Introduzione alla sessione parallela 2 – Stefano Parenti
Stefano Parenti. Psicologo Psicoterapeuta, Milano
Buongiorno a tutti. Oggi proviamo a fare un esperimento, vediamo se riesce. Proviamo ad utilizzare questa sessione per aiutarci ad andare a fondo di un aspetto della cura integrale che è a tema in questo convegno, addentrandoci nell’ambito più propriamente umano di ogni paziente, la sua domanda di senso. È una questione che, mi pare di poter dire almeno per l’ambito psicoterapeutico, è stata confinata ai margini degli interventi, focalizzati quasi esclusivamente a guarire il dolore, secondo un modello medico di restitutio ad integrum oppure secondo un relativismo che sostanzialmente dice: “se ti piace [il piacere è il contrario del dolore] allora fa bene e non farti altre domande”. Pochi si sono addentrati a capire il senso del dolere, e la maggior parte di questi pochi hanno ridotto il tutto a pulsionalità, biologismo, evoluzionismo. Ci avventuriamo a parlare della domanda di senso, inoltre, da una prospettiva particolare: vogliamo capire qual è il contributo (se ce n’è uno) dell’esperienza cristiana, la quale possiede un’idea molto chiara e definita di quale sia la forma della domanda principale, originaria, ed anche la risposta agli interrogativi ultimi dell’uomo; il contributo dell’esperienza cristiana sul senso all’interno degli ambiti che ci riguardano, ovvero quelli della terapia.
Per rendere più chiare queste parole che potrebbero sembrare ostiche a molti (e se lo sono la responsabilità è solo mia), abbiamo invitato due ospiti: il primo è il dottor Domenico Bellantoni, psicoterapeuta di Napoli, professore all’Università Salesiana, docente di logoterapia e studioso del contributo di Viktor Frankl alla psicoterapia. Frankl, lo ricordo, è il famoso “psicologo nei lager”: ebreo, psichiatra, sopravvissuto allo sterminio, nel dopoguerra si è reso conto che la psicoterapia sino allora delineata – specialmente da Freud, da Adler e dalle correnti americane – si limitava ad una parte dell’uomo, dimenticandosi – o meglio, negando – l’esistenza e quindi la “cura” della “parte” spirituale, noogena come diceva lui, cioè legata alle domande di senso, alle domande ultime dell’uomo, potremmo anche dire agli aspetti metafisici della persona, l’intelletto che ha sete di verità e la volontà che ricerca il bene. È per questo suo approfondimento della logoterapia oltre che per amicizia che lo abbiamo invitato qui; è anche autore di diversi libri molto interessanti, due su Frankl e la sua psicoterapia, uno sull’identità di genere – di cui si ha molto bisogno visto i tempi – uno recente sulle ansie e le paure. Grazie Domenico per essere qui. E poi il dottor Carlo Alfredo Clerici, medico e psicologo clinico, già professore all’Università Bicocca (quando lo conobbi per la prima volta, tanti anni fa…per poi ritrovarlo qui, su questa strada…nulla succede per caso!), è dirigente medico nel reparto di pediatria oncologica presso l’Istituto Nazionale dei Tumori, Fondazione IRCCS. Il dot. Clerici è anch’egli autore di diverse pubblicazioni, una sulla psicologia clinica in ospedale, una sulla psicologia della salute assieme alla dot.sa Ripamonti, ma soprattutto ha partecipato ad una interessantissima ricerca assieme a don Tullio Proserpio, cappellano dell’Istituto, che ha voluto valutare quantitativamente – se così si può dire – il ruolo della speranza nelle cure: quanto la dimensione religiosa porti speranza quando si vive una malattia molto grave, e quanto questa speranza modifichi il modo di vivere la malattia e magari anche il suo decorso. Un tema che i più aficionados riconosceranno come una delle pietre angolari – se non “la” – pietra angolare degli operatori psicosociali di Medicina e Persona. Alla speranza abbiamo dedicato un intero convegno, La speranza e la cura, nel 2008 ad Abano Terme. Ringrazio anche te Carlo per essere qui.
