Le prospettive: le questioni affrontate e gli sviluppi di un lavoro – Giorgio Cerati
Giorgio Cerati. MD Psichiatra, CDA Fondazione Ospedali Onlus – Legnano
Correspondence to: giorgio.cerati48@gmail.com
Il Convegno La cura al confine – Le relazioni di cura tra incontro e cultura dello scarto, che ha qui il suo momento conclusivo, ha voluto interrogarsi sulla questione della cura e in particolare sulla relazione di cura, che si fonda sull’incontro con l’altro in condizione di bisogno. Bisogno che appare sempre più sconfinato e nel contempo oggetto di scarto, sia nella macroscopica evidenza delle situazioni di trascuratezza e di esclusione, sia nei meccanismi quotidiani di rapporto con l’uomo malato o sofferente. La cura a sua volta, come esigenza universale, sembra oggi di difficile sostenibilità e forse delegittimata, sta appunto al confine, a margine delle relazioni umane, oltre che del pensiero, delle pratiche e dei modelli di lavoro.
Sono domande da cui i relatori si sono lasciati interpellare condividendo differenti saperi.
In primis, la cura non è riducibile di norma alla prestazione puntuale e comporta lo stabilirsi di una relazione. Oggi la medicina tende invece ad abbandonare la clinica, è in difficoltà a chinarsi davanti al reale dell’uomo, malato o disabile, quindi imperfetto: insieme all’imperfezione rifiuta così la realtà dell’uomo stesso. E con la diffusione della “medicina del rafforzamento” di fatto collabora al mito della salute perfetta, basata sul culto narcisistico del corpo. Al contrario, non ci può essere cura senza il desiderio di incontrare l’altro, un soggetto. Il soggetto, “scarto” dei vari apparati organizzativi, è costituito in un’inevitabile imperfezione, che proprio la relazione di cura aiuta a riconoscere e a rendere risorsa positiva, attraverso la parola, anche mentre ci si occupa del corpo.
La cura ha in sé una necessità ontologica proprio in virtù della vulnerabilità e della fragilità costitutive dell’uomo. Per questo l’essenziale della cura è la relazione, il prendersi a cuore l’altro nella relazione e si realizza anzitutto come cura del soggetto (cura di sé e dell’altro) e poi delle istituzioni socio-sanitarie, i cui modelli operativi sono da ripensare.
La clinica, in origine il chinarsi al letto malato, corre oggi il rischio di perdere lo statuto di scienza, che viene invece riconosciuto all’approccio biomedico per cui la malattia è una sorta di guasto dell’uomo-macchina. Eppure nel tempo attuale per curare il malato, spesso cronico, urge la clinica e un medico non solo bravo ma buono. La buona medicina usa il progresso tecnologico all’interno della sua vocazione umanistica.
La pratica della medicina poi rivela i tradimenti della relazione di cura con la persona, ad es. nella crisi del rapporto medico-paziente e negli eccessi della medicina difensiva o nell’attuale Torre di Babele di linguaggi medici che escludono la relazione. Infatti, nella presa in carico del paziente con bisogni complessi e persistenti, fisici e psichici, è fondamentale l’integrazione delle professioni per dare ascolto e risposte adeguate alla persona nel tempo. Inoltre, nel brusco passaggio dall’autonomia alla disabilità, ad es. nell’anziano, anche la famiglia diviene interlocutore decisivo, come in tante situazioni di confine tra curabilità e inguaribilità; così pure, per lo sguardo con cui l’altro è guardato, assumono valore i legami sociali. Al punto tale da poter affermare: “dove non c’è medicina che guarisce, ci sono tante cose da fare”.
Molti altri temi specifici sono stati trattati nelle diverse sessioni del convegno, tutti da riprendere analiticamente: dalla cura dei legami e della differenza all’irruzione dei nuovi bisogni esaltata dalla crisi – le cronicità, i migranti, i comportamenti antisociali, il disagio adolescenziale e giovanile -; dalla domanda di senso nella malattia e nelle cure al fattore speranza in oncologia; dai percorsi terapeutico riabilitativi resi possibili da un positivo stimato nella persona, fino all’accogliere l’imprevedibile ripresa del desiderio all’apparenza spento nella persona; dal lavoro delle équipes nel territorio alla formazione dell’operatore, sino alla comunità che cura ed è curata dai soggetti delle reti sociali e familiari.
A questo proposito, nell’attuale cambiamento epocale, si avverte l’esigenza di ricostruire l’esperienza di comunità perduta, non in termini nostalgici ma partendo dai processi in atto e superando la piaga sociale della “comunità del rancore” verso una “comunità della cura”: quasi un compito affidato alla società e agli operatori sanitari e sociali.
