Le osservazioni dei partecipanti ai seminari di lavoro a gruppi: la responsabilità della cura – 11 maggio 2018

Una sintesi del contributo di chi si è coinvolto intervenendo sulla base della propria esperienza e del confronto con le proposte dei relatori. Appunti per favorire lo sviluppo del seme piantato

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La responsabilità di chi cura, al fondo, che cos’è? È riducibile alla sola applicazione di regole o di protocolli? La risposta è da cercare dentro la relazione con il paziente. Così come i criteri per affrontare ogni decisione o scelta. Fino all’ambito della presa in carico, con i molteplici fattori in gioco quali il tempo, l’integrazione di competenze, i vari attori (famiglia, rete)

Responsabilità della cura e cura della relazione

La qualità della relazione con il paziente è determinata dall’operatore e dal contesto di cura.

Essere in grado di identificare i propri limiti ed i propri bisogni, per permettere di facilitare il loro riconoscimento nell’altro.

La “non scuola della madre” (Winnicot) permette l’attivarsi naturale di un’attenzione ed una sensibilità agli aspetti emotivi e relazionali nel percorso di cura, ma devono essere coniugati alla competenza professionale e non possono vicariarne una scarsa presenza o addirittura assenza.

L’autonomia del paziente nella relazione: una corretta informazione acquisita dal paziente (direttamente dall’operatore, da altro paziente e/o via web), non lo rende competente quanto l’esperienza che va costruendo nel percorso di cura insieme con il/i curante/i.

La relazione di cura è qualificata da una comunicazione adeguata e competente, oltre che da un buon/elevato profilo professionale.

Imprescindibile la motivazione alla relazione interpersonale, e la sua valorizzazione, in qualunque condizione di assistenza, per mantenere e coltivare una buona motivazione professionale, e quindi responsabilità, nell’esercizio della cura.

Falsa e vera responsabilità

La pratica acritica di una medicina difensiva, ad ogni livello, falsa la responsabilità clinica sia del singolo sia del gruppo /équipe, rischiando anche di rallentare il tempo delle decisioni e delle scelte, con nocumento per coloro che dobbiamo curare.

Così pure nell’applicazione algida e meccanica di protocolli e/o linee guida, vi è il rischio di allontanare da sé la visione della persona, della sua malattia e della sua storia (p. es. in hospice).

Assumere responsabilità, nella valutazione e nella definizione del percorso di cura, significa assumere consapevolezza del proprio compito e condividerla, oltre che nel gruppo di lavoro, con le persone che curiamo ed i loro familiari.

Specificità del lavoro territoriale

Significativa la partecipazione di medici di medicina generale, di medici o operatori di strutture di tipo socio-sanitario e di tipo riabilitativo: la loro esperienza ha evidenziato condizioni e stili di lavoro assai diverse dall’esperienza dei colleghi medici e operatori ospedalieri. 

Una problematica è la “solitudine” nell’ambito della rete sanitaria e più in generale della difficoltà a fare rete fra ambito ospedaliero e territoriale. Diffusa è l’esigenza di avere occasioni di formazione e di approfondimento specificamente dedicate al lavoro nelle strutture territoriali (disabilità, anziani, ecc) e nell’ambito della medicina generale.

Altra frequente esigenza, ad es. nelle situazioni di cronicità: quella di affrontare lo scollamento vissuto da molti tra dimensione organizzativa e dimensione clinico – operativa, spesso ostacolo per una possibile assunzione di responsabilità nei percorsi assistenziali “integrati”.

Motivazioni all’impegno personale 

A fronte di queste criticità, la motivazioni e l’impegno personale nell’ambito di una equipe di lavoro rappresentano spesso l’ingrediente che permette di offrire assistenza di qualità e soddisfazione nel proprio lavoro.    

Impegnarsi veramente nella relazione di cura, vivere con autenticità la propria responsabilità di operatore sanitario, necessita di supporto e condivisione: rappresenta una sfida condivisa, e un obiettivo che dovrebbe essere favorito dall’ambito organizzativo. 