Bene, come avrete notato io sono la “scamorza” in mezzo ai due ingredienti prelibati, o come si dice qui a Milano la scarpa…come quando vai ai concerti e prima del gruppo principale ti ritrovi…le mezze cartucce, le scamorze…quindi il buon senso pretenderebbe che io passassi subito la parola ad uno dei due relatori. Vi chiedo, invece, di sopportarmi ancora qualche minuto, perché vorrei raccontarvi come siamo giunti a questo momento e proporre a tutti una riflessione da cui partire.
Questo incontro è il frutto di un lavoro di un gruppetto di amici che dopo l’ultimo convegno ha deciso di riflettere sulla propria identità di cristiani impegnati nella psicoterapia. Lo abbiamo chiamato il gruppo “psicoterapia e senso religioso”. Ci siamo incontrati una volta al mese circa, prendendo come guida il testo di Giussani sul Senso religioso. Dal confronto vicendevole sono emersi tanti aspetti interessanti, talvolta anche contrastanti, poiché i punti di osservazione sono diversi, pur facendo lo stesso lavoro, così come sono diversi i linguaggi e le cornici concettuali. Le differenze hanno alimentato sia confronti dialettici, anche radicali, sia vicendevoli arricchimenti. L’amicizia che ci lega ci ha permesso sino ad ora di utilizzare le differenze come arricchimento piuttosto che come ostacolo. Siamo ancora in corsa, tutt’altro che giunti ad un punto d’arrivo, e questo incontro lo abbiamo voluto proprio come tappa lungo la nostra strada, per addentrarci sempre meglio in questo territorio poco esplorato.
Desidero raccontarvi la mia prospettiva su questo lavoro. È da diversi anni che studio ed approfondisco il rapporto tra la psicoterapia, la psicologia, e il cristianesimo. Sono partito, sin da quando frequentavo l’università, perché mi ritrovavo insoddisfatto delle cose che studiavo e delle persone/professionisti che mi circondavano. In particolare vedevo e vivevo una forte scissione, come quella ben descritta dal mio amico Roberto Marchesini, che si può sintetizzare cosi: psicologo in studio, cristiano nel resto della vita. Cioè, una divisione netta tra le verità della fede, tra l’esperienza di fede, da una parte, e la professione dall’altra. Come se i due ambiti non c’entrassero affatto l’uno con l’altro, compartimenti stagni. Ma il sospetto invece che c’entrassero veniva alimentato da due fattori. Il primo: che molte delle verità della psicologia, in particolare della clinica che è il mio ambito principale, erano difformi dalla ricchezza umana e intellettuale che vivevo nella Chiesa. Un esempio su tutti: il determinismo freudiano. Ma anche il selfismo – come l’ebbe chiamato Paul Vitz – delle correnti americane. Il mio primo “amore” fu proprio per la psicologia di un americano, Carl Rogers, il quale in alcuni dei suoi scritti enfatizzava considerevolmente degli aspetti apparentemente molto cristiani, quali la libertà, l’accettazione del paziente, addirittura l’agape come modo di essere del terapeuta, ecc. Solo molti anni dopo, grazie allo studio ed al paragone con l’antropologia cristiana ho capito che la libertà, a cui mira Rogers, non è la vera libertà: la sua è una istintività, una sensorialità, che non tiene conto dell’intelligenza dell’uomo e soprattutto della pratica delle virtù; la libertà rogersiana è una schiavitù, mentre, proprio come anni dopo ho sentito dire a Frankl, l’attuazione pratica della libertà è la responsabilità – in perfetta linea di continuità con Giussani il quale parla di obbedienza. E come secondo fattore del fatto che vita di fede e psicologia c’entrano l’un l’altra, l’esempio proprio di Giussani, il quale con l’amico Manfredini si chiedeva, sulle scale del seminario che da adolescenti frequentavano a Venegono, cosa centrasse la fede con la matematica. Ed io mi chiedevo cosa centrasse la fede con la psicologia. Giussani – non c’è bisogno di approfondirlo in questa sede – intendeva che la fede