Vivere malgrado l’imperfezione: i bisogni e le cure – Matilde Leonardi
Matilde Leonardi – MD Neurologo, Pediatra, Responsabile SOSD Neurologia, Salute Pubblica, Disabilità IRCCS Istituto Besta, Milano
Correspondence to: leonardi@istituto-besta.it
To cite: M. Leonardi – Vivere malgrado l’imperfezione: i bisogni e le cure JMP 2017;1:16-19
La cura tra biomedicina e medicina clinica
Nell’ambito della salute è in corso un cambiamento globale, quasi una rivoluzione, legato sia all’invecchiamento della popolazione e al conseguente allungamento della aspettativa di vita, che all’aumento delle malattie croniche disabilitanti. I sistemi sanitari nei paesi continuano a spendere e ad investire, ma i costi sembrano non riuscire a rispondere pienamente alla sempre crescente domanda di cura che emerge dalle popolazioni. Il modello dominante in medicina oggi è il modello biomedico, che potremmo anche definire modello fisico-biologico. La griffe di scienza viene data oggi a tutto ciò che è “bio”, alla genetica, alla proteomica, alla medicina molecolare, una griffe di scienza superiore nella vulgata comune rispetto ad altri tipi di approccio. La biomedicina, sia chiaro, ha dato risultati straordinari ed irrinunciabili, di cui siamo sia protagonisti che testimoni. Ed è innegabile che solo in pochi paesi al mondo vi siano ancora casi di poliomielite, o che abbiamo vinto la lebbra o che in molti paesi assistiamo al progressivo invecchiamento della popolazione, che nonostante sia vissuto come un problema, economico e politico, è un grandissimo successo della medicina. Ma ci sono degli scenari globali, emersi negli ultimi anni, che hanno portato a ridiscutere quanto sembrava certo che negli anni della nostra ricchezza, quelli che hanno preceduto la crisi del 2009. Il modello biologico puro, la biomedicina, nei nuovi scenari globali non funziona, proprio nei tipici scenari epidemiologici cui ci affacciamo grazie alla medicina. L’Italia è il paese più vecchio del mondo,dopo il Giappone, e le donne sopravvivono circa 2 anni e mezzo in più degli uomini, cioè hanno una aspettativa di vita di 87,5 anni rispetto a 85. Ma rispetto ad un bambino che nasce ora a Milano, con un’aspettativa di vita di 85 anni, un bimbo che nasca ora in Angola, a 6 ore di aereo di distanza, ha un’aspettativa di vita di 58 anni di meno! Parliamo di globalizzazione pensando che questa ci renda tutti uguali, in realtà non è così per il bimbo dell’Angola rispetto a un italiano. La valutazione dello scenario globale è però interessante perché la decadenza fisiologica del nostro corpo è uguale in tutti i paesi del mondo, anche se può iniziare in momenti diversi a seconda del Paese. Nell’ambito del progetto europeo di ricerca COURAGE in Europa, una ricerca da me coordinata sui determinanti di salute e disabilità nell’invecchiamento svolta in Finlandia, Polonia,e Spagna, rappresentanti il nord, il centro e il sud Europa, abbiamo visto che la perdita di funzionamento, la tendenza a invecchiare del nostro corpo, anche come fenomeno quasi fisiologico esaminabile con vari parametri, avviene in tempi e modi sostanzialmente omogenei,e questo dato rimane stabile anche quando viene fatto un raffronto con paesi in via di sviluppo. Ma in questo scenario di invecchiamento e di cronicizzazione emergono i limiti della biomedicina e di un modello di cura che deve essere ridefinito. Quali sono questi limiti? Quello ad esempio in cui l’uomo malato è visto come una macchina guasta in cui si ripara il guasto e tutto torna a posto. Questo modello funziona se l’agente patogeno è estraneo all’organismo, e quanto più questa causa è estranea tanto più può essere trovata ed eliminata. Gli esempi classici in questo senso derivano dall’infettivologia: vi è un agente patogeno e la cura consiste nell’eliminarlo attraverso una cura farmacologica. Tutto è cristallizzato in un atto. Il concetto dell’atto medico si esplicita, quindi,come un atto realizzato in uno spazio. Ma questo ci fa dimenticare che la malattia è tempo. Un altro scenario che mette a dura prova il modello biomedico è quando la malattia nasce da squilibri, come nel caso delle malattie autoimmuni, quando il self riconosce il corpo come non self, il corpo non viene riconosciuto come proprio. Ugualmente per le malattie degenerative, e in particolare neuro-degenerative come la demenza, ove alcuni tessuti smettono di funzionare perché c’è un processo di degenerazione in atto. Dove sta la patologia, come curare in questi casi? Noi curiamo regolando il sistema ma non conosciamo i meccanismi e certo non guariamo nessuno con la malattia di Alzheimer. Nonostante i progressi della medicina curiamo ma, senza conoscere i meccanismi, torniamo a un modello di cura precedente, perché il modello biomedico non è utilizzabile, è messo in crisi dalle patologie emergenti nel nuovo scenario, torniamo cioè a un modello di medicina clinica ottocentesco, – clinica deriva dal greco klinéin, cioè chinarsi – in cui ci si poteva “chinare” sul malato ma non necessariamente guarirlo.