La fatica dell’operare di fronte a condizioni “estreme” (la vicinanza della morte, la gravissima disabilità, gli eventi acuti nei grandi anziani e la successiva assistenza) necessitano di attenzione in ambito formativo e di supervisione e supporto nelle reti professionali. 

Responsabilità è relazione e insieme spazio interiore

La responsabilità va considerata all’interno di una relazione, di fronte all’altro. Questo può facilitare un percorso decisionale. 

Ma occorre uno spazio interiore per svilupparla. La responsabilità infatti matura dentro una storia, e per l’operatore e per il paziente  (sin dalle relazioni materne). 

Il chiedere perdono da parte del medico e l’offerta reciproca nella relazione come per-dono. Perdonare la fatica che l’altro ti fa fare, come normalità non come eccezionalità è il massimo possibile del dono (pensiamo al tempo, ai minuti in più).

La relazione  operatore – paziente è di fatto asimmetrica. Ma la fiducia è da conquistare. Può fidarsi di me il paziente se percepisce come io guardo a me stesso in profondità (stima reciproca) 

Si è parlato di operatori come costruttori di cattedrali, ma intese come la tenda da costruire giorno per giorno, nella pari dignità delle professioni dell’equipe. Colleghi, cioè legati dal fascino di uno scopo comune.

L’essenziale, a partire dalla domanda dell’altro 

Il diritto al riconoscimento del dolore per il paziente psichiatrico (Basaglia): è diritto o bisogno? Se è solo diritto, viene meno il cum-petere (competenza come domandare insieme) e ha campo la pretesa, non la domanda. Anche la gratitudine è correlata con la domanda.

Responsabilità, cioè risposta a una domanda. Di qui l’identificazione con l’altro, attraverso bisogni e sintomi (“ma come deve star male…”). Gesti e parole che creano l’alleanza.

Il prendersi cura responsabile dipende anche dal clima organizzativo: se manca la costanza dell’operatore, ad es., difficilmente avviene. 

Occorre recuperare uno sguardo all’altro che un tempo era “normale” nelle professioni sanitarie. 

La dimensione del lavoro multiprofessionale (integrazione, équipe): elementi del corso da sviluppare per comprendere sia come curare chi cura, sia come dare continuità alla cura. 

La responsabilità nella scelta della cura e i fondamenti che la motivano

Gemma Migliaro – MD PhD – Anestesista, Genova

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Curare chi cura è indispensabile perché chi cura possa a sua volta ancora curare.

Innumerevoli sono i percorsi su cui avviarsi per aiutare chi cura a “prendersi cura” di sé.

Vengono qui offerti alcuni spunti di riflessione e considerazioni per dare inizio ad un cammino personale: Papa Francesco suggerisce infatti che occorre “[…] occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi […]”.

Tale proposta rappresenta un metodo di lavoro e di giudizio che è stato utilizzato nella stesura di questa relazione che, nata originariamente come esposizione orale supportata da slide, ora diviene testo scritto.

Il titolo della relazione presentata al convegno è: “La responsabilità nella scelta della cura e i fondamenti che la motivano”. Si è scelto di “scomporlo” per esaminare e approfondire ciascuna delle parole che lo compongono , persuasi che un aiuto potrebbe venire dall’addentrarsi nel contenuto, spesso non univoco, di ogni termine in questione.

1) La cura

Socrate, uno dei pilastri della nostra tradizione di pensiero, ci suggerisce, per definire la cura, di partire da sé.

Eppure prima di spirare Socrate esorta i suoi giovani allievi all’arte della cura: “[… ] abbiate cura di voi stessi e così farete cosa gradita a me e a voi. […]”.2

Rintracciare, dunque, l’originaria accezione socratica della cura significa pertanto recuperare la dimensione più autentica dell’uomo: la sua complessa soggettività.3

La cura di sé deve essere intesa come costruzione interiore della persona, che non si realizza esclusivamente nell’agorà, ma anche nel ripiegamento in sé stessi. È una forza interiore che deriva dalla consapevolezza dei propri limiti e della propria vulnerabilità, ma è anche libertà di pensiero e di autonomia nel giudizio.