Occorre realmente fondarsi su una costruttività, che può trovare una sintesi in tre parole: l’imperfezione, tornando a fare amicizia con le cose umane imperfette; l’essenzialità, nel farsi carico delle debolezze e delle difficoltà; l’iniziativa, cioè il dono, l’offerta di un primo passo, non privo di rischio, che costruisce relazioni personali. Sono espressioni care rispettivamente a J. Ratzinger, a Papa Francesco e al Cardinal Scola, il cui tema della vita buona, insieme a quello della misericordia, ispira il Progetto 2016 – Per una cultura dell’incontro e della cura e il percorso in atto a livello diocesano tra esperienze impegnate sia nella salute mentale che nel campo della sanità e dell’assistenza.
Per questo la parola magistrale dell’Arcivescovo desideriamo accoglierla non solo come completamento e arricchimento del lavoro svolto e da svolgere, bensì come chiave di volta capace di valorizzare tutti gli apporti e, sorprendendola nel cuore dell’azione, in grado di animare l’agire dell’io e del noi dentro la relazione di cura. Dunque non un lavoro concluso, anzi un impegno che desideriamo aiutarci a compiere.
Prima della parola all’Arcivescovo, scorriamo in estrema sintesi l’andamento dei lavori del convegno attraverso una carrellata di spunti tratti dai contributi offerti nei giorni scorsi, iniziando dalle sessioni plenarie.
Vivere (malgrado) la malattia: i bisogni e le cure. Per Leonardi la clinica – che nel suo significato profondo indica il chinarsi al letto del malato, davanti a lui – corre oggi il rischio di perdere lo statuto di scienza, che invece viene riconosciuto pienamente all’approccio biomedico, confermando così il dominio culturale di una concezione di malattia come guasto dell’uomo-macchina (concepito in senso meccanico-biochimico). Questo accade paradossalmente in un tempo come l’attuale, che sempre più necessita proprio della clinica per poter curare l’uomo, di fatto sofferente di una malattia spesso cronica, e che sempre meno ha bisogno di semplificazioni quale quella che separa il medico “bravo” dal medico “buono” .
Su quale comunità oggi la persona può contare? Secondo Bonomi il cambiamento d’epoca, che caratterizza l’attualità, coincide esistenzialmente con l’impossibilità di riconoscerci ancora in ciò che ci era più abituale e che costituiva il tessuto normale delle relazioni. Sembra perduta l’esperienza di comunità e si avverte l’esigenza di ricostruirla, il che è possibile solo accettando i processi in atto, anzi partendo da essi (ad es. la considerazione che i flussi cambiano i luoghi). Ha senso parlare di comunità “artificiali”? Forse sì, superando la “comunità del rancore”, oggi diffusa come una piaga sociale, in una “comunità di cura” e riconoscendo valore a dimensioni di speranza, di destino, di operosità.
La cura: fare amicizia con l’imperfezione delle cose umane. Binasco sostiene che non ci può essere cura senza il desiderio di incontrare l’altro, cioè non un apparato, ma un soggetto. Il soggetto, residuo o “scarto” dei vari apparati e organizzazioni di funzionamento, è caratterizzato da un’inevitabile e costitutiva imperfezione. Lungi dal censurarla, proprio tale imperfezione è ciò che la relazione di cura aiuta a riconoscere e ad accettare facendovi amicizia, sino a renderla possibile risorsa positiva per il soggetto e il suo destino. Essenziale strumento di questo processo – la relazione di cura – è la parola, ricordando come sia il dono primordiale della parola il fattore che costituisce i legami.
Le cure e l’irriducibile durezza della realtà. Per Belardinelli il fatto che oggi la medicina stia rischiando di essere sempre meno clinica, cioè di avere difficoltà a chinarsi davanti al reale dell’uomo malato o disabile, e perciò imperfetto, è reso evidente da quanto la medicina stessa stia collaborando a costruire il mito della salute perfetta. In tal modo mostra di essere orientata a rifiutare l’imperfezione e con essa, quindi, la realtà dell’uomo stesso. Così si può leggere il successo della medicina del rafforzamento o enhancement, che si basa sulla cultura del narcisismo come tratto sociale (o antisociale?) e non implica una relazione.
Incontrare l’altro nel bisogno: relazioni di cura. Mortari afferma che la cura ha in sé una necessità imprescindibile in senso non solo etico ma ontologico. Infatti, la cura è essenziale proprio in virtù della vulnerabilità e della fragilità dell’uomo reale, della sua condizionabilità e insicurezza che ne sono dimensioni costitutive. Per questo l’essenziale della cura è la relazione, il prendersi a cuore l’altro nella relazione, e si realizza anzitutto come cura del soggetto sia nella cura di sé che nella cura dell’altro. Ma anche come cura delle istituzioni, ad esempio con il coraggio di non colludere con la tendenza a una riduzione aziendalistica – bancaria delle organizzazioni sanitarie.