Medicina e cura come arte del tempo
Paradosso della scienza, per cui bisogna rivalutare la medicina come arte del tempo e non come disciplina dello spazio! Arte del tempo, cosa, tra l’altro, tutta da discutere con i nostri amministratori, se il tempo della pratica medica è regolato dal calcolo dei tempi medi di visita! In questo confronto tra l’atto medico definito in uno spazio e la malattia, che è la massima esemplificazione di ciò che è il tempo, si può osservare che il paradigma biologico della malattia e la metafora dell’uomo malato come macchina guasta, vanno ad oscurare l’importanza della medicina come medicina clinica, cioè una medicina del tempo, riducendo l’investimento umano ed economico sulla medicina clinica in modo considerevole a favore di una medicina, la biomedicina, in grado di curare i guasti con interventi puntuali, interventi che si esauriscono in uno “spazio”. Una medicina che cura, oggi, richiede una nuova e ampia definizione del concetto stesso di cura che ha una traduzione legislativa e socio-assistenziale nel concetto di “presa in carico”. Tale traduzione trova il suo terreno teorico nella produzione scientifica e filosofica, nazionale e internazionale, sul tema dell’etica della cura. In tale dibattito la cura è intesa sia come quel concetto, sia come quella prassi che permette di rispondere ai reali bisogni e diritti delle persone, da un punto di vista antropologico, etico, legislativo e politico. Possiamo definire la cura nel modo seguente: il tentativo di rispondere alla vulnerabilità, alla costitutiva dipendenza che caratterizza la condizione umana in quanto tale, al fine di promuovere la dignità della persona umana a partire dalle differenti condizioni di salute in cui si trova, in modo da evitare che una particolare condizione di salute possa costituire un criterio di esclusione dalla tutela dei diritti umani fondamentali (Pessina 2015). Una tale concezione della cura rappresenta uno strumento fondamentale al fine di superare il modello esclusivamente medico di salute e implementare il modello biopsicosociale nella gestione e cura delle persone con malattie croniche e disabilità. In questo senso il concetto di “presa in carico” rappresenta un’ottima traduzione, a livello sia delle prassi sanitarie e socio-assistenziali, sia della produzione legislativa, del concetto etico e antropologico di “cura”. La medicina clinica, del chinarsi sulla persona, con i mezzi empirici che bisogna trovare per ogni singola persona, è agli antipodi quindi dei concetti della medicina biologica e biomedica. Oggettività e predittività sono i concetti su cui le scienze moderne si basano, per questo la medicina clinica sembra essere schiacciata, inferiore rispetto alla medicina biologica. Ci sono ragioni e limiti storici nel modello biologico che oggi schiaccia il modello clinico. Uno è indubbio: la medicina viene incasellata tra le discipline scientifiche. Ma qualora ci si sposti dalla medicina biologica alla medicina clinica è come se venisse messo in dubbio che quest’ultima sia veramente scienza. L’interazione medico-paziente, lo sanno bene coloro che la praticano, talora sfugge a una catalogazione oggettiva, benché la relazione medico paziente funzioni, anche se ben lontana dalla matematizzazione, dalla generalizzazione, da ciò che è oggettivabile tipico invece della medicina biologica e non della clinica. Medicina clinica allora come espressione della cura e definita dal prevalere del tempo.