Socrate chiede di pensare a sé, di dedicare spazio interiore, cioè tempo alla cura di sé, alla costruzione della propria interiorità.4

 Anche pensatori più recenti si sono occupati della cura.

M. Heidegger nella sua opera Sein und Zeit definisce la cura (Sorge) come la radice primaria dell’essere umano e il fondamento dell’esistenza[…]

Il termine latino cura vuol dire letteralmente preoccupazione, nel senso di prendersi cura, occuparsi di qualcosa.[…] La cura diventa perciò pre-occupazione, Be-sorgen, «prendersi cura».[…] Nel concetto di cura ritorna, quindi, l’accezione latina còera-còirada cui l’etimologia del termine cura e il rinvio a cor: quod cor urat, ciò che scalda il cuore. Prendersi cura è ciò che scalda il cuore e lo consuma, in senso heideggeriano è uno stato doloroso che ci costringe amorevolmente a rispondere di un’esistenza,[…].5

L’«aver cura» heideggeriano si definisce, così, come relazione fra soggetti che esclude la delega ad altri poiché atto di cura che implica una assunzione di responsabilità in prima persona.

Il tempo è fondamentale nella genesi della cura ed è un tempo non fatto solo di minuti e ore ma è una relazione di cui il professionista (medico, infermiere, tecnico…) è responsabile.

Ad-sistere […] richiede tempo, ma non un tempo in senso aristotelico, un tempo fatto di istanti separati, calendarizzati, ma un tempo altro.[…] L’ ‘aver cura’ heideggeriano si definisce, così, come relazione fra soggetti che esclude la delega ad altri, poiché atto di cura che implica un’assunzione di responsabilità in prima persona.6

2) La responsabilità

Martin Cruz, filosofo contemporaneo, in una sua opera “Farsi carico” ci fa notare come oggi, ed è un fenomeno che accade per molte parole, più un termine è diffuso, più sul suo contenuto, sul suo significato non si trova un accordo.

Nel mondo contemporaneo la responsabilità, proprio come il passato e il futuro, è costantemente evocata, auspicata, addossata; vi sono continui rimandi ad essa, in qualsiasi campo e da qualsiasi schieramento politico.[…] Inoltre, nonostante questi continui richiami alla responsabilità, sembra sempre più difficile identificare dei responsabili: «è sempre più difficile accusare, su qualsiasi piano, qualcuno o qualcosa, ma, al contempo, si è soliti essere d’accordo (ed è bene che sia così) sul fatto che i danni provocati debbano essere riparati»7, si è d’accordo sull’importanza della responsabilità ma non sui suoi contenuti.8

Attraverso un piccolissimo excursus storico si può scoprire che nel mondo greco e romano non v’è traccia della parola responsabilità. Anche se nelle plurime virtù degli uomini omerici9 c’è sicuramente la sua presenza, essa non è tematizzata. Il concetto di responsabilità viene introdotto dalla tradizione ebraico-cristiana: alla domanda di Dio, l’uomo risponde attraverso la libertà, libertà che si realizza appieno proprio in questa adesione.

Preme qui far notare la presenza del termine (e del concetto) di libertà nella dinamica dell’esercizio della responsabilità.

La lingua greca e la lingua latina non hanno un vocabolo specifico per esprimere i concetti di responsabilità e di esser responsabile.

[…] La religione ebraico-cristiana inaugura una svolta anche per quanto riguarda il concetto di responsabilità di cui emerge il senso relazionale e responsivo (testimoniato linguisticamente dal respondeo latino).10

Si propongono ora (senza pretendere di esaurirle tutte) alcune declinazioni di significato del termine responsabilità. Non è ozioso soffermarsi su di esse perché ciascun contenuto di significato rivela una sfaccettatura del termine che può aprire spazi di riflessione. Si utilizza qui un lavoro di R. Turoldo, che nel suo libro Bioetica ed Etica della Responsabilità prende in esame molte implicazioni del termine responsabilità:

