La cura al confine con l’impossibile. Ovvero: fare amicizia con l’imperfezione delle cose umane – Mario Binasco

Mario Binasco – Psicoanalista, Docente Pontificio Istituto Giovanni Paolo II – Roma

Correspondence to: mario.binasco@gmail.com

To cite: M. Binasco – La cura al confine con l’impossibile. Ovvero: fare amicizia con l’imperfezione delle cose umane JMP 2017;1:23-30

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Questo Convegno ha un titolo (La cura al confine) e un sottotitolo (le relazioni di cura tra incontro e cultura dello scarto).

Voglio darvi in partenza una chiave sintetica di ciò che intendo dire, partendo dal sottotitolo: “le relazioni di cura tra incontro e cultura dello scarto”. A questo proposito parlerò di una precisa condizione, di un aspetto radicale della nostra cultura come cultura dello scarto, per mostrare che essa tende a sopprimere ogni relazione di cura, e per sostenere dunque che ogni relazione di cura, nel momento in cui accade, fa obiezione in radice a questa logica dello scarto.

Da qui passerò a considerare il titolo, La cura al confine, sottolineando l’idea di confine e specificandolo come confine con l’impossibile: di qui il titolo della mia relazione: La cura al confine (con l’impossibile). Ma anche la mia relazione ha un sottotitolo: “fare amicizia con l’imperfezione delle cose umane”: cercherò di spiegare qual è a mio parere il nesso che lega inscindibilmente le relazioni di cura alla cultura dell’incontro e all’amicizia con l’imperfezione umana.

Il termine “cultura dello scarto” è stato introdotto con forza nel discorso corrente da Papa Francesco, come tutti sappiamo, e con questo Convegno abbiamo voluto prenderlo sul serio. Ciò di cui vorrei parlare è una delle ragioni, o condizioni fondamentali per le quali penso che la nostra cultura – se vogliamo chiamarla così – è una cultura dello scarto, e lo è per cause non solo contingenti o individuali, come la cattiva volontà o l’ignoranza di ciascuno, ma anche strutturali o generali, che trascendono e si impongono all’individuo della nostra epoca.

Alla nostra società può accadere di scartare qualunque cosa: ma c’è un tipo di scarto che la nostra società scarta per programma, o almeno che alcuni discorsi rilevanti nella nostra società scartano programmaticamente. Questo scarto non è questo o quell’oggetto che abbia finito di servire e perfino di essere riciclato: questo scarto è un fattore essenziale della persona umana, è quello che possiamo chiamare il soggetto.

Perché la nostra civiltà, con i discorsi che sono dominanti in essa, scarta il soggetto? E in che senso lo scarta, da che cosa lo scarta? Lo scarta perché la nostra società o civiltà ha adottato il discorso della scienza moderna come l’unico riferimento e collante ideologico che corrisponda all’idea che la democrazia ha di se stessa: e la scienza moderna è nata proprio scartando, mettendo da parte la soggettività dello scienziato per puntare a estrarre dal reale solo un sapere senza soggetto, per esempio una formula matematica.

Ma partita da questo “scarto” metodologico, la scienza nella sua storia, attraverso anche il matrimonio col discorso capitalistico, è giunta oggi a funzionare come “ideologia della soppressione del soggetto” (secondo le parole di Lacan), come base ideologica di un programma di soppressione del soggetto: cioè della sua eliminazione da ogni processo e da ogni funzionamento socialmente rilevante. L’imperio crescente delle tecnologie e delle burocrazie che si applicano alla vita umana (biopolitiche, diceva Foucault) sono una evidente illustrazione di questa soppressione del soggetto perfino dalla politica: e siccome la nostra società politica si arroga l’universale competenza tra l’altro anche sulle cure, questo crea qualche problema al soggetto, sia come curante sia come curato.

La cultura dello scarto è dunque il risultato voluto, programmato dal dominio tecno-scientifico della società, che scarta sistematicamente il soggetto dalle cure che essa organizza, sia che si tratti del soggetto curante sia del soggetto curato. Il problema è che, come molti dicono in questo convegno, le relazioni di cura propriamente dette non sono concepibili se non come incontri singolari (e non come funzionamenti meccanico-burocratici), e incontri con un soggetto e come relazioni tra soggetti, fondate sulla fiducia, sulla speranza, sulla dimensione del dono, sul riconoscimento. Dunque dobbiamo dedurre che nella nostra società, nel nostro mondo tecno-scientifico, la relazione di cura di cui parliamo non può non essere e non porsi come un modo di recupero, di riabilitazione che parte da quello scarto universale che è il soggetto nella nostra società.

In un testo del 1986 il cardinale Joseph Ratzinger si interrogava su ciò che minaccia la democrazia e può portare alla sua negazione: e affermava che tra queste minacce “anzitutto c’è l’incapacità di fare amicizia con l’imperfezione delle cose umane”.

Perché ci interessa questa affermazione, a noi del mondo delle cure? In primo luogo: che cosa c’entra la democrazia con le cure? E che cosa c’entrano le cure con la democrazia? In che modo i due temi si intrecciano? Forse che le cure sono un test della democrazia?

E in secondo luogo: che cosa c’entra l’imperfezione delle cose umane con la cura?la cura non è proprio accompagnare qualcuno nel cammino da una imperfezione dolorosa verso una maggiore perfezione? La cura dunque non è nemica dell’imperfezione? Perché allora proporre addirittura di fare amicizia con l’imperfezione? Forse che il rapporto (amicizia) con l’imperfezione è un test per la cura?

La democrazia “scientifica” e la soppressione del soggetto

Riguardo alla prima questione, su che cosa c’entra la cura con la democrazia, bisogna osservare che mentre la cura non ha cercato né aspettato la democrazia per esistere, èla democrazia invece,che non ha cessato di considerare le cure come una sua parte essenziale, dalla rivoluzione francese fino all’evidenza accecante della società di oggi. È la democrazia – nella forma totalitaria e antidemocratica che ormai ha assunto – che ha avocato a sé ogni competenza in fatto di cure: e il problema è che ha considerato compatibili con se stessa e con i propri ideali solo le cure universalistiche e anonime che scaturiscono dalla scienza che la democrazia ha adottato come propria ideologia, come ho detto prima, lasciandole organizzare, scandire e ridurre funzionalisticamente tutte le pratiche di legame comprese quelle di cura.