Il tempo della malattia e il tempo della vita
Ma come dare senso alla vita umana e al tempo della vita, in cui la dipendenza diventa una dimensione costitutiva del vissuto quotidiano? La questione non riguarda solo il malato, ma riguarda tutti noi come curanti, come persone. Ci riguarda come familiari dei malati, come amici, come ospiti della stessa casa di cura, il fatto di dare senso al tempo della malattia. Ma questo tempo coincide con il tempo della vita e così diventa un problema dominante anche per la cura. In un contesto culturale in cui si esalta l’indipendenza e l’autorealizzazione, c’è il rischio di imbattersi in forme di impazienza e insofferenza di fronte a situazioni in cui la condizione umana è messa alla prova dai tempi lunghi della malattia, della dipendenza, della relazione talora forzata. La dipendenza all’interno di questo tempo diventa un elemento estremamente importante. Dipendenza che viene vista nella società attuale in negativo, in antitesi con l’autonomia. La dipendenza, a ben vedere, può essere letta in modo bidirezionale, perché nella dipendenza c’è sempre una reciprocità tra chi dipende e colui da cui si dipende, così che si può leggere in due direzioni, dalla parte di chi si occupa e dalla parte di chi è preso in carico. Quindi il benessere anche di chi si prende cura non è irrilevante in questa situazione. In questo senso affrontare il tema della cura leggendolo con gli occhiali della cura della persona con disabilità, significa anche affrontare sia le caratteristiche dell’ambiente dove le persone che hanno bisogno di cura vivono il loro tempo, sia l’atteggiamento di chi cura. Come si cerca di dare senso al tempo? Le persone con una malattia cronica o una disabilità essenzialmente necessitano di una relazione in cui i bisogni dell’altro sono l’occasione per comprendere i nostri bisogni e viceversa. È importante essere consapevoli della relazione palindromica tra curante e curato: solo capendo questa relazione si può dar senso al tempo, della malattia e quindi della vita stessa. Si apre qui un altro conflitto, oltre a quello tra medicina biomedica e clinica o tra spazio e tempo, che è quello tra prestazione e relazione, che sono messe in competizione tra di loro. Solo una critica del modello medico dominante, e di formazione universitaria connesso, capace di tornare dalla prestazione alla relazione potrà invertire la tendenza. La persona infatti è portatrice di dignità e diritti in ogni fase della vita e in ogni condizione di salute. Un grande scienziato che scopre il gene: solo lui è ritenuto il grande scienziato. Il grande medico clinico che cura per tutta la vita chinandosi sulle singole persone non è destinato ad essere famoso, anzi è percepito come meno prestigioso a livello scientifico e questo è avvenuto man mano che la medicina biomedica ha fatto perdere la status di scienza alla medicina clinica. Paradossale, in quanto oggi siamo in un momento in cui proprio dal punto di vista epidemiologico emerge il forte bisogno di qualcuno che sappia chinarsi e stare con il paziente, perché non siamo in grado di riparare il guasto dalle macchine-uomo di cui ci dobbiamo occupare. Il che riguarda la maggior parte delle persone, dato che oramai in molti paesi non c’è più solo la terza ma è ben presente la cosiddetta quarta età, quella che va dai 75 ai 90 anni. Fasi di vita con bisogni totalmente diversi: la decadenza fisica, è un fenomeno comune, fisiologico, su cui la medicina biomedica appare in difficoltà. Questo modello biomedico, foriero di tanti successi, è la speranza per tutti noi di poter in vari campi trovare una cura investendo nella ricerca e non è giusto dire che la medicina biologica da sola non serva, ma d’altra parte occorre allargare il modello di cura oggi dominante, se no si finisce per pensare che in medicina ci siano i bravi e i buoni. Non riconoscere alla medicina clinica lo status di scienza, legato anche letteratura medica e alla formazione accademica, sta determinando una divaricazione netta tra i bravi, cioè coloro che si occupano della bioscienza, e i buoni che si occupano della clinica o della riabilitazione. Come dice Luigi Tesio nel suo libro “I bravi e i buoni, perché la medicina clinica può essere una scienza” (Tesio 2015) c’è un declino della medicina clinica, che