c’entrava con tutto, anche con la matematica e quindi anche con la psicologia. La maggior parte delle proposte di unità tra vita cristiana e psicologia che ho trovato si sono dimostrate per me insoddisfacenti. C’era chi diceva che la fede c’entrava con la psicologia solo attraverso la morale: la cosiddetta psicoetica di cui si è molto parlato, ad esempio: fare le fatture, pregare per i pazienti. Tutte cose vere e giuste, ma parziali e, quindi, per me insoddisfacenti. Altri, proponevano battesimi arditi di autori il cui pensiero è tutt’altro che cristiano, quali Freud, Rogers appunto, Jung, Fromm, Berne, ecc. Altri ancora, con delle fondamenta ben più solide, sostengono invece che la filosofia della Chiesa, o meglio, la filosofia usata dalla Chiesa e quindi la più adatta a comprendere al meglio la realtà dell’uomo, possa essere quel fondamento su cui edificare la teoria e la pratica di una psicologia non ridotta. Mi sono così interessato per anni al confronto tra le antropologie sottese alle varie correnti di psicoterapia e l’antropologia cristiana, secondo quanto abbiamo sentito dire allo scorso convegno dal professor Martin F. Echavarria: «Anche se poche volte viene riconosciuto in maniera esplicita, dietro ogni psicologia c’è una concezione dell’uomo che non è di ordine prettamente empirico-scientifica, ma filosofica». Questa è una strada che ritengo giusta e sempre da approfondire, perché oltre a permettermi di vedere i limiti della quasi totalità delle correnti di psicoterapia contemporanee – correnti che a mio avviso ci tengono tutti in ostaggio, non esplicitando le proprie fondamenta antropologiche oppure assolutizzandone parti relative e quindi impedendoci di andare oltre – oltre a vedere i limiti, dicevo, questa strada mi ha permesso di ri-scoprire la sana antropologia, non riduzionista, e di costruire quindi una nuova psicologia/psicoterapia a partire da essa. È un’opera ambiziosa a cui si prestano particolarmente gli amici della scuola argentina, come mi piace chiamarli, cioè gli psicologi della scuola tomista. Non è vero che i cristiani si devono accontentare tra le varie scuole imperfette perché un’impostazione sana non esiste: esiste eccome, anche se poco nota, è da scoprire e riscoprire ed è quella tomista.
Ma, e qui veniamo all’oggi, il giudizio sulle varie correnti delle psicoterapie contemporanee, l’adozione di una sana antropologia ecc. porta ad un cambiamento nello sguardo verso il paziente e magari anche nelle azioni col paziente. Cioè, la prassi della psicoterapia si modifica. È questo il passaggio che mi interessa approfondire: come si modifica? Cosa cambia? Cosa rende uno psicologo cattolico diverso, nei fatti, da un altro che possiede un’antropologia di riferimento differente? Quello che abbiamo capito – che ho capito, ed abbiamo convenuto pressoché tutti al gruppetto – è che tra i molti fattori in gioco c’è un elemento centrale: c’è un punto d’incontro tra lo psicoterapeuta che desidera essere pienamente ancorato ad un’antropologia non ridotta, un’antropologia integrale, e il paziente che porta i suoi disturbi e la sua sofferenza. Il punto d’incontro è la domanda di senso. Cioè, gli interrogativi ultimi sulla vita, sul dolore, sulla realtà, sul fondamento della realtà, ovvero Dio. Per essere pienamente giussaniani dovremmo aggiungere l’aggettivo “religioso” a questi interrogativi, il “senso religioso”, perché riguardano non i semplici significati, contingenti, ma i significati ultimi: felicità, pienezza, perfezione, soddisfazione o, per dirla a suo modo, le domande di verità, di giustizia, di bellezza che noi tutti proviamo. L’aspetto interessante è che queste domande le abbiamo tutti, ma in chi soffre – in chi incontra il limite o “il confine” secondo le espressioni di questo convegno – sono particolarmente destate. Dice Giussani: “La vita è una trama di avvenimenti e di incontri che provocano