappresentano, sono i due poli dell’esistenza che non immergono più il singolo nella comune esperienza ma, a causa della loro intensità, lo escludono da ogni vera comunità. Nel suo mondo interiore il malato psichico è solo; solamente in parte, possiamo immaginare ciò che egli sperimenta. Se la psicopatologia è l’espressione più radicale della “mancanza”, l’uomo, nella struttura della sua esistenza manifesta il bisogno che non solo si risponda alla malattia. Nel disagio psichico, che sperimenta, si manifesta la sua fragilità, l’impossibilità di darsi la verità e, quindi, anche la felicità con le proprie mani. Questa esperienza fa nascere una domanda di “salvezza”, cioè che un “altro da sé” venga e lo tolga dall’angoscia. Ma la possibilità che un “altro” venga è affidata, appunto, alla domanda, che colui che soffre abbia coscienza di sé, della propria situazione di fragilità ma anche del proprio desiderio di felicità e di compimento. Quale può essere la soluzione a questo problema? Come può egli ritrovare la propria origine e il proprio significato?

Una modalità adatta all’affronto della sofferenza psicopatologica è la relazione (o incontro) psicoterapeutica in cui i fenomeni proiettivi del transfert e del controtransfert e il particolare contesto servono alla costruzione dell’incontro “esistenziale”, ove si ritrova se stesso nell’altro e si trasforma l’altro in se stesso e dove si prefigura cosi l’unità della vita umana. In tale incontro nascono delle verità, che sono proprie della “dualità” terapeuta-paziente e che, non solo rispondono all’angoscia ma agiscono creativamente nell’aggiungere un “significato” più vasto che prima non si vedeva. In questo senso la “mancanza” psicopatologica verrebbe sublimata dalla “trascendenza” psicoterapeutica. Nella psicoterapia il terapeuta utilizza la propria persona come metodo di trattamento, senza interporre tra la sua personalità e quella del malato alcun oggetto intermediario. Come può l’azione del terapeuta diventare allo stesso tempo tecnica e arte, rapporto professionale e relazione umana in cui anche il malato è riconosciuto come soggetto e integrato nella sua dignità di persona (superamento dello stigma)? 

 Chi fa della cura la sua professione spesso fonda il significato del proprio lavoro sulla possibilità di ottenere dei risultati, di vedere guarito o almeno recuperato il suo paziente. Nella malattia mentale molto spesso non è così, le terapie hanno un successo parziale o, presto o tardi, i miglioramenti sono seguiti da delle ricadute. Ciò comporta il rischio di perdere la speranza, di non investire più, di demotivarsi, oppure di ridurre il paziente ai suoi sintomi e di accanirsi nel tacitarli farmacologicamente o ancora di rifugiarsi in una tecnica asettica di recupero sociale. Allora, come il terapeuta può educarsi ed essere educato a guardare oltre i risultati immediati in modo che la sua motivazione ed il desiderio di essere efficace si arricchiscano di umanità anche nella prospettiva di ridare significato alla malattia e al dolore?

Saverio Palumbo, Elena Mauri

Psicologi, Monza

 Vorremmo soffermarci su tre questioni che particolarmente ci interrogano.

Sulla passività. Spesso la gente si approccia ai servizi ritenendosi “oggetto” più che “soggetto” di cura. Si vive in situazioni problematiche, si soffre e si attende dagli operatori una soluzione. Non si crede più in se stessi. Viene in mente Hannah Arendt: l’uomo moderno ha rinunciato all’al di là senza guadagnare l’al di qua, si è persa la fede in Dio e con il tempo anche quella nell’io. In più, nella nuova prospettiva, ci si sente tremendamente soli oppure si investe su qualcuno strutturalmente non in grado di rispondere pienamente alla propria domanda di ben-essere. Come ridestare la fiducia in se stessi e nelle proprie potenzialità, è possibile una vita activa (ancora Arendt)?

 Sul dolore. Oggi la questione “filosofica” centrale dell’esistenza non pare essere più la morte (v. Martin Heidegger) bensì il dolore. La morte in tanti casi viene vissuta piuttosto come una soluzione alla drammaticità della vita (“tanto poi non esisto più e così pongo fine alla mia insolubile sofferenza”). Netta la sensazione di muoversi dentro una prospettiva epicurea: senza la possibilità di un livello accettabile di godibilità perchè restare al mondo? La questione centrale diventa così il valore da dare alla sofferenza, concepita come una forma di non vita, quindi di impedimento alla realizzazione di ciò che via via si assume pregiudizialmente come condizione soddisfacente dell’esistere (abitualmente definita “qualità della vita”). Quale compagnia è possibile in tali circostanze?

 Sul perdono. Di fronte ai tanti torti che in varie modalità si possono subire il perdono appare una strada desiderabile per certi versi, ma resta incomprensibile il percorso: si conosce (almeno a grandi linee) la meta ma non la via. Eppure sarebbe molto più pacificante rispetto ad altre strade (una paziente: coltivare l’odio è doloroso innanzitutto per chi lo prova, ma come estirparlo da sé?). La classica missione impossibile. I riti proposti dalla religione non vengono vissuti come capaci di incidere nella profondità del proprio animo e gli impedimenti socio-legali restano, quando ci riescono, un ostacolo puramente esteriore. Esiste per il soggetto una via d’uscita da tale gabbia?

Mario Ballantini

Psichiatra, Sondrio

 Nell’incontro quotidiano con le persone in difficoltà sta emergendo un fenomeno relativamente recente e che pone nuove sfide nell’offerta e nella costruzione di una relazione di cura. Tecnicamente si potrebbe definire come una scarsa resilienza di fronte agli avvenimenti che, pur fonte di tensione, difficoltà e sofferenza, sono stati in stati in passato assunti e considerati come una parte, un ingrediente possibile e spesso inevitabile dell’esistenza umana. Tali avvenimenti provocano una frustrazione vissuta come intollerabile genera un automatismo di fuga e negazione che chiude ad una prospettiva di elaborazione e di aiuto. 

 Alcuni brevi ma emblematici esempi che si incontrano sempre più spesso: 

– anziani che non tollerano le ingravescenti limitazioni e condizioni esistenziali legate all’età e che desiderano morire;

– episodi di discontrollo comportamentale con auto ed eteroaggressività in reazione ad una frustrazione per una separazione e un abbandono;

– condotte autolesive nei ragazzi e negli adulti innescate da condizioni apparentemente e obiettivamente affrontabili;

– richieste di certificazioni psichiatriche per l’aborto dopo il terzo mese a fronte di un amniocentesi che prospetta la certezza o possibilità di un figlio con malformazioni più o meno gravi.

 Lo psichiatra si trova spesso disarmato davanti ad un fenomeno che prima che clinico è culturale e antropologico. Come affrontarlo?

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