Non è tempo perso dire queste cose, perché dobbiamo capire che questa – la democrazia totalitaria e burocratica – non è un’astrazione, ma è il contesto concreto e pervasivo nel quale prendiamo le iniziative di cura, e che condizionala realtà sociale in cui avvengono gli incontri di cura: senza questo contesto, questa condizione assoluta che è il ramo su cui stiamo seduti, non ci porremmo ora neanche queste questioni. Basti pensare a quello che succede dentro e attorno agli ordini professionali, per vedere che la democrazia ha le sue idee sulle questioni che riguardano le relazioni di cura.

Dobbiamo sapere bene che questo è il contesto che dà un certo significato obiettivo alle nostre azioni di cura, sapere che questo significato (politico organizzativo giuridico) tende a non lasciare spazio, a scacciare, il significato relazionale personale di cui però noi siamo necessariamente testimoni e a cui fortunatamente non sempre siamo disposti a rinunciare.

Ho detto prima che la democrazia si è strutturata sempre più appoggiandosi al discorso scientifico e tecnico, e al suo universalismo: e la tecnica per definizione non ha colori, politici religiosi, vale di per sé, autorealizza quello che deve realizzare. Auschwitz per esempio è una realizzazione della tecnica e della scienza come modo di organizzazione sociale(non è un caso così estremo come può sembrare, le teorie dell’organizzazione hanno imparato da lì).

Avendo adottato la tecnoscienza come l’ideologia adatta a lei,la democrazia si occupa di noi prescindendo dal soggetto: per esempio nel codice deontologico dell’ordine dei medici si elimina il più possibile il riferimento alla coscienza del medico – e la coscienza è qualcosa che necessariamente c’entra col soggetto, e col soggetto singolare, se no che cos’è la coscienza? La coscienza va tolta perché la coscienza fa obiezione alla soppressione del soggetto, fa obiezione al sistema che esclude il soggetto come fattore dell’azione, scientifica, tecnica, sociale, ecc. Questo ha conseguenze importanti sulla scena pubblica perché le cure interessano al potere e all’organizzazione, e se eliminiamo da esse il riferimento alla coscienza non è che le cose vanno avanti come se niente fosse.

Non dobbiamo credere che la scienza moderna sia un sapere come un altro che abbia con noi umani lo stesso rapporto che aveva con noi umani il sapere antico, il sapere testuale per esempio, il sapere dei testi, pensiamo la Bibbia, le filosofie, le letterature. La scienza non è un sapere testuale, ma è un sapere referenziale di tipo nuovo, che si riferisce a pezzi di reale dentro i quali suppostamente esso si trova, dentro pezzi di realtà dai quali viene estratto, per poi esservi eventualmente ri-iniettato con operazioni tecniche, rimesso dentro la realtà rimaneggiata a partire da questo sapere.

Questo sapere però non si cura minimamente di noi umani che ce ne serviamo e che lo estraiamo dal reale, non si cura di noi, non sa niente di noi, anche quando viene messo in esercizio in pratica dentro qualche marchingegno o artefatto che noi costruiamo, materiale o sociale collettivo, noi stessi ci troviamo a essere una parte di quel marchingegno, un suo servomeccanismo. Pensate alla burocrazia e ai funzionamenti, noi siamo servomeccanismi degli uffici, perché essi hanno il compito di funzionare, e sono al nostro servizio, ma non di noi come soggetti, né alla comunità dei legami, ma sono al servizio del loro funzionamento stesso, a cui anche noi contribuiamo e serviamo. Pensate al computer, che ci serve, fa un sacco di cose a noi e per noi, ma non ditemi che non vi siete mai accorti che voi siete dei servomeccanismi del computer che vi formatta e vi obbliga a fare in modo che lui lavori come vuole lui.

Il sapere che entra in questi marchingegni o dispositivi è un sapere senza soggetto, noi diventiamo rotelle nel sistema che oggettivamente noi formiamo nel reale noi con gli altri pezzi dei dispositivi stessi. Un sapere senza etica, perché l’etica entra in gioco come modalità di rapporto di un soggetto col reale, compreso il proprio, anzi anzitutto da questo reale del proprio corpo nella relazione con l’Altro.

La cura: incontro col soggetto nella parola

Il reale è ciò che ha la caratteristica fondamentale di non chiederci il permesso di esistere o di farsi incontrare, tantomeno di farsi riconoscere: questa può essere una sua buona definizione, utile anche nelle riflessioni sulle relazioni di cura: alla condizione però di tenere presente che incontrare un reale non è la stessa cosa, non ha le stesse dimensioni, implicazioni e conseguenze che incontrare un soggetto. Incontrare un soggetto implica e produce una relazione di dire nella quale da entrambe le parti ci si trova in posizione di risposta, di responsabilità.

La tecnoscienza rende evidente a tutti oggi che il sapere scientifico è quello che una macchina estrae da un’altra macchina, ovvero da un’altra realtà presa come macchina: la macchina della sperimentazione“incontra” il resto della realtà, ma che cosa incontra? Incontra apparati, altre macchine, altre strutture funzionanti, ma lo scienziato, il soggetto scienziato, incontra propriamente qualcosa? Si imbatte in qualcosa che accade, in un fenomeno, ma non è lui come soggetto che lo incontra, è il suo programma attrezzato di ricerca che incontra l’evento o il fenomeno: la persona del tecnico scienziato come soggetto non c’entra né con l’evento né col sapere che ne trae. Per questo se ad Auschwitz qualcuno sperimentando “incontrò” fenomeni corporei che aveva fatto accadere in qualche prigioniero ciò non ebbe niente a che fare con l’etica del soggetto, ma solo con quella dello sperimentatore, per il quale i prigionieri erano come i topi di laboratorio, e non si “incontrano” i topi, non nel senso di un incontro con un soggetto all’interno della differenza umana, dentro la relazione di parola e di linguaggio.

