La cura, l’équipe, l’offerta di relazione – Barbara Pinciara
Barbara Pinciara. MD Psichiatra, Docente Scuola Quadriennale di Psicoterapia ISERDIP – Milano
Correspondence to: bpincia@gmail.com
Una premessa per inquadrare il tema di questo mio contributo. I percorsi territoriali, dal Piano regionale salute mentale della Lombardia del 2004 fino ai più recenti provvedimenti della Conferenza unificata Stato-Regioni – il Piano d’azioni nazionale del 2013 e i Percorsi di cura per i disturbi psichici gravi del 2014 – propongono un modello clinico e organizzativo che prevede: a) il percorso della consulenza, frutto di una collaborazione strutturata con i medici di medicina generale per la gestione dei pazienti con disturbi emotivi comuni; b) il percorso dell’assunzione in cura, per il trattamento dei pazienti affetti da disturbi psichiatrici che richiedono cure specialistiche continuative; c) il percorso della presa in carico, per gli utenti che presentano bisogni complessi e necessitano di valutazione multidimensionale e dell’intervento integrato di un’équipe pluriprofessionale con la definizione di un Piano di Trattamento Individuale, personalizzato a seconda dei bisogni individuati in ciascuno, e l’identificazione del “case manager”.
Nel mio intervento mi riferisco alla cura dei pazienti gravi in psichiatria, ovvero schizofrenici o portatori di Disturbi di Personalità del Cluster A e B, così indicati nel DSM V, che rientrando nel percorso di presa in carico, necessitano del trattamento in équipe. Tali pazienti, scissi per definizione come nel caso degli schizofrenici, o che comunque usano meccanismi di difesa primitivi, quali scissione, negazione e proiezione come i portatori di gravi Disturbi della Personalità, devono essere seguiti da un’équipe multifunzionale.
Infatti, la funzione dell’équipe è anzitutto di tener conto delle proiezioni frazionate sui singoli operatori, che il paziente promuove con il meccanismo dell’identificazione proiettiva, di saperle rilevare ed essenzialmente di rendersi disponibile in tal modo ad accogliere le parti scisse dello stesso al fine di rielaborarle e di restituirle a lui integrate. Si tratta appunto di un approccio integrato e pertanto a sua volta integrante e terapeutico. Questo sapiente e lungo lavoro si istruisce nella discussione del caso in équipe, in cui ognuno partendo dalla sovranità e dalla specificità professionale legata al proprio ruolo, sia in grado di fare diagnosi, rilevando i vari tipi di bisogni, decodificando le emozioni e veicolando il contenimento di quelle senza controllo e pertanto disfunzionali.
Le figure dell’équipe comprendono infermieri, educatori, assistenti sociali, OSS, oltre a medici psichiatri e psicologi, e si ritrovano a discutere gli elementi colti nel paziente in una posizione di pari dignità, nell’ambito funzioni professionali diverse e ciascuno con i propri compiti autonomi, al fine di comprendere e condividere le risposte ai bisogni che egli presenta. Tutti partecipano quindi alla fase dell’osservazione, che consente la rilevazione dei deficit, dei bisogni e delle risorse del paziente, considerando tra l’altro il livello intellettivo e l’insight. In particolare, ad esempio, il paziente borderline si caratterizza per il deficit delle capacità di psicologizzare e mentalizzare, cioè fatica ad esprimere le emozioni, normalmente le agisce attraverso la rabbia, i comportamenti aggressivi, i maltrattamenti: perciò in questi casi l’aiuto consiste nel favorire l’espressione delle emozioni, nel parlare della sua rabbia invece che agirla.
Inoltre se l’équipe, come si diceva, ha la funzione di raccogliere le parti scisse del paziente che i vari operatori percepiscono e di integrarle, di metterle insieme, rielaborandole e restituendogli il frutto di un gruppo integrato e integrante, si comprende come sia riduttivo definire mio il paziente e si debba invece parlare del “nostro” paziente.
In questo allargamento dei confini della cura si inserisce la famiglia, che condivide con il paziente la sofferenza dei tanti conflitti e situazioni di isolamento sperimentate: occorre aiutare la famiglia ad accettare il paziente, ad avere un comportamento accogliente e di ascolto. Non di rado alcune sue abitudini, ad es. quelle legate alla dipendenza da fumo, sono oggetto di rimproveri continui e reiterati da parte dei familiari, rischiando di provocare reazioni aggressive, mentre richiedono di apprendere atteggiamenti più adeguati e meno disfunzionali.
Altra fonte di aiuto al paziente deriva dalla rete di relazioni, di cui la famiglia fa parte, costituita da amici e da vicini di casa che rappresentano aiutanti o facilitatori naturali, meno coinvolti e a volte più efficaci. Anche la rete sociale nel suo insieme fornisce allo psicotico un potenziale importante supporto. Occorre sfatare l’alone di incurabilità che circonda la psicosi. Se non la guarigione clinica, infatti, viene spesso conseguito l’obiettivo della guarigione sociale, quando il paziente socializza, esce dal chiuso delle sue difese ed entra in rapporto con la comunità, riprende a vivere nel territorio dopo un reale percorso di cura e riabilitazione, magari residenziale, come nelle esperienze di recovery.