• imputazione: rispondere davanti a. Essere responsabili davanti a un altro che è vittima, dover rispondere al Giudice e alla Società, oppure al giudice interiore che è la Coscienza [Ricoeur]

• in senso antecedente: essere responsabili di un altro che ci è dato in carico (figlio) o che non conosceremo mai (generazioni future) [Weber, Jonas, Apel]

• risposta a un altro: richiama la virtù dell’amicizia

• come re-sponsio: impegno solenne preso nei confronti di un altro; promessa che viene fatta

• rem ponderare: capacità di valutazione, come «phronesis» (virtù della prudenza). Essa insegna a non applicare norme universali in modo astratto, come se dovessero valere indifferentemente per qualsiasi soggetto e per qualsiasi situazione, perché in fondo tutti i soggetti si assomigliano

• come resistenza (resistere, contrastare)

• come gestione sociale del rischio: il danno anche non colpevole, va risarcito, l’attenzione si sposta dal colpevole alla vittima (il debole, fragile, vulnerabile che come tale va salvaguardato) [Ricoeur].

[…] Tutti i significati e le etimologie proposte del termine responsabilità rimandano all’intersoggettività e alla reciprocità.[…] Un’etica della responsabilità potrà essere intesa in molti modi ma mai in senso solipsistico.11

3) La responsabilità è relazionale.

Emerge da quanto detto fino ad ora che non si può mettere in atto la responsabilità senza la relazione con un altro. Inoltre appare evidente che la relazione non si possa limitare al rapporto uno a uno ma si debba esplicare nei confronti della società e del mondo intero.

Il termine responsabilità ha due grandi significati: uno, che sembra essere diventato prevalente, rimanda alla dimensione dell’ imputabilità delle azioni, è il render ragione a sé e agli altri delle azioni che compiamo (essere responsabile di qualcosa). L’ altro, altrettanto rilevante, è la responsabilità come cura, come attenzione, come sollecitudine verso qualcuno o verso qualcosa.12

Il pensatore che ha approfondito in modo particolare il tema della responsabilità è stato Hans Jonas. Nel suo testo forse più noto Il principio responsabilità affronta perché, nel mondo odierno, dove sono andati persi i fondamenti e contenuti dei famosi valori condivisi, l’esigenza di comprendere il contenuto della responsabilità sia comparsa prepotentemente in molti uomini. 

La natura è caratterizzata da una intrinseca finalità, essa è la fonte originaria di tutti i “valori”. La natura custodisce dei valori in quanto custodisce degli scopi”.[…] Nella capacità di avere degli scopi in generale possiamo scorgere un bene in sé, la cui infinita superiorità rispetto ad ogni assenza di scopo dell’essere è intuitivamente certa.[…] Non è possibile retrocedere davanti all’autoevidenza [che questo enunciato] possiede.13

Jonas chiama responsabilità questo impegno a favore dell’essere e questa disponibilità a favorire la vita tramite la propria azione.

4) La decisione. Scelta della cura?

La decisione è un momento fortemente individuale, è il gesto con cui ci appropriamo simbolicamente del futuro, l’impronta leggera che cerchiamo di lasciare sulla superficie ancora immacolata, è il nostro rivelarci a noi stessi e agli altri.14

La decisione è un gesto, una azione che possiamo fare solo noi , essa contiene in sé una ipotesi di costruzione.

In questo senso siamo chiamati a rispondere anche della scelta di non agire, di non decidere: la responsabilità non riguarda soltanto le azioni, ma anche le omissioni, le azioni mancate, le decisioni di ritrarsi dalla scena pubblica.15

Attraverso la decisione/azione noi lavoriamo per incrementare una delle dimensioni costitutive della nostra identità.

Il richiamo alla responsabilità, infatti, non dovrebbe diventare la causa di un risentimento paralizzante, ma «dovrebbe servire per spingerci all’azione, pienamente consapevoli che in essa c’è qualcosa di nostro, che ci appartiene – anche se non in regime di proprietà privata».16

La responsabilità perciò non è spontaneità, ma non è neanche un peso che grava sulle nostre spalle. Spesso accade invece che noi viviamo la responsabilità proprio come una condanna.