Sentendo parlare di linguaggio come differenza umana, qualche scienziato potrebbe obiettare che anche il sapere che egli trova, per esempio il DNA, è in fondo un linguaggio, che i fenomeni vitali sono riducibili a fenomeni di informazione, di trasmissione, e quindi a messaggi e testi; potrebbe sostenere, e qualcuno l’ha fatto recentemente, che egli stesso con la sua azione sui geni parla o piuttosto scrive, aggiunge un testo ad altri testi genetici che corregge.

È essenziale chiarire bene ciò che riguarda la relazione dei soggetti nella parola e nel linguaggio, perché la relazione di cura non è concepibile fuori da questo. Può sembrare un’ovvietà senza conseguenze, di cui non mette conto parlare, oppure al contrario una resistenza antiscientifica: ma è essenziale capire perché la relazione di cura è relazione di parola, sempre, e che cosa questo implica.

Il cosiddetto discorso della scienza – con i suoi testi di cui sopra – non è un parlare che abbia lo scopo di legare un soggetto all’altro, perché non è una lingua che con metafore e metonimie permetta al soggetto di dire qualcosa di indicibile, e cioè se stesso, situandosi nel discorso: perché questo è il parlare umano. Invece i cosiddetti testi della scienza – oltre al fatto che sono scritti – sono scritti secondo dei codici, quindi sono e vogliono essere totalmente univoci, non dare luogo ad alcun equivoco o malinteso, e vogliono scrivere espressamente tutto dell’oggetto di cui trattano: il che implica che di questo oggetto tutto sia scrivibile, e non lasci spazio per alcuna interpretazione del significato e del senso. Pensate al computer, che non fa metafore o allusioni metonimiche, in cui ogni segno ha quel significato cioè quell’effetto, perché i suoi segni sono sequenze di comandi formulati in un codice nel quale è saputo tutto di ciò che deve funzionare.

Nei linguaggi della scienza – per definizione, se no non sono scientifici – tutto è saputo: ma poiché ogni “tutto” umano si fonda su ciò che lascia fuori, possiamo chiederci: tutto, tranne che cosa? Nei linguaggi della scienza tutto è saputo tranne il soggetto. Ora, è così folle considerare il soggetto come l’essenziale – almeno in qualche regione dell’esperienza umana? Il soggetto è l’essenziale che il sapere non arriva a sapere (d’altronde già Aristotele diceva che del singolare non c’è scienza). È per questo che il soggetto parla: il soggetto è sempre aldilà di ogni sequenza che lo descrive e con cui si descrive: la scienza quindi non può chiudere il buco di questo mistero.

Il sapere della scienza ha questo limite intrinseco, non è una limitazione che qualcuno affibbia o pensa di dover affibbiare alla scienza, all’azione dello scienziato, limitazione che gli ideologi della scienza rigettano a gran voce proclamando che nessuno può limitare la loro libertà ecc.

A livello della struttura del discorso umano, è il sapere scientifico che necessariamente ha un limite intrinseco, perché non sa niente del soggetto – e non vuole saperlo. Sembrerebbe una cosa ovvia, ma spesso bisogna litigare per affermarla. Il mistero, chiamiamolo laicamente un buco nel sapere, quel buco in cui soltanto può situarsi il soggetto, che si ripresenta aldilà di ogni enunciato e ogni detto, è proprio quel buco lì che sempre in ogni relazione di curati interpella e viene interpellato, interrogato, quello che ti si rivolge e a cui ci si rivolge: questo buco nero che è aldilà dei sintomi e problemi vissuti e detti, attraverso il quale viene poi la risposta dell’Altro.

È lì che si vede che il parlare umano, su cui si fondano anzi di cui consistono le relazioni di cura (ed è per questo che ne stiamo parlando), diversamente dai linguaggi della scienza non è un modo di informare, sempre imperfetto perché non scientifico, ma è l’atto con cui noi siamo tirati dentro relazioni che nessun altro tipo di vivente conosce, con le quali siamo costituiti come interlocutori non appena nasciamo e qualcuno ci rivolge la parola, mentre siamo lì che gridiamo e qualcun Altro parlante si prende cura di noi rivolgendoci la parola.

È così che siamo costituiti come parlanti perché uditori della parola dell’altro, di un altro che si prende cura di noi: ecco perché secondo me conviene tenere cara la polisemia della parola cura (care e cure)come un regalo della nostra lingua: nella prima cura l’Altro ci fa il dono primordiale che è il dono della parola. Perché è il dono primordiale il dono della parola? È semplice: perché senza la funzione della parola e il campo della lingua non ci sarebbero segni, ed ogni dono è un segno, come tale, come si usa dire“basta il pensiero”.

Un dono non sta e non consiste nella sua entità materiale, ma nel fatto di essere segno di qualcosa, segno del donatore, segno dell’amore, segno comunque, perché interno a quel campo istituito dal dono della parola, quel campo che fonda il primo assioma della pragmatica della comunicazione umana, e cioè: “non si può non comunicare”. Il che vuol dire che all’origine è stato istituito un campo entro il quale necessariamente non si può non parlare

Parlare è la condizione e l’atto con cui si creano le relazioni e i legami a cui il soggetto affida la propria esistenza e quindi anche la propria vita (perché il soggetto è vivente), domandando all’Altro soddisfazione: questa è la fondamentale realtà relazionale che il parlare introduce, la via attraverso cui il soggetto viene ad esistere come parlante di fronte ad un altro, e attraverso cui vive chiedendo soddisfazione. Il parlare del neonato non consiste nel dire: “mi premuro di informarla cara madre che nel mio corpo sta avvenendo una certa sensazione ecc.”: ma è il fatto e l’atto stesso in cui qualcosa della sua esistenza di vivente ed esigente si traduce performativamente nel fare appello all’Altro, nello stabilire una relazione di domanda di cure all’Altro.