Di qui l’importanza di accettare la persistenza di sintomi, anche deliranti, in quanto a differenza dell’impostazione medica tradizionale l’obiettivo non è quello di ottenere lo spegnimento di un delirio, con il rischio di cadere in una situazione non meno pericolosa per il paziente il quale, sentendosi di colpo privato delle sue difese abituali e intuendo la propria condizione tragica, potrebbe compiere un gesto autolesivo. Egli deve essere capito, accompagnato e sostenuto in un percorso graduale, così da avere il tempo di assumere difese meno primitive e disfunzionali. Per contrastare il suo isolamento una modalità esemplificativa, proposta da Zapparoli nel Modello dell’Integrazione Funzionale per il trattamento degli stati psicotici, è la “stanza del delirio” che offre al paziente lo spazio per parlare liberamente con l’operatore del suo delirio, con l’effetto così di ridurre molto l’intensità e l’invasività dell’angoscia collegata e poter quindi liberare risorse emotive per sperimentare interventi utili alla riabilitazione. Del resto, lo sappiamo, squalificare e negare il delirio non serve e spesso lo rafforza, mentre avere lo spazio per parlarne contribuisce a ridimensionarne il senso di onnipotenza e grandiosità di cui è espressione, oltre che l’angoscia. Onnipotenza e megalomania, che nel paziente nascono da una sottesa reale impotenza, a volte fungono da compensazione di un deficit.
Per questo occorre un lavoro di relazione, in cui paziente si senta accolto dall’équipe e instauri un rapporto di fiducia, di protezione, di sicurezza che gli consenta di vivere in comunità e di evitare la stigmatizzazione. Tra l’altro, lo stigma della violenza criminale coinvolge in modo ingiustificato il malato mentale, le cui manifestazioni aggressive invece sono da interpretare nell’ambito delle proiezioni e spesso si possono prevenire all’interno della relazione con lui cercando di capire che cosa lo irrita. Una forma di comunicazione che egli utilizza è l’identificazione proiettiva, come modo per farci sentire le sue emozioni scisse che così noi sperimentiamo direttamente. Ad es. quando agitato arriva in reparto per effetto di un TSO, ha paura e teme di essere contaminato dalla follia degli altri, per cui assume atteggiamenti minacciosi: l’operatore può farsi coinvolgere nella sfida, se non comprende la paura sottostante, con il rischio di una colluttazione che sarebbe a volte evitabile semplicemente dicendo che lui ci sta incutendo paura, per esprimere in tal modo l’emozione in gioco e insieme riconoscere il nostro limite. La sfida onnipotente all’opposto ci impedisce di mettersi nei suoi panni, quelli di uno che lotta per la vita e la propria integrità, in mezzo a deliri e allucinazioni: andare oltre queste sovrastrutture di malattia favorisce una relazione più autentica con la persona, un’alleanza necessaria nella fase in cui serve un contenimento emotivo efficace, che le persone sovente associano poi a un ricordo positivo.
Ogni membro dell’équipe terapeutica deve pertanto attrezzarsi a prendere in carico il paziente attraverso una relazione specifica in grado di decodificare bisogni, di colmare ove possibile i deficit e di garantire la residenza emotiva, di veicolare interventi, di ridurre lo stigma, di modo che anche il paziente più grave, sentendosi accolto e capito nel suo star male, possa aprire uno spiraglio e mostrare tutta la sua umanità. Non a caso Zapparoli lo definiva nostro datore di lavoro, ma anche nostro insegnante in quanto, se sappiamo rinunciare alla posizione onnipotente, ci fa da guida quando comunica attraverso i suoi bisogni specifici, che sono da ascoltare e da decodificare. E diviene portatore di una diversa filosofia di vita, cioè una persona da rispettare profondamente con la quale solo così è possibile l’incontro.
Nel tempo, compreso nella sua diversità e complessità, il paziente potrà entrare in una relazione di fiducia, lasciare difese troppo primitive ed isolanti, ampliare gli spazi vitali ed approdare alla riabilitazione ed alla risocializzazione, per giungere alla cosiddetta guarigione sociale ed essere in grado di poter vivere più serenamente insieme agli altri membri della comunità.
L’integrazione dunque, come detto, a partire dall’accogliere il paziente con le sue frammentazioni, coinvolge i membri dell’équipe, la famiglia con il recupero dei legami famigliari conflittuali e le varie agenzie del sociale che costituiscono la rete. L’integrazione comporta anche all’interno dell’équipe un lungo e delicato percorso, che prevede il rispetto della professionalità dell’altro, nella pari dignità delle funzioni, tenendo a bada dinamiche conflittuali dettate da invidie, gelosie e aspetti narcisistici presenti in ciascuno di noi. Si tratta di un costante lavoro di manutenzione, utile a favorire anche il benessere degli operatori dell’équipe: star bene per aiutare a star bene chi ha bisogno.
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