Sartre descrive bene questa posizione che la nostra libertà può assumere: la definisce la tragedia della responsabilità. Ne L’existentialisme est un humanisme17 Sartre descrive la responsabilità come una terribile condanna che grava sulla condizione umana e ne mina la possibilità d’azione.

5) Lo scenario contemporaneo

Per valutare la situazione attuale occorre tenere conto della rivoluzione tecnologica in corso.

La tecnologia trasforma radicalmente la nostra esperienza.[…] In modo reale, perché muta le relazioni spazio-temporali con il nostro ambiente, con i nostri simili, con l’eredità delle nostre conoscenze (basti pensare alla cosiddetta rivoluzione informatica), con il nostro corpo (si pensi alla cosiddetta rivoluzione biotecnologica[…]), con la natura che ci circonda (con la possibilità di modificare le strutture dei viventi e di permettere di programmare animali e vegetali come macchine biologiche per produrre farmaci). E l’uso consueto del termine rivoluzione per descriverli indica la percezione della loro portata in riferimento sia all’esperienza concreta, sia alle modalità con le quali tendiamo a comprenderli.18

Secondo molte previsioni di analisti qualificati e dello stesso andamento del mercato, il lavoro medico, tipicamente intellettuale, può trovarsi in difficoltà, in pratica essere sostituibile, di fronte all’avanzata delle tecnologie robotiche e di quelle sofisticate innovazioni che utilizzeranno al meglio i big data.19 

Occorre anche descrivere l’impatto della aziendalizzazione sulla professione:

Il non-allineamento dei valori del professionista con le procedure aziendali[…] si verifica quando le procedure aziendali richieste dall’organizzazione inducono i professionisti ad azioni in conflitto con i valori della loro professione.[…] Le organizzazioni istituiscono procedure che dispongono routine e risorse con lo scopo di raggiungere degli obiettivi che spesso, oltre all’efficacia, includono anche l’efficienza e il rispetto di requisiti aziendali o legali.20

Un cambiamento di cui occorre tenere conto.

A causa dello sviluppo straordinario delle potenzialità e dei rischi della tecnica moderna, è venuta sempre maggiormente in evidenza la dimensione prospettica della responsabilità ed è per questo stesso motivo che oggi si discute tanto di responsabilità, mentre non se ne discuteva in passato, quando il raggio di influenza delle azioni umane, oltre ad essere molto limitato nel tempo e nello spazio, era facilmente ascrivibile a un soggetto individuale. 

L’operatore della sanità spesso è costretto dalle circostanze professionali ad assumersi la responsabilità della decisione nella scelta della cura (intesa come terapia, ma anche come procedure diagnostiche e in fondo come “atto ufficiale” che richiede la firma).

Tale decisione è spesso la risultante di un lavoro fatto da molti e questo lavoro a volte è solo “sommatorio” e non di équipe. Occorre anche essere consapevoli che la decisione non potrebbe essere presa se molti altri non avessero lavorato con noi “per” il malato. 

In ultimo, non è stato approfondito, anche se citato, il tema della responsabilità medico-legale. Essa è stata normata, in parte, dalla legge Gelli (Legge 8 marzo 2017, n. 24).21 Questa ha fra i suoi obbiettivi dichiarati quello di limitare la pratica della cosiddetta medicina difensiva.22

L’ingresso della legge nella professione medica è avvenuto nei paesi anglosassoni già alla fine dell’ottocento, come è documentato dalle prime sentenze in materia, e ha riguardato soprattutto la veste di obbligazione contrattuale.23 È del dicembre 2017 la legge italiana sul consenso informato e le decisioni anticipate di trattamento (Legge 22 dicembre 2017, n. 219).24

Deliberatamente non si è voluto approfondire questo vastissimo argomento nella persuasione che l’esercizio delle professioni sanitarie comporti una quota di “rischio” inevitabile. Tale rischio è contemporaneamente amplificato ma anche limitato dalla pratica del lavoro in equipe, senza dimenticare che nella gestione del rischio anche le strutture sanitarie che possono rivalersi sui professionisti.