Questo per dire ciò di cui sono fatte tutte le relazioni di cura indipendentemente dalle varie strumentazioni che possono entrare in gioco. La relazione di cura è il paradigmache sta alla radice di ogni relazione tra il soggetto e l’Altro da cui il soggetto dipende. L’incontro tra il soggetto e l’Altro (e tra l’Altro e il soggetto) avviene all’interno delle leggi della parola e del discorso: è questo incontro con l’Altro parlante che fa sorgere, che tira fuori il soggetto dal vivente, che lo “formatta” come interlocutore, che lo fa parlare. In quel momento si vede che non si parla per informare qualcuno, ma essenzialmente per domandare la presenza dell’Altro e per affidarsi a questa presenza e impegnare se stessi nella domanda di soddisfazione rivolta all’Altro.

Noi che ci occupiamo di cure sappiamo che nessuna cura accadrebbe né incomincerebbe mai se non si fondasse sull’incontro con qualcuno, con qualcuno animato dal canto suo da un desiderio di incontrare un soggetto, non un suo pezzo, una sua parte, un suo livello di funzionamento. Voglio mettere fortemente l’accento sul fatto che alla base di ogni relazione di cura c’è un desiderio nel curante, che occupa il posto dell’Altro per il soggetto, e che questo desiderio è sempre il fattore decisivo per la cura. Per esempio, un riabilitatore ha il desiderio di incontrare il soggetto a cui appartiene il braccio che non funziona, ha il desiderio di guarire il rapporto del soggetto con quel braccio, non ha il desiderio di incontrare un braccio, un apparato, un sistema, un codice comportamentale o biologico, ma proprio un soggetto, e cioè lo scarto di tutti i funzionamenti, che è fuori da tutti i funzionamenti descrivibili nei saperi di oggi. Ed è il desiderio che sta veramente al fondo dell’operatore, quello che determina dove lo porterà la sua operazione.

Amicizia con l’imperfezione delle cose umane

Ho differenziato fortemente i due modi di concepire le cure: uno, quello proprio della democrazia scientifica, che vede nelle “cure” soltanto certi protocolli tecnici tramite i quali si cerca di riparare dei funzionamenti erronei o non corrispondenti agli ideali che comandano, sia che si tratti di macchine, di animali, come di esseri umani. L’altro modo, quello che considera che ogni cura di un essere umano non può non avvenire dentro una relazione con un soggetto che soffre di qualcosa, e che quindi consiste prima di tutto in un incontro con questo soggetto, con le sue domande, i suoi desideri, con ciò che può dire dei suoi rapporti con la vita e con l’esistenza. Questa prospettiva implica che ogni relazione di cura faccia leva sul soggetto e tenda a reintrodurlo nel discorso sociale, andando al rovescio della sua soppressione inscritta invece nel programma della democrazia scientifica.

Una differenza basilare tra i due modi è che il modo “tecnico” implica che chi opera possieda un sapere completo dei fattori della sua operazione, e che tenda ad escludere il più possibile da questa ogni fattore estraneo a questo sapere. Nel secondo modo, invece, quello della cura come incontro col soggetto, il fattore essenziale, appunto il soggetto, rende necessariamente incompleto l’insieme dei saperi che concorrono all’operazione, perché introduce nella relazione di cura un tipo di indeterminazione e di rischio che non esiste nella relazione tra un tecnico e un materiale che egli trasforma.

Nella prospettiva “tecnica” ogni “difetto” di funzionamento può venire trattato per ricondurlo ad un modello finito di funzionamento possibile dal quale si era scostato: e quando questo accade si è ristabilita una perfezione, è come se il difetto non fosse mai accaduto; invece quando si prende in carico una sofferenza di un soggetto, e non solo un malfunzionamento di qualche sua parte, entra in gioco come fattore ineliminabile il pensiero del soggetto su ciò che gli accade, il significato e il senso che ha per lui ciò che lo disturba, e non solo questo, ma anche molti altri aspetti e fattori della sua esistenza e delle sue relazioni che sembrano non entrarci nulla col disturbo, ma che c’entrano molto con la sua voglia e il suo modo di stare al mondo. Oltre al fatto che lo stesso disturbo o sofferenza può avere contemporaneamente un significato negativo per un certo insieme di pensieri del soggetto, e un significato “positivo” per un certo altro insieme di pensieri, non è affatto univoco; senza parlare poi dell’impossibilità di tornare allo stato iniziale della storia del soggetto.

Insomma: non esiste procedimento tecnico che possa rendere “completo” un soggetto e farne qualcosa di compiuto in se stesso: un soggetto non è mai del tutto presso di sé (neanche nell’autismo forse), ma è sempre spostato e sbilanciato verso l’altro, presso il quale cerca e riceve essere, significato, senso. Per questo la completezza e la “perfezione” immaginate e idealizzate dalla tecnica non hanno niente a che fare con lui: sembra anzi che la sua vita sia un continuo trovarsi mancante di quella completezza e perfezione, per poterla cercare o recuperare nel desiderio. Il desiderio umano rende evidente questo paradosso perché mostra che l’uomo vive della infinitudine della sua mancanza d’essere.

Da qui si capisce che la democrazia, nella misura in cui pretende di applicare al soggetto quell’ideale di completezza di funzionamento, sega il ramo su cui sta seduta, mina le proprie basi umane, quelle che invece ogni relazione di cura tende di fatto a riabilitare.

Qui ritroviamo la questione dell’amicizia per l’imperfezione delle cose umane formulata da J. Ratzinger nello scritto che citavo all’inizio. Avevo osservato che le parole in cui era espressa potevano lasciarci perplessi: se lo scopo di ogni operazione è di realizzare una certa perfezione, perché mai dovremmo metterci a stimare l’imperfezione umana, fino al punto addirittura di fare amicizia con essa?

La perplessità si risolve se a quella frase di Ratzinger aggiungiamo una parola che non è espressamente detta, ma che dobbiamo considerare implicita perché il discorso non solo abbia un senso, ma anche attiri la nostra attenzione su qualcosa di essenziale.

Aggiungiamo alla parola “imperfezione” la parola “inevitabile” o “necessaria”: la frase allora suonerebbe così: “fare amicizia con l’inevitabile (o la necessaria) imperfezione delle cose umane”. Ci accorgiamo allora che non è un’imperfezione qualunque quella con cui siamo invitati a fare amicizia per salvare il legame umano: che non è l’imperfezione come tale che è da considerare amica: ma che è l’imperfezione in quanto impossibile da eliminare, dunque in quanto reale componente dell’essere umano.

