Sessioni parallele 2. Speranza e domanda di senso: il senso religioso nella cura e nella psicoterapia

Interventi di D. Bellantoni, A. C. Clerici. Coordinamento: S. Parenti, A. Emolumento

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Il rapporto tra la psicologia e il cristianesimo è divenuto problematico con la modernità. «Anche se poche volte viene riconosciuto in maniera esplicita, dietro ogni psicologia c’è una concezione dell’uomo che non è di ordine prettamente empirico-scientifica, ma filosofica», ha ribadito il Prof. Martin Echavarria all’ultimo convegno, citando un importante brano di S. Giovanni Paolo II: «La visione antropologica da cui muovono numerose correnti nel campo delle scienze psicologiche del tempo moderno è decisamente, nel suo insieme, inconciliabile con gli elementi essenziali dell’antropologia cristiana». Come cattolici impegnati nella psicoterapia sentiamo l’esigenza di una psicologia, teorica e pratica, che affondi le proprie radici nell’antropologia cristiana e non in altre concezioni. Occorre evitare il rischio di una scissione: da una parte l’adesione formale alla vita di fede – attraverso la comunione fraterna, l’accostamento ai Sacramenti, la preghiera – e dall’altra l’adozione di concezioni e strumenti estranei (se non opposti) a quella stessa vita.

Riscoprire i fondamenti della concezione cristiana dell’uomo addentrandoci nella proposta educativa formulata da don Giussani, che coniuga l’antropologia tomista con gli accenti della modernità, ha posto in evidenza: il primato della realtà sulle preconcezioni soggettive (realismo vs. razionalismo); il desiderio di felicità insito nell’uomo (cuore e teleologia); la ragione e il giusto rapporto con l’emotività (moralità); l’esperienza come luogo di riconoscimento della verità (oggettività vs. soggettività). Giussani suggerisce che il senso religioso sia la forma secondo cui gl’interrogativi sul significato delle cose diventano esistenziali, cioè divengono compiutamente domanda di felicità. Essa è insita nell’uomo originalmente, ma viene provocata e suscitata dall’impatto col reale, che spesso sembra non rispondere, o persino negare, la possibilità di una piena soddisfazione. I limiti della realtà – l’impossibile da modificare – avviano prepotentemente le domande del senso religioso. Ogni domanda di cura racchiude una domanda di senso o di salvezza, come dice il Card. Scola. Una clinica fondata sul senso religioso – e non solamente sulla ricerca del benessere, o del potenziamento, o della catarsi, ecc. – può attuare nella prassi le premesse teoriche di una sana antropologia ed al contempo ricucire la frattura tra la psicologia e la vita di fede.

Il tema della speranza e della domanda di senso religioso nella cura assume grande interesse anche rispetto al punto di osservazione dei cappellani ospedalieri, come dimostra la ricerca condotta all’Istituto Nazionale Tumori di Milano da don Tullio Proserpio. Lo studio evidenzia una correlazione determinante tra speranza e qualità della vita e della cura in un contesto oncologico, mostrando un nesso non sempre evidente: dalla ricerca emerge infatti che, oltre alla componente clinica, psicologica e sociale, anche quella religiosa e spirituale assume un ruolo cruciale nella configurazione della speranza come fattore determinante tanto nella relazione con i caregivers, quanto nella tenuta delle relazioni affettive, quanto nel miglioramento complessivo dell’efficacia di quella cura.

Domande:

Come emerge il senso religioso in terapia? In che modo accedere ed intervenire a tale livello nell’ambito professionale? Quali modifiche produce all’abituale modus operandi col paziente?

In che modo fattori extraclinici come la dimensione spirituale o, più esplicitamente, la fede e la preghiera alimentano la speranza e interagiscono con il percorso delle cure del paziente?

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