La cura della differenza. Secondo Scabini, la cura dell’altro comprende la cura della differenza. Essa anzitutto si attua attraverso la cura dei legami e dell’alterità, di quella reciprocità asimmetrica che spinge uomo e donna ad andare oltre sé in un progetto generativo di cui il figlio è emblema. Figlio, cioè una persona generata che è da riconoscere e rispettare come tale, non solo in relazione al desiderio dei genitori. Ma di qui, nel nostro tempo, si aprono svariate problematiche e crescenti difficoltà che gli operatori devono saper accogliere, affrontare e curare.
La clinica in-difesa e il rischio della cura. Murialdo sostiene che la pratica della medicina, se guardata con uno sguardo attento e critico, rivela una serie di tradimenti della relazione di cura con la persona. Ad esempio ciò si documenta non solo nella crisi del rapporto medico-paziente, ma anche negli eccessi della medicina difensiva o nella Torre di Babele dei troppi linguaggi della medicina attuale che allontanano dalla relazione con la persona (vedi la rigida adesione al modello EBM). Quello che realmente occorre oggi è una “buona medicina”, in equilibrio tra progresso tecnologico e vocazione umanistica.
Corpo e desiderio: la parola che cura. Per Guarinelli l’esperienza psicoterapeutica conferma che la parola cura, anche attraverso la metafora creata all’interno della relazione intersoggettiva tra paziente e terapeuta. E pure il corpo svela una forma di linguaggio che interviene nella relazione di cura e richiede ai terapeuti una costante formazione e supervisione.
Il cambiamento al confine tra curabile e inguaribile. Secondo Pizio la cura al confine si rivela nella realtà che il medico nel concreto sperimenta, anche fisicamente, con l’anziano. Pensiamo alla frequenza con cui ad es. avviene il brusco passaggio dalla condizione di normalità e autonomia alla disabilità, determinata da un accidente vascolare cerebrale, e alla conseguente reazione sia individuale sia da parte della famiglia e della società di fronte all’inattesa situazione a volte di totale dipendenza. Allora la famiglia assume nuova e fondamentale importanza come interlocutore. E nondimeno decisivo è lo sguardo con cui l’altro è guardato. Davvero “dove non c’è medicina che guarisce, ci sono tante cose da fare”!
La cura, l’équipe, l’offerta di relazione. Pinciara descrive una prassi sperimentata, che riguarda la presa in carico del paziente con disturbi psichiatrici gravi e complessi da parte di un’équipe multiprofessionale in grado di rilevare i differenti bisogni e fornire risposte integrate alla persona all’interno di una rete sociale e familiare. L’integrazione funzionale di un’équipe offre un metodo di lavoro in cui il paziente diventa non più il mio ma il nostro paziente, come persona da riconoscere con le sue singolarità nel vivere il reale ma in grado di fornire insegnamenti utili.
Le sessioni parallele hanno offerto importanti riflessioni e un’articolazione di contributi che costituiscono un’esemplificazione di proposte in grado di incidere realmente sulla pratica, da riprendere una ad una nel metodo e nel merito specifico.
I confini della cura e i bisogni emergenti di salute mentale (S. Landra). In un’epoca di sfaldamento dei legami emergono il disagio e la fatica degli operatori nel prendersi cura delle persone con disturbi mentali, spesso complicati da storie di migrazioni, da reati, ecc.: solo un reale lavoro d’insieme può contribuire a sostenere il compito.
Speranza e domanda di senso: il senso religioso nella cura e nella psicoterapia (D. Bellantoni, A. C. Clerici). Il confine dettato dai diversi approcci e ruoli professionali richiede di essere sfidato per prendersi cura della persona nella sua integralità e con le sue domande ed esigenze insopprimibili di significato globale della realtà.
Dal dolore alla speranza. La cura della comunità: soggetti, famiglie, lavoro di rete (A. Bonomi, R. Pinto, D. Storri, M. Gualteroni, E. Buratti). Territorio e reti naturali, la cura di esperienze vive, proposte che aiutano a vivere: i gruppi di mutuo aiuto, un nuovo tipo di centro diurno, famiglie che accolgono e si sostengono, la comunità che si fa carico del dolore e restituisce valore ai legami.
Riabilitazione ed età della vita, tra assistenza e cura: paziente e integrazione (A. Pellegri, P.R. Cavalleri). Riabilitare è un processo che può precedere la cura, quando riesce a trovare nella persona un positivo da stimare che motivi l’impegno, e seguirla, se capace di mobilitare il soggetto e chi gli sta intorno a fare esperienza proficua di realtà.
Che cosa sostiene l’operatore? Ricchezza dello scarto. Le cronicità, il territorio, il case manager (F. Bastiani, C. Caron. C. Moro). Il malato o l’anziano sono bisognosi di legami e di sguardo di condivisione al loro desiderio. Così l’operatore impara nel lavoro a riconoscere la ricchezza dello scarto e insieme può scoprire nel limite qualcosa di sé.