L’invito a fare amicizia con l’imperfezione, soggettivamente va contro l’idealizzazione di cui si serve la civiltà e la politica per asservire il soggetto che essa intende sopprimere come fattore della realtà politica e civile – sopprimendo le sue relazioni di soggetto, quindi anche quelle di cura: la relazione di cura per la propria vita passa attraverso quella che Freud e Lacan hanno chiamato la “castrazione”, l’assunzione della finitezza nella forma dell’impossibilità di fare uno con l’ideale.

È l’idealizzazione di cui è malato che rende difficile al soggetto di assumere la sua finitezza, quella che a volte si chiama il suo limite: è la stessa idealizzazione che viene smentita da ogni evento o esperienza pato-logici, patiti dal soggetto umano che domanda di esserne curato.

Se l’imperfezione è inevitabile, se è addirittura strutturale della realtà umana, beh allora se non si fa amicizia con quella non si fa amicizia neanche con la realtà umana: e sottolineo come ogni desiderio che ti permetta di non sfuggire una relazione di cura è al fondo sostenuto da questa paradossale amiciziaper l’imperfezione che il soggetto ti testimonia: interesse, curiosità, riconoscimento di una comunità di destino.

Ma che cosa ci può permettere di mantenere questa posizione di amicizia per l’imperfezione umana?

Questa è una domanda che ciascuno deve rivolgere a se stesso – oltre che ai testimoni di questa amicizia, che egli può incontrare.

È più facile accorgersi delle vie di fuga che prende l’uomo contemporaneo quando niente gli permette di capire come potrebbe dare un valore alla sua stessa imperfezione umana, al suo non poter essere “ideale”.È lì il punto chiave dove il criterio dominante nella società ha dichiarato guerra alle relazioni di cura che prendano in conto l’umano: la “soluzione” diventa quella di rifiutare l’umano stesso in quanto imperfetto, considerare l’imperfezione come il male assoluto, immaginarsi di ridurre l’umano alla sua imperfezione, e optare per il trans-umano, per il post-human, la cui caratteristica è situarsi in una prospettiva solo positiva, di costante miglioramento, potenziamento, enhancement. Questa opzione per il post-human avviene nella politica e nella medicina che ne è un fattore essenziale da almeno due secoli, a partire dai teorici e dai medici della rivoluzione francese (Saint-Just: la felicità è un fattore della politica) fino a Rorty: il massimo di felicità possibile(e sottolineo: possibile) per la maggior parte. Costruire la società e l’uomo nuovi (mettendo in manicomio o al cimitero quelli che resistono a diventare nuovi.

Due cose da sottolineare: 1) il concetto qui implicito di felicità è che questa è un diritto: attenzione, non che la sua ricerca è un diritto riassuntivo dell’azione e della vita del soggetto, ma proprio che la felicità è un diritto che è compito della società democratica garantire. Così se c’è il diritto alla salute (e non ai mezzi di tutela e ricupero della salute) ne consegue che la malattia è anticostituzionale e illegale, e quindi in fondo la patologia confina con la delinquenza o la devianza.

2) Ma questo concetto di felicità implica che questa risulterebbe dall’eliminare dal piacere o dal godimento ogni traccia di dispiacere possibile: è l’idea che ogni dispiacere anche se connesso con una soddisfazione è un’ingiustizia e deriva dall’azione di qualche agente sociale il cui potere va contestato (secondo un certo uso di Foucault). I genitori non garantiscono ai pargoli una felicità di questo tipo, senza ombre? È un’ingiustizia. Uno o una si sentono non del tutto a loro agio (come chiunque!) davanti alla questione del sesso e della loro sessuazione (vedi gender)? Questo disagio è un’ingiustizia causata dal predominio di un potere sociale sessuofobo, omofobo e discriminatorio. Ti è capitata una malattia statisticamente infrequente? È un’ingiustizia causata dalla radio vaticana o dall’acciaieria vicina che bisogna chiudere. Nasci non sano? È un’ingiustizia che lede il tuo diritto a nascere sano: e che in pratica fonda il dovere di un funzionario di non farti nascere, proprio per tutelare il tuo diritto a nascere senza questa imperfezione.

Ora chiediamoci: ci sarebbe tutta questa necessità di rigettare l’ingiustizia sull’Altro se questo concetto di felicità/diritto non lasciasse il soggetto come unico responsabile della sua imperfezione, di quello che non va nella sua vita? Attenzione, non responsabile della sua posizione di soggetto nei confronti della propria vita – responsabili di questa posizione lo siamo tutti sempre – ma proprio responsabile nel senso di colpevole dell’imperfezione propria, unico a portare il peso impossibile da sopportare di questa colpa, che nessuna accusa all’Altro servirà ad alleggerire, anzi. Vedasi ciò che già Freud disse sul Super Io, sul disagio della civiltà, sul senso di colpa inconscio e sul bisogno di punizione. Come si fa a credere di poter eliminare questa condizione radicale semplicemente raccontandosi di avere dei diritti che l’Altro ti nega, raccontandosi che non c’è nessuna condizione di dipendenza radicale impossibile da eliminare?

Amicizia con l’impossibile (perfezione umana)

C’è qualcosa da chiarire a riguardo dell’Impossibile della perfezione umana: non si tratta di impotenza, dell’impotenza ad arrivare ad uno standard di perfezione, cioè di arrivare ad un limite tracciato da qualcuno: l’impotenza è quella propria di ciascuno, riguarda il singolo, è un non arrivarci per via di limitazioni contingenti più o meno grandi, anche se qui andrebbe ben distinto anche l’uso rispettivo dei termini confine, limite e finitezza, che si usano un po’ troppo come sinonimi.