Preme ricordare, per concludere, che il termine rischio ha assunto nel mondo sanitario una valenza negativa. Non sarà mai possibile (ma questo accade in tutte le professioni e mestieri) eliminare del tutto l’evenienza che si verifichino errori o incidenti. A questi, nel mondo sanitario, conseguono quasi sempre l’apertura di procedimenti legali che penalizzano anche moralmente i professionisti (basti pensare alla rilevanza mediatica che assumono). 

È nella relazione medico-paziente, di cui le considerazioni fino ad ora esposte hanno offerto spunti per una costruzione (o ri-costruzione), che anche il rischio può trasformarsi in lavoro positivo per il bene del paziente stesso e la salvaguardia dell’operatore.

Bibliografia

1. Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium (24.11.2013), n. 223

2. A. Papa,L’identità esposta: la cura come questione filosofica, Vita e Pensiero, Milano 2014, p.6

3. ivi, p.14

4. cfr. ivi, pp.3-22

5. A. Pessina, Paradoxa. Etica della condizione umana, Vita e Pensiero, Milano 2011, pp.77-78

6. ivi, pp.79-81

7. M. Cruz, Farsi carico. A proposito di responsabilità e di identità personale, Meltemi, Milano 2005, p.36

8. C. Cossutta, Farsi carico. Il tema della responsabilità in Manuel Cruz, in“Lessico di etica pubblica», 2 (2014), p.67

9. cfr. Alasdair McIntyre, Dopo la Virtù. Saggio di teoria morale (2 Ed.), Armando, Roma 2007

10. R. Franzini Tibaldeo, Responsabilità, in “Lessico di etica pubblica”, 3 (2012), p.185

11. Cfr R. Turoldo, Bioetica ed etica della responsabilità,Cittadella, Assisi 2009, pp. 40-43

12. A. Pessina, Ecologia, responsabilità e antropocentrismo, in “Medicina e Morale”65 (2016) pp. 709-713

13. H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1999, p. 102

14. C. Cossutta, op.cit., p. 69

15. ibidem

16. Ibidem

17. J.P. Sartre, L’existentialisme est un humanisme, Nagel Editions, Paris 1946

18. A. Pessina, Il bello dell’etica. Per una rilettura del rapporto tra essere e dover essere, in: R. Corvi (a cura di), Esperienza e razionalità, Franco Angeli, Milano 2005, p. 152

19. A. Panti, Questione medica. Guardiamo al futuro con parametri nuovi, Quotidianosanità.it 5 maggio 2018

20. A. L.Wright, R. F.Zammuto, P. W. Liesch, Maintaining the Values of a Profession: Institutional Work and Moral Emotions in the Emergency Department,  Academy of Management Journal, 60(2017) pp. 200–237

21. http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/03/17/17G00041/sg

22. Per una trattazione estesa vedasi G. Forti, M. Catino, F. D’Alessandro, C. Mazzucato, G. Varraso (a cura di), Il problema della medicina difensiva, ETS, Pisa 2010

23. cfr. L. Lenti, E. Palermo, P. Zatti (a cura di) Trattato di biodiritto. I diritti in Medicina, Giuffré, Milano 2011

24. http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/1/16/18G00006/sg

Decidere nell’ambito delle relazioni di cura: i vari fattori in gioco. Introduzione

Paola Marenco – Ematologa, Medicina e Persona

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In un corso intitolato “curare chi cura”, dopo la giornata sul bisogno (dell’operatore, oltre che del malato) e quella sulla relazione (sia tra professionista e paziente, sia nell’équipe e nella multidisciplinarietà), la terza giornata è dedicata a lavorare sulla responsabilità nella cura, che coinvolge temi inerenti decisioni e scelte da compiere. Questo in un tempo in cui la responsabilità appare come una grande assente, che si ha paura di evocare o al massimo lo si fa riduttivamente. Invece in medicina si sceglie sempre, si decide sempre, e anche quando non si vuole decidere. Si può decidere di non decidere, come ogni volta che opera la libertà umana, ma qui la conseguenza è immediatamente visibile e diretta. 