però è inspiegabile rispetto al reale bisogno di salute delle persone oggi, in uno scenario in cui è sempre in aumento il numero di malattie cronica. Il termine “cronicità” non definisce il quadro clinico di riferimento ma, solo, il decorso temporale di una malattia. Non va interpretato in forma rigida e non soltanto per l’impatto devastante che ha per la famiglia. Infatti il termine “cronicità” molto spesso non evoca la necessità di accompagnamento, condivisione, presa in carico, ma molto più semplicemente rimanda a termini come “parcheggio”, “attesa di fine vita” e tutte la terminologia che i media possono coniare nelle definizioni di “non mondo”, “non vita” o “altro”. In una prospettiva di equità tra cittadini, e di riduzione dello svantaggio, risulta quindi fondamentale porre l’accento sulla necessità di assicurare a tutte le persone con malattie croniche e grave disabilità, tra cui sono paradigmatiche le persone con disordini della coscienza, il pieno ed eguale godimento dei fondamentali diritti umani, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità, in linea con quanto definito anche dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (Legge 3, marzo 2009, n. 18). Concentrare sempre maggiori sforzi nei confronti delle fasce più vulnerabili della popolazione è la prassi necessaria per garantire l’equità di cura per tutti e si declina quindi in una maggiore attenzione che deve essere rivolta anche nei confronti delle persone che sono paradigmatiche della cronicità e della disabilità, come quelle con diagnosi di Stato Vegetativo e di Minima Coscienza, persone che sono in uno stato che viene definito di basso funzionamento e con un grande bisogno di facilitatori ambientali, in base al modello biopsicosociale della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Salute e della Disabilità, ICF, dell’OMS. Tale modello biopsicosociale di salute e disabilità chiarisce come sia fondamentale il ruolo giocato dall’ambiente, e da tutti i fattori ad esso riconducibili, al fine di garantire buoni livelli di funzionamento e di qualità della vita di queste persone. Disabilità infatti è l’aspetto negativo dell’interazione tra un individuo, con una determinata condizione di salute, e i fattori contestuali di quell’individuo (fattori ambientali e personali).
La medicina biopsicosociale e la “Teoria del malgrado”
Questo terzo modello di medicina, che non è quello biomedico né quello clinico, e che vede quindi la persona nel suo complesso, è definito come modello biopsicosociale. Si tratta di un modello in cui la persona è vista nell’ambiente in cui è, e in cui tutte le relazioni tra persone e ambiente, tra facilitatori ambientali e barriere ambientali, possono essere lette come un nuovo modo di vedere la medicina e di dare la cura. Nel modello biopsicosociale è quindi l’interazione con l’ambiente che determina il funzionamento o la disabilità di una persona. Il processo di cura allora, nel suo complesso, diventa il fattore ambientale che può essere facilitatore, se ben programmato ed efficiente, o barriera, se carente e frammentato. Si può affermare che a un bisogno, potremmo dire a un “diritto alla cura”, dettato dalla necessità di rispettare la dignità delle persone con malattia cronica disabilitante e i bisogni dei loro familiari, deve corrispondere un “dovere di presa in carico” da parte delle istituzioni. Ma questa presa in carico può essere efficace solo se si considera la persona nel suo complesso, nel suo ambiente. La biomedicina ci permetterà di studiare, ad esempio, una paziente con una forma di grave artrite ed evidenzierà tutte le sue disfunzioni nella sua capacità di mobilità, di movimenti fini o di stabilità delle articolazioni. E il modello clinico guarderà anche la capacità della persona di far qualcosa con le sue mani. Ma solo con il modello biopsicosociale, inserendo la paziente con artrite nel suo contesto, noi sapremo che ciò che è importante per questa donna è, ad esempio, il suo ruolo di nonna verso i suoi nipotini. Qui introduciamo la “Teoria del malgrado”, definita dal filosofo Adriano Pessina a partire dal 2010, che è legata al fatto che il ruolo di questa persona è importante malgrado abbia l’artrite, in quanto il suo essere nonna non è eliminato dal fatto di avere l’artrite, o che le sue articolazioni sono oggetto del nostro studio biomedico. Oltre all’attenzione medica e clinica, ciò che noi dobbiamo guardare è ciò che interessa fare alla signora. Il suo diritto è poter dire cosa è importante della cura per lei, per la sua vita. In tutte le fasi della loro esistenza le persone detengono diritti, come ci ricorda la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, e tutti appartengono alla famiglia umana in forza del loro esistere, del loro esserci, del loro venire al mondo. Si potrebbe dire, per chiarire quali diritti ha una persona malata o disabile, che i diritti non competono solo alla persona adulta in grado di intendere e volere. Qui faccio una chiosa: ho lavorato per molti anni per l’OMS, di cui sono tuttora consulente esperto, e mi sono occupata a lungo della classificazione della disabilità. Nel 2005 l’ONU decise di fare la Convenzione per i diritti della persone con disabilità e io partecipavo per l’Italia alla scrittura del nostro contributo per la convenzione ONU. Ci fu allora un grande dibattito riguardo al titolo “Persone con disabilità” e i paesi scandinavi fecero aggiungere “incluse le donne i bambini”, perché in moltissimi paesi se i disabili erano donne o bambini non avevano lo statuto giuridico di persona e questo implicava che se le persone con disabilità se erano donne o bambini,non avevano diritto alle cure, ad andare a scuola, ad esistere. Paesi non lontani da noi in cui bisogna ancora lottare per questi elementari diritti!Le persone non hanno diritti in quanto disabili o malate, quasi che la disabilità o la malattia siano un titolo di merito, ma hanno diritti malgrado siano disabili o malate. In tal modo, attraverso la “teoria del malgrado”, introduciamo l’affermazione del diritto della persona in quanto tale, in qualunque condizione. Così evidenziamo che ognuno deve essere curato in relazione alla propria malattia o disabilità, possibilmente per eliminarle, ma non sono esse l’oggetto da focalizzare: la chiave di lettura è il malgrado. Il malgrado ci segnala che ciò che è apprezzabile è l’umano e le mancanze o le privazioni non offuscano mai il valore dell’umano! Di qui devo partire, dal valore dell’umano, a prescindere dal livello di funzionamento, per valorizzare tutta la potenzialità che c’è, per incrementare le abilità e le relazioni possibili. Il dovere di presa in carico, dal punto di vista morale, è incentrato sul valore e sulla dignità iscritti nella nuda qualità di essere uomini, nonostante le possibili differenze di classe, religione, ceto sociale, reddito, e nonostante le differenti condizioni di salute o malattia o di funzionamento. Si tratta di quella logica morale che Adriano Pessina ha efficacemente chiamato “il valore etico del malgrado”. Pessina, nel suo libro “Eutanasia. Della morte e di altre cose” scrive: «..il valore della persona malata, dipendente, inferma, trascende, in termini morali, la sua condizione clinica o fisica. Per questo è legittimo porre una distinzione concettuale tra rassegnazione e accettazione della malattia e della morte: la rassegnazione nega, infatti, che il nucleo del valore risieda nella persona malgrado sia malata, disabile, inferma, morente. Questo malgrado indica che non è la malattia, la morte, la disabilità la fonte del valore (perché malattia, morte e disabilità non sono valori e vanno umanamente combattuti e contrastati), ma risiede nel nucleo personale della singola esistenza umana». Come Direttore del Centro Ricerche sul Coma della Fondazione Istituto Neurologico Besta di Milano mi occupo dal 2008 di persone in stato vegetativo o in stato di minima coscienza e leggo sempre come sfida personale questa affermazione di Pessina. Ogni giorno con i miei collaboratori lavoriamo con persone con disturbi della coscienza, nell’ambito delle nostre ricerche abbiamo raccolto 670 casi in Italia, trovando anche persone tenute in casa in stato vegetativo da 20 anni, e di ogni persona, malgrado sia in stato vegetativo,cerco di riconoscerne le potenzialità, anche se questo richiede fatica: ma la fatica fa parte della realtà. Questi malati sfidano la scienza poiché la conoscenza della coscienza, tuttora un mistero del cervello che sfida le neuroscienze moderne, impone uno sguardo scientifico e umano che sappia cogliere al di là di quanto vediamo.
La dignità dell’essere solo una persona umana e l’importanza delle relazioni
La “teoria del malgrado” dà la prospettiva con cui affrontare senza ipocrisie il tema della malattia e della disabilità e integra l’impostazione presente della medicina nei temi dell’etica della cura. Si tratta, utilizzando la teoria del malgrado, di evidenziare che la dignità umana appartiene integralmente all’uomo in quanto tale, malgrado sia malato, malgrado sia incapace di intendere e volere, malgrado sia limitato anche completamente nelle sue capacità. Questa teoria ci porta a porre la dignità dell’uomo non nelle sue capacità o qualità, che sono variabili e destinate a declinare man mano che invecchiamo, ma nella sua qualità fondamentale, quella di essere solo un uomo. Solamente con tale impostazione i malati tornano ad essere persone, la disabilità cessa di essere una variante antropologica e torna ad essere pensata per quella che è, una condizione storica. La malattia è una condizione storica dell’uomo, che come tale non rappresenta un valore o un bene, ma qualcosa che deve essere ridotto, contenuto, combattuto e se possibile risolto. Allora nessun discorso sulla disabilità o sulla malattia delle persone è utile se non si tiene conto delle persone in quanto tali. Disabilità e malattia sono un problema successivo: senza questo presupposto si pensa sempre alle persone con disabilità o malattia come altro dall’essere umano. E se esse rimangono un problema degli altri noi non riusciremo mai a comprendere che sono una parte costituente della complessità dell’essere uomo. Affermare che uno è degno di rispetto, di tutela, di cure, detentore di diritti, non perché disabile ma perché persona, malgrado malattia o disabilità, significa chiarire una volta per tutte che non c’è niente di amabile nella disabilità come tale, ma che si tratta dell’uomo concreto malgrado i suoi limiti. È il corpo dell’uomo concreto, quel corpo che è di fatto lui, che è degno di rispetto incondizionato. In un mondo in cui i bisogni di salute aumentano a causa dell’invecchiamento della popolazione, della transizione epidemiologica, della cronicizzazione delle malattie, è necessario ridefinire la cura, la salute, la disabilità delle popolazioni secondo il modello biopsicosociale e partendo dalla “teoria del malgrado”. La valutazione economica sola, infatti, rischia di essere il principale motore del processo di cura e per introdurre elementi diversi, politici, gestionali, etici, si deve fortemente riaffermare il diritto di ogni paziente ad avere una diagnosi precoce e corretta, un trattamento appropriato e mirato e, se necessario, una presa in carico che supporti tutto il percorso di malattia. Tutto questo deve essere garantito malgrado la severità della condizione clinica. Il senso etico della cura allora è definito dal privilegiare il tempo della malattia, il tempo della disabilità, della fragilità, della dipendenza, e quindi l’essenza della nostra condizione umana, rispetto allo spazio della prestazione. Un tempo che si esige, si deve saper esigere, chiedendo alle persone che lavorano per e con le persone malate di malattie croniche, di saper essere facilitatori e non barriere. Il malgrado ci ricorda infine che ciò da cui dobbiamo partire per progettare il tempo della malattia, della fragilità, della disabilità, come tempo della vita, è dato dalle relazioni significative. Relazioni che sanno cogliere, anzitutto, il valore della persona umana in quanto tale, la nuda qualità dell’essere solo un essere umano.
Bibliografia
Leonardi M. (2010), Nuovi paradigmi nella definizione di salute e disabilità. La Classificazione ICF e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. In: Paradoxa. Ed. Vita e Pensiero pp 11-35
Leonardi M. (2016), Invecchiamento e disabilità nella ricerca, nella clinica, nella politica e il progetto nazionale DOSAGE. In: Persone con sindrome di Down e Invecchiamento. Aspetti medici, sociali, politici, etici a cura di Venusia Covelli e Matilde Leonardi. Ed.Libellula.Pp.127-137
OMS (2001), ICF-Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute. Ed. Erickson edizioni, Trento.
Pessina A.(2007), Eutanasia. Della morte e di altre cose. Cantagalli editore
Pessina A. (2010) (a cura di), Paradoxa. Etica della condizione umana. Vita e Pensiero.
Pessina A. (2016), L’Io insoddisfatto. Tra Prometeo e Dio. Vita e Pensiero
Tesio L. (2015), I bravi e i buoni, perché la medicina clinica può essere una scienza. Pensiero scientifico editore.
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