la coscienza producendovi in varia misura problemi. Il problema non è nient’altro che l’espressione dinamica di una reazione di fronte agli incontri. La vita è dunque una trama di problemi, un tessuto di eventi reattivi agli incontri provocanti, poco o tanto che lo siano. Il significato della vita – o delle cose più pertinenti e importanti della vita – è un traguardo possibile solo per chi prende sul serio la vita e quindi avvenimenti e incontri, per chi è impegnato con la problematica della vita”. È per questo motivo che l’incontro col paziente si presta ad essere un luogo particolarmente significativo per il cristiano: perché è l’ambito in cui un particolare problema della vita si fa evidente attraverso il dolore e la sintomatologia e diviene così richiamo, desta e solleva la domanda sul senso totale della vita. Detto tra parentesi: tutto quest’anno giubilare sulla misericordia non fa altro che insistere su questo aspetto, il fatto cioè che quando s’incontra una miseria, come un dolore o una sofferenza, il cuore tende ad accendersi ed a dare, come ben dice l’etimologia della parola misericordia, miseri-cor-dare, dare il cuore al misero. E cosa diamo se non ciò che abbiamo di più caro, o meglio, quella medicina che sappiamo per esperienza essere risolutiva? Se è vero ciò che abbiamo accennato prima, ovvero che le domande di senso sono il cuore dell’uomo, che l’intelletto e la volontà sono la parte specie-specifica dell’uomo, allora evitare questo livello, censurarlo, magari per paura o per idee discutibili (come quelle sostenute da chi dice che di certe cose lo psicologo non è tenuto a parlare), significa non trattare il paziente da uomo. Potremmo averlo guardato per l’inconscio che ha, per la voglia di libertà che ha, per la sua unicità che porta (come le molte scuole si vantano di fare) ma…non avremmo preso in considerazione il livello più propriamente umano.
Ora, ciò non significa che lavorare al livello delle domande di senso sia facile. Dalla formazione non abbiamo ricevuto particolari fondamenti. Anzi, spesso si nega l’esistenza di questo livello o persino si dice che non sia psicologico (salvo poi proporre la consulenza psicologica come luogo in cui si può parlare di tutto…). Inoltre la domanda di senso spesso è rinchiusa dentro la domanda di salute, come ci ricorda instancabilmente il nostro Arcivescovo: la domanda di salute nasconde sempre una domanda di salvezza. C’è il problema del metodo: stare al livello del senso religioso oppure della risposta, cioè della fede (questo è un aspetto da me sentito particolarmente, perché Giussani in più occasioni dice che testimoniare è dare la risposta e non evocare la domanda, perché la domanda si genera quando uno incontra una risposta). In più c’è il problema del setting, dei confini: come parlare della felicità, del senso ultimo, ecc. mentre si fa anche il lavoro più propriamente psicologico. C’è il problema dei ruoli, della relazione terapeuta-paziente: proporre una strada – potremmo dire con parole roboanti “annunciare il Vangelo” – implica un mettersi in gioco in prima persona, parlare di sé al paziente. La relazione potrebbe trasformarsi: da posizione paritaria o persino minoritaria per il terapeuta, a guida, direttività, educazione. E poi il problema di come farlo, cosa proporre, cosa presentare, e tanto altro. Dunque un tema non semplice, senza linee guida, che ci pone su di una nuova frontiera.
Per questo ora voglio chiedere a voi, che a vario titolo ed in vari modi già incontrate questo livello, queste domande di senso, interrogativi ultimi, come fate, quali strumenti adoperate, che esperienze avete avuto. Sappiamo che ve lo chiediamo con umiltà, proprio perché abbiamo ben capito che dalla teoria alla prassi c’è uno scarto applicativo in cui ognuno si sperimenta con gli strumenti che ha al momento.
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