Un equivoco oggi diffuso, che peraltro conferma quanto appena detto, è che la parola responsabilità evoca in genere l’idea di responsabilità legale e quindi di medicina difensiva. Ecco, non è di questa che ci vogliamo occupare ora! 

L’operatore sanitario sia esso medico, infermiere, psicologo, fisioterapista o direttore sanitario è  un professionista, non un impiegato. Etimologicamente professione significa parlare di fronte, dichiararsi. Propone una specifica competenza, ma insieme alla conoscenza della materia esprime un’antropologia, una concezione dell’uomo che precede la scienza e l’etica. E a questo si lega anche il prendersi cura o meno di lui, dei suoi limiti, delle sue infermità, del suo bisogno. Strano pensiero della modernità e della post-modernità attuali ritenere che si possa curare senza riferirsi ad una concezione dell’uomo, dichiarata o implicita. Si decide comunque, e sempre in base a qualche criterio o scala di priorità: anche chi non vuole decidere, di fatto lo fa in base a leggi, procedure, deleghe e linee guida, magari non condivise o utilizzate in maniera impropria come vincolanti e non come suggerimenti da adattare a un soggetto. Una questione di responsabilità…

Quando ci si assume la responsabilità di una persona che domanda di essere presa in cura? 

L’attenzione del professionista inizia con lo sguardo. Prima ti devo guardare, decidere di guardare te negli occhi (non scrivendo al pc le risposte alle domande anamnestiche senza guardarti…) per considerare te persona sofferente e l’intero tuo bisogno, non solo la tua patologia. 

Occorre poi che ti “riconosca”, che possa riconoscermi in te, in quanto condividiamo la medesima umanità. Per curarti devo intimamente riconoscere che potrei essere io ad avere bisogno di cura. Ed è solo a livello di questa “comune vulnerabile umanità” che la relazione medico-paziente è veramente paritaria. Infatti malato viene da male aptus, malconcio, ed è una condizione che riguarda tutti, in quanto bisognosi di cura, di esser presi in cura da qualcuno. Per inciso: circa la competenza, la relazione di cura per definizione non può invece essere che asimmetrica. E fortunatamente lo è, altrimenti non potrei esserti utile! A questo inoltre si correla (cfr. Belardinelli) lo stabilirsi della fiducia, che compare e si sperimenta nel tempo.

Quando ti ho guardato e riconosciuto nella comune umanità, allora posso usare la mia libertà per prenderti veramente in cura. Questo fonda la relazione tra due libertà in gioco, al di là della prestazione. Mi assumo la responsabilità di curarti, sono a pieno titolo professionista.

Qui la parola responsabilità (che deriva da rispondere) assume il suo vero contenuto: rispondo a te, che hai bisogno e domandi di me. Responsabilità è che rispondo a te. Anche alla Direzione, alla Regione, certo: ma il primo mandato è occuparmi a curare te.  

Solo allora si possono considerare senza confusioni le conseguenze incluse nel concetto di responsabilità: decidere, scegliere. Come dicevo, in medicina si sceglie sempre: fare o non fare un intervento, un esame, una radiografia, una TAC o una Risonanza o nessuna delle due, una cura, quante compresse dare, quale antibiotico, un ricovero o una cura a domicilio, sentire o no il collega specialista per un parere, l’assistente sociale per una valutazione sul territorio, il Medico di medicina generale, e così via. Fino alle scelte più impegnative: di portare o no in rianimazione, di intervenire in maniera invasiva o no, di sospendere le terapie curative o tentare ancora… Scelgo per la responsabilità che mi sono assunto nella relazione di cura intrapresa, accettata, confermata ad ogni incontro che mi permette di conoscere te, con i tuoi desideri, il contesto di vita, il lavoro che fai, la tua famiglia, le paure…, oltre che le condizioni di cuore, rene, fegato e polmone.

