Coscienza dell’io e intersoggetività in neurobiologia

Leonardo Fogassi – Docente di Neurofisiologia Università di Parma, Dipartimento di Neuroscienze

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Premessa

Il titolo della mia presentazione è un po’ altisonante: in realtà vorrei presentarvi alcuni meccanismi di base della formazione di un sé minimale e di come questo sé può definire un altro sé. Lo studio dei meccanismi neurobiologici è molto importante, ma con la precisazione che le ricerche nelle neuroscienze o nella psicologia sperimentale non basano gli studi sull’uomo. È vero, lo vedremo, che adesso le tecniche sono sempre più progredite e ci permettono di andare più a fondo dentro il cervello umano. Però se parliamo di meccanismi ci sono diversi livelli di risoluzione e per studiare qualcosa in profondità devo andare alla radice: come quando, iniziando gli studi sul cervello, si è riusciti a studiare il singolo neurone e le sue caratteristiche, anche qui occorre tener presente che se vogliamo studiare in profondità i meccanismi, lo possiamo fare per ora solo sull’animale. Cioè l’animale diventa un modello dei meccanismi che agiscono all’interno del cervello umano.

La premessa serve per passare ad un secondo punto: quando si parla della rappresentazione del sé, c’è spesso la tendenza a parlarne in termini sensoriali. In realtà però quello che vediamo dalla nostra prospettiva è che parte molto importante della costruzione del sé è l’aspetto motorio: è la filosofia della scuola di Parma, sin da quando abbiamo cominciato ad affrontare la questione dell’organizzazione cerebrale in relazione ai movimenti. Una citazione da Gallese e Sinigaglia (2010) può illuminare a tal proposito: “La nostra esperienza di ciò che ci circonda non può fare a meno di essere accompagnata dall’esperienza di noi stessi come potenzialità di azione del corpo, cioè, come la varietà di azioni potenziali che appartengono al nostro repertorio motorio, il quale in un certo contesto ci si offre a portata di mano”. Anticipiamo così quello che si dirà dopo. 

Alla citazione fatta che, introduce aspetti relativi soprattutto al sé, possiamo già aggiungere un cenno ai meccanismi che saranno affrontati successivamente: “Prima di qualsiasi esplicito riconoscimento