Adolescenti e giovani, l’incontro con un paradigma cambiato (L. Micheletti, A. Marazza, L. Savignano). Il disagio anche agito dell’adolescente rivela il punto di crisi dell’ambiente, in particolare nella riduzione dello spazio del desiderio. Il coinvolgimento della famiglia e il lavoro d’équipe sono essenziali alla cura, consci che il desiderio lo riaccende un imprevisto.
Che cosa aggiungere o sottolineare in conclusione? Si è parlato di difficoltà della società ad accogliere, di resistenza di tanti operatori a seguire, di fatica dei pazienti a domandare: segni particolari e critici dell’attualità, come abbiamo ben visto. Il mito del benessere psico-fisico individuale enfatizza un io illusoriamente scisso dal noi, dalle reti di relazioni della comunità e della famiglia, svalutate tanto quanto la loro possibilità di veicolare speranza. L’irruzione dei nuovi bisogni, dalle cronicità alle emergenze sociali, inoltre evidenzia drammaticamente la crisi e i meccanismi così rigidi e disfunzionali che la connotano. In sostanza, sembra sia diventato più difficile curare e farsi curare, non solo per i ben noti problemi organizzativi e di sistema, ma è come se la cura fosse esclusa dai legami costitutivi della persona, dal rapporto con l’altro (compresi i curanti, i familiari, la comunità), come pure dalla relazione con se stessi, presunti proprietari di un benessere da curare individualmente o di un comportamento da salvaguardare in un corpo non di rado reso ostaggio del narcisismo. D’altra parte la cura identificata solo come prestazione medica puntuale e ridotta a sua volta al risvolto operativo e tecnologico – l’intervento farmacologico o chirurgico – risulta profondamente equivoca. La medicina, nel suo modello “industriale”, sovente non sa integrare né farsi carico della persona nel tempo e tende a negare sistematicamente la relazione a tu per tu, ma con il paradosso di incrementare incuria e inefficienze (vedi, ad esempio, i tempi di attesa di anni per bambini con bisogni neuropsichiatrici o la disabilità infantile censurata, e per gli adulti fenomeni di scandalosa disfunzione di servizi di emergenza o percorsi di cura che prescindono dalla relazione personale con il paziente).
Tutto sembra cospirare a una tenace difesa dal bisogno, percepito come fonte di paura. Eppure la possibilità positiva di rivalutare la cura restituendole umanità, come si è detto, esiste proprio a partire dalle persone, a partire dalla umanizzazione dell’inevitabile limite, da una confidenza con il bisogno e dal lasciare spazio alla domanda di senso (perché proprio a me?), che diventa domanda di aiuto e di relazione cui la malattia e la sofferenza, peraltro non automaticamente, aprono la porta. L’esperienza della fragilità come incontro con il proprio bisogno e con l’altro chiama l’operatore a cogliere, a sua volta, l’occasione buona di un’alleanza, di un rapporto capace di attivare una reciprocità da cui riceve in prezioso cambio la fiducia. Viene così offerta la scoperta di un contenuto professionale pieno all’operatore (la ‘conoscenza condivisa’) nell’ambito del suo lavoro, ridefinendo la responsabilità del soggetto come relazione clinica, la quale presuppone autentico interesse all’altro (il ‘fattore umano’). E di qui si può forse riattivare anche un circolo virtuoso che riscatti da solitudine e narcisismo, rivaluti la prossimità, il dialogo tra curanti e curati, la presa in carico, l’accoglienza nel contesto sociale, favorendo la ripresa di una ‘speranza nella cura’, dentro un recupero di cultura, di senso dell’incontro con l’altro, di nessi vitali e di legami profondi fondanti la società.
L’evento – convegno, attraverso i contributi pregnanti dei relatori e il rapporto con e tra i partecipanti, ha dato vita a un clima di comunità in dialogo, essenziale a creare le condizioni per riproporre la domanda personale sul nucleo delle professioni sanitarie, una strada che occorre proseguire. A noi interessa riportare la cura dentro il contesto della clinica, che rischia l’esclusione dalle discipline scientifiche, cercando forse di colmare lo iato di una medicina contesa tra scienze sperimentali e scienze umane. Oltre alla clinica, obliterando la relazione di cura viene fatto fuori l’altro: la cultura dello scarto nasce infatti dal non tener conto dell’altro, del soggetto, nel quotidiano della pratica clinica. Rifondare la professione, restituendo pieno significato alla relazione di cura, proprio lì nel luogo ove l’esperienza quotidianamente provoca e sfida, è cosa interessante per tutti, ben aldilà del discorso psicosociale.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Fornisci il tuo contributo!