Questo si traduce in azioni professionali e nell’organizzazione di percorsi di cura e dei luoghi stessi della cura: ad esempio, il consenso informato al trapianto di midollo. Nel nostro Centro è presente sin dal primo trapianto (1986). Ma lo abbiamo concepito come un punto di arrivo, e non di partenza, perché non è il consenso che fa la relazione, ma esattamente il contrario: è la relazione che permette un vero consenso informato. Infatti, sul piano organizzativo, il paziente che arriva al Centro Trapianto dopo un periodo di conoscenza, nel corso della sua chemioterapia ad es. per leucemia acuta, svolge un primo colloquio generale. Mentre si cerca il donatore adeguato, effettua una serie di accessi ambulatoriali al Centro con visite ed esami per valutare tutto quanto potrebbe costituire un problema o aumentare i rischi trapiantologici. Nel frattempo ci si conosce, anche con la famiglia, si stabilisce un rapporto di fiducia, ci si prepara a lottare insieme. Al termine di questo periodo ci si ritrova l’uno di fronte all’altro, con il familiare che il trapiantando vuole presente, e si quantifica il rischio, si rispiegano le procedure, si soppesano insieme rischi e benefici fino a decidere insieme la strada da percorrere. Per noi questo è consenso informato. Qui il paziente può porre la domanda: ma il rischio poi si risolve? E si sente rispondere che vi è un rischio anche di vita! Cosa oggi inaudita, contro le naturali difese dall’angoscia della morte (innominabile). A questo punto uno chiede la Cresima. Un altro pone una questione radicale: dottore, se fosse sua sorella lei lo farebbe? Siamo chiamati a metterci in gioco, ovviamente dati alla mano (cfr. la “relazione asimmetrica”). Mettersi in gioco significa esporsi, fino alla domanda di Giobbe: perché e perché a me? Anche se non ho la risposta, ci sto, mi pronuncio, rimango con te di fronte a una domanda che è anche la mia. Il rischio assunto e condiviso apre un tempo intenso che arricchisce la relazione di cura e rende il percorso più consapevole. Prima del trapianto questa continuità favorisce l’esperienza di essere insieme. Poi, durante il ricovero per il trapianto, si lotta insieme, scegliendo e difendendo ogni particolare. E dopo il trapianto è la stessa équipe a prendersi cura del paziente: se lentamente traluce la possibile guarigione, dall’altra parte compaiono anche i possibili  effetti collaterali o le complicanze, mentre riprende la vita solita (la famiglia, il lavoro). Ma non è più quella di prima. In caso di recidiva sarà all’interno della medesima relazione di cura che si prenderanno le decisioni, anche le più difficili. Tutto ciò si traduce a volte in piccoli aspetti organizzativi: un punto di riferimento, il farsi trovare, la continuità, insomma esserci e, in certi momenti, in punta di piedi. Una posizione che, tra l’altro, permette all’operatore incontri con ricchezze umane straordinarie, esperienze spesso sorprendenti. Ognuno di noi ne custodisce testimonianze preziose, la vera ricchezza del nostro arduo lavoro!

Altri esempi potrebbero essere fatti in vari campi. Ad es. analoga situazione vive il Medico di medicina generale, che del malato porta la responsabilità e spesso ha una pluriennale conoscenza di lui, del suo territorio di vita abituale, del suo contesto familiare, di come ha affrontato altre malattie: tutti elementi che aiutano a scegliere.

Oppure le scelte nel momento del fine vita, attraverso l’esperienza di un Palliativista, possono costituire un evidente esempio di responsabilità vissuta nella relazione di cura. 

Altrettanto interessante da capire è il processo decisionale di un Chirurgo che assume la relazione di cura come metodo adeguato a trattare il paziente, magari molto anziano e con polipatologie, al di là dei canoni valutati negli studi base delle linee guida sui rischi/benefici di un certo intervento.

Cosa significa per ognuno di noi operatori vivere nello specifico la responsabilità professionale?