Personalmente mi regolo prendendo il termine limite nel significato che ha in matematica, quando si studiano le serie matematiche: il limite – a cui tendono i numeri della serie – individua assolutamente la serie, ma non è uno dei numeri che la compongono, non appartiene alla serie che pure esso individua, rimane all’esterno di essa. Se noi seguiamo la successione dei numeri della serie possiamo vedere che dopo un numero ne possiamo sempre porre un altro, ma ci accorgiamo anche che nessuno dei numeri che potremo seguire e che compongono la serie raggiungerà mai né supererà mai un certo numero, che chiamiamo limite. Seguendo la successione dei numeri noi possiamo sempre spostare più in là la frontiera della nostra azione, ma resteremo sempre al di qua di un limite impossibile da raggiungere e da superare: il limite non possiamo tracciarlo noi, è esterno a noi e noi siamo totalmente soggetti ad esso, realmente dipendenti. Ecco, io penso che il modo in cui noi parliamo di confine in questo convegno, di cura al confine, equivale a questo modo di parlare di limite: il confine verso il quale e lungo il quale si muove la cura ne rappresenta un limite reale, è la garanzia della sua aderenza al reale: con la sua drammaticità e a volte tragicità. Per questo è giusto parlare di cura al confine con l’impossibile.

L’impossibilità della perfezione delle cose umane non è dunque una contingenza individuale e temporanea, ma fa parte di quelle impossibilità logiche, strutturali connesse a come è fatta la soggettività umana e che rendono impossibile – appunto – che l’uomo sia “tutto” “intero” “uno” e “completo”, che sia tutto d’un pezzo e non sia diviso in se stesso dalla sua relazione di dipendenza dall’Altro del logos e della parola,dal tempoe dalla realtà: l’essere umano non si fa totalmente da sé, c’è sempre un livello del reale di fronte al quale di fatto, che lo sappia o no, egli deve prendere posizione ed esserne responsabile, anche quando lo negasse e non volesse saperne nulla. È solo un’immagine per spiegarmi meglio, ma, per fare un esempio: la mano dell’uomo è strutturata in un modo che rende impossibile al palmo di una mano toccare direttamente il proprio dorso, a cui non ha un accesso diretto. Ugualmente, l’occhio non può vedere tutto, ci deve essere una macchia cieca, un punto in cui l’occhio non vede, o rinuncia a vedere, perché possa vedere tutto il resto.

Non per niente in molte fobie si teme qualcosa di ostile che può emergere alle nostre spalle o sotto di noi, proprio nello spazio a cui noi non abbiamo direttamente accesso; oppure si teme di avere qualcosa sulla parte posteriore del corpo o della testa, visibile da altri ma non da noi; o in altre ancora ci dà angoscia l’essere sospesi, letteralmente di-pendenti (da un aereo, una funivia, …) senza alcun punto d’appoggio a cui poter accedere per mantenere il controllo, e senza possibilità di separarci, di renderci indipendenti da quel veicolo dal quale dipendiamo totalmente.

Pensate anche a certi miti antichi: Achille era invulnerabile su tutto il suo corpo con l’eccezione del tallone, che era il punto nel quale lui di-pendeva dalla madre quando questa lo aveva immerso nell’acqua del fiume. O nella Genesi il sonno, l’abolizione della presenza cosciente a se stesso, che Dio infonde ad Adamo per trarne e crearne Eva, perché Adamo possa sapere che l’Altro sesso non è una sua invenzione o creazione. Il fatto che l’essere umano sia strutturato secondo polarità antropologiche (anima-corpo, individuo-comunità, uomo-donna, secondo von Balthasar) mostra a sufficienza che il suo essere conserva strutturalmente nel suo cuore una paradossale ferita “che sanguina”, con la quale ogni pretesa di perfezione ideale deve fare i conti senza poterla ignorare o bypassare. Per questo ogni possibile “perfezione” nell’essere umano diventa in realtà imperfezione (Lacan direbbe: riappare nel reale come imperfezione) se ci si rifiuta di prendere in conto (Lacan direbbe: nel simbolico) quel tipo di impossibilità di “perfezione” che ne è il limite, perché è la ferita del soggetto umano diviso in se stesso nelle sue strutturali polarità antropologiche.

Per noi esseri fatti dalla parola e dall’immaginario – due dimensioni nelle quali tutto è possibile – questa impossibilità logica, strutturale a essere tutto-uno, è la condizione e la garanzia che ci sia e si possa incontrare del reale, indiscutibile, non negoziabile. Il soggetto deve fare i conti con questo: è impossibile non incontrare questo reale: ogni tentativo di evitamento di questo è sempre una fantasia di desiderio al servizio di una negazione, denial, del reale del soggetto. E quindi distrugge sempre qualcosa della vita del soggetto, che il soggetto sia io oppure sia l’altro con cui ho a che fare. Se il terreno su cui camminiamo non fosse più, improvvisamente, impossibile da penetrare, sprofonderemmo e diventeremmo impotenti a fare un qualunque cammino. Ricordiamo i versi di Montale: “E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”: solo in rapporto a questi versi ha senso l’altro celebre verso: “un imprevisto è la sola speranza”.

Versi che dicono una verità fondamentale delle cure: il senso e la direzione della cure e della care, non sono forse sempre l’accompagnare qualcuno lungo questa muraglia montaliana, che esse non possono trasgredire?

Infatti la vita umana è in se stessa traumatica, porta con sé la dimensione del trauma, della ferita, impossibile da eliminare neanche eliminando la vita stessa: questa è una forma del paradosso umano; ma il trauma è anche un concetto relativo, perché non dipende solo dal reale che ci colpisce o contro cui urtiamo, ma anche dalle “attrezzature” simboliche, di significato e di senso, con cui lo affrontiamo: ad esempio basti confrontare la diffusa percezione di traumaticità per i bambini, che c’è oggi a riguardo di minimi incidenti quotidiani sia fisici (sbucciature ecc.) sia sociali (il pugno di un amichetto ai giardini ecc.), o di traumaticità sempre incombente del lavoro o del cibo, rispetto a 60 anni fa, per accorgersi di come le “attrezzature” per affrontare questi eventi del reale si siano ridotte, e di come permetterebbero, se ci fossero, di affrontare le cose.

Che cos’è una qualunque cura umana se non è aiutare il soggetto a lavorare per trasformare ciò che gli fa male senza dimenticare il limite, ciò che è assolutamente impossibile da rimediare – e cioè la morte, o la differenza umana radicale, o la necessità della rinuncia o della cessione di qualcosa, di una perdita, per pagare il prezzo della vita e del desiderio?

Davanti a questo, il curante è uguale al curato: anche lui deve decidere se ciò che propone al curato è un modo (linguaggio, rapporti, ecc.) di prendere in conto l’impossibile da guarire e di costeggiarne la muraglia, oppure se è un modo di proporgli di condividere una fantasia negazionista della muraglia dell’impossibile e del limite, basata sull’ideale di un potenziamento – un perfezionamento? – indefinito.

Come curanti, per noi l’alternativa è se offriamo un qualunque modo di collaborazione o compagnia per anestetizzare, ingannare, dimenticare non il dolore, certo, ma l’inevitabile reale di sé che con il dolore o il disturbo il soggetto ha incontrato, oppure se offriamo una relazione, una compagnia che prenda sul serio l’incontro del soggetto con quel reale, che riconosca la portata essenziale e decisiva che questo ha per l’esistenza (e quindi il destino…) del soggetto (e quindi di tutti gli esseri umani) e che si eserciti nel senso si aiutare il soggetto a fare esperienza non solo sopportabile, ma perfino soddisfacente di quella dimensione della vita umana che di per sé sarebbe impossibile da sopportare, il trauma o la ferita della vita/esistenza stessa come tale.

Solo tener conto del reale dà senso di cura alla cura, perché fa delle strutture limite dell’esistenza la sponda, il punto d’appoggio, la risorsa perché il desiderio non sia vano. Tener conto del reale è l’unica cosa che riabilita il soggetto perché lo fa esistere e permette, con il reale, di prendere sul serio il soggetto. (Piccola notazione clinico-sociale: abbiamo smesso di prendere sul serio il soggetto nel dramma del suo rapporto col reale, ci siamo persi nell’idealizzazione un po’ autistica non tanto del sapere, quanto di performances cognitive: e ci sorprendiamo che proliferino i Disturbi specifici dell’apprendimento.)

Ma chiunque di noi curi, sa che proporre al soggetto una fantasia che neghi il reale è alla fin fine il contrario della cura, della cura medica come di quella educativa e parentale.

La relazione di cura non è una relazione di governo, di amministrazione della vita di qualcuno da parte di un governo che “sa come (si deve) fare”, non nasce dalla proposta di un modo di “funzionamento”: perché la relazione di cura sorge fondamentalmente dall’incontro con qualcuno che ha incontrato qualcosa che non va, che normalmente si trova scartato dai funzionamenti sociali che organizzano le nostre giornate, quello che chiamiamo un male, una sofferenza, e che porta il sofferente a incontrare a sua volta qualcuno per domandargli di prendersi cura di lui e della sua sofferenza.

Ogni relazione di cura, per sua struttura e natura, consiste nell’andare incontro a questo male del soggetto, per il soggetto, che viene scartato dall’ideale di funzionamento tecnoscientifico di oggi: ogni relazione di cura si fonda sull’incontro di quell’umano – il soggetto – che non può prescindere da quel male, che deve passarci attraverso perché la storia della sua umanità singolare passa di lì, si gioca nell’incontro con quel male, e ora con chi potrebbe curarlo. Solo questo restituisce valore al soggetto anche se la sua vita non va.

Il modo amministrativo vigente di trattare le persone incidendo direttamente sulla loro vita, sui loro desideri e sul regime della loro soddisfazione (consumismo + burocrazie), lascia da parte come uno scarto di lavorazione proprio il soggetto che ciascuno è, che sta al cuore della persona propria e altrui, e che non è mai riducibile e risolvibile nel regime sociale degli oggetti di soddisfacimento.

Il soggetto scartato, quando si accorge di essere socialmente identificato ad uno scarto, ci mette poco a sentirsi una merda – come si dice popolarmente – diciamo un minus-valore, un oggetto senza valore, al limite del suicidio un anti-valore, non un bene, ma un male (“a me la vita è male”, Leopardi). Secondo me si può leggere così un certo carattere epidemico della depressione odierna, che sembra sempre lì in agguato sottotraccia della vita quotidiana, appena uno smette un qualunque “funzionamento”. Il modo di vita e di relazioni a cui il soggetto aderisce per vivere in società, è proprio quello che isola e scarta il soggetto all’interno della persona stessa, all’interno di me stesso; è quello che dentro di me isola il soggetto intimo che io sono da tutti i funzionamenti, le performances che il mio personaggio sociale esegue più o meno bene. Di qui la perdita a livello del significato, del senso e anche del sesso – che sono poi i tre “aldilà” della persona: “sazio e disperato” diceva il cardinale Biffi di questo uomo, perché nella sua vita viene soddisfatto tutto tranne il soggetto: i significati sono mediaticamente scontati, i sensi si vendono al supermercato, il sesso insegue l’ideale del “farsi da sé” cercando di bypassare il soggetto con i suoi patemi amorosi.

Un esempio clamoroso di scarto che stacca all’interno della persona stessa il suo essere di soggetto, ce lo forniscono oggi tutti i tentativi di eliminare dai codici deontologici e dunque dalle attività mediche e di cura in genere ogni riferimento alla coscienza e ogni rilevanza diuna coscienza del medico e del curante che non si risolva nell’essere un perfetto e meccanico esecutore di protocolli imposti: e cioè semplicemente uno schiavo, come si sarebbe detto molto tempo fa.

Cura (therapeia): fare compagnia al soggetto davanti all’impossibile 

In tutte queste vicende il soggetto (la coscienza, per esempio) appare sempre come un disturbo, come ciò che disturba il buon funzionamento: appare così sia al punto di vista sociale sia al punto di vista della persona.Ricordiamoci che la questione dei “disturbi”, delle patologie, ha almeno due facce, e quindi anche due modi di essere percepita e trattata: 1) quella del “disturbo di un funzionamento sociale” percepito da chi fa funzionare la società e scrive i DSM, e 2) quella del “disturbo della mia vita personale” percepito da me soggetto titolare del mio corpo, del mio vivere, disturbo percepito nelle mie relazioni con la realtà, con gli altri e soprattutto con me stesso.

È lì che mi posso accorgere che la relazione con me stesso è la relazione con qualcosa di più, che il punto di vista del funzionamento non vede e non sente: il disturbo fa male a me, non al DSM né al medico che lo usa: la mia relazione con me stesso mi fa incontrare e specialmente scontrare con un nucleo reale di me, un livello e una dimensione della mia realtà che non fabbrico da me (è impossibile non dipendere da questo), che non basta la mia immaginazione ad adeguare e sciogliere (è impossibile da sciogliere col pensiero e l’immaginazione), e in cui è impossibile che alcun altro possa intervenire al posto mio, anche se d’altro cantoè impossibile che io possa rimediare da solo, e dunque io non posso rimediare se non con l’assistenza (therapeuein)  di un altro.

Per questo se voglio affrontare questo qualcosa di reale che accade a me, che io ho incontrato dentro la mia vita ed esistenza e che non mi ha chiesto il permesso di esistere, io non posso che domandare all’altro una relazione in cui non mi lasci solo davanti a questo reale: l’altro può certo operare in qualche modo direttamente sul mio male (infatti può anche ammazzarmi), ma non può sostituirsi a me realmente (è impossibile) e quindi può solo fare compagnia a me nel mio elaborare, pensare, il mio rapporto con questo reale che ha sempre un nucleo di inguaribile, di non risolvibile, che non si può rendere non avvenuto.

Perciò sono convinto che la condizione clinica del soggetto, il disturbo del pathos, a partire da quando si fa domanda all’altro, sia una condizione privilegiata per fare esperienza della realtà umana in tutte le sue dimensioni: l’alternativa però sta nel tipo di relazione che noi offriamo a questo sofferente che domanda a noi qualcosa che neanche lui sa fino in fondo (e in parte ci domanda implicitamente qualcosa di impossibile: infatti chi chiede una cura di per sé chiede implicitamente che la cura stessa lo riporti a prima del male, allo stato quo ante, lo riporti a prima del momento della vita in cui si è trovato davanti al bivio, in cui ha dovuto fare i conti con qualcosa di reale che non avrebbe dovuto esserci. Ma per l’essere umano è impossibile questo tornare all’inizio, evitando così di assumere come proprio ciò che gli è accaduto. Implicita nella domanda di cura c’è sempre tendenzialmente anche la domanda di cancellare, di abolire quel suo incontro col reale irrimediabile: è quella che a volte ci fa apparire il “dimenticare” come una soluzione possibile.

Ma insieme a questo il soggetto nella sua domanda di cura chiede al curante, a noi,di esserci per lui, di dargli dei segni che è lui che ci importa, cioè dei segni d’amore. Ecco l’importanza del fatto che uno si renda conto di quanto c’è di impossibile in ciò che chiede, non per smettere di chiederlo, ma perché la sua domanda lo porti davvero da qualche parte, e non si fissi in una ripetizione lamentosa e alienata: in altre parole, perché trovi una soluzione che sia davvero per il soggetto una soluzione reale, in cui poco o tanto trovi certezza e pace.

La medicina oggi (nei paesi ricchi ovviamente) sta abbandonando il paradigma della cura – therapeuein, therapeia, compagnia e aiuto al soggetto nel suo rapporto col reale traumatico della vita sulla base di un rapporto con l’aldilà della vita stessa – per spostarsi sempre più su quello dell’enhancement, il “miglioramento” o “potenziamento” delle performances. Solo che le performances si misurano ovviamente secondo gli ideali sociali del momento: e oggi sono gli ideali del far arretrare sempre più il confine con l’impossibile della vita, con l’irrimediabile, di eliminare l’impossibile dalla vita eliminando così il reale come fattore essenziale dell’esistenza umana.

In questa eliminazione – che è solidale della soppressione del soggetto di cui dicevo prima – la medicina tende a seguire tutto il mainstream ideologico (esito a dire culturale, perché la cultura ha sempre un rapporto col reale, se no è pura vanitas o come si dice oggi virtualità) tutto centrato nell’affermazione assiomatica dei “diritti”: i nuovi diritti sono un esempio evidente di come si sogna di far esistere una società fondata sulla negazione del reale conseguente alla perdita o rinuncia a ogni simbolico condiviso che permetta di affrontarlo e di tenerne conto. (A quando i processi che gli eredi superstiti intenteranno allo stato per aver lasciato che sorella morte violasse il diritto a non morire che il defunto aveva?). Non è difficile notare a questo punto che oggi ogni “diritto” si risolve sempre al fondo nel diritto a non fare i conti con qualche impossibilità reale, diritto concesso da un Altro sociale incapace di garantirne la soddisfazione che promette, in quanto impossibile.

A differenza delle relazioni fondate su un diritto – basate sempre al fondo si una rivendicazione all’Altro, tanto disperante quanto invidiosa – la relazione di cura come cura del soggetto mobilita la dimensione dell’amore e del dono, perché si svolge tutta sul piano dei segni d’amore: il dono è un segno, se non è un segno è solo trasferimento o spostamento di materia o di immagine. La sua gratuità non obietta alla struttura dello scambio che il dono introduce: perché ogni dono esiste all’interno del dono primordiale che è la parola, il logos, senza il quale non esisterebbero segni: e dunque la gratuità di un dono iniziale è sempre risposta, impossibile scambio, al dono primordiale.

Ma il soggetto può lui stesso prendersi cura della sua esistenza e farne esperienza solo nella misura in cui guarda aldilà, quell’aldilà che solo il logos gli permette di evocare, anche e soprattutto di fronte ad un disturbo: ma per fare questo ci vuole il rapporto con un partner adeguato al quale poter indirizzare la domanda: “ed io che sono?”: un partner reale, che possa rispondere più di quanto possa farlo la luna al pastore di Leopardi, solo di fronte al tedio che lui vive come il sintomo fondamentale della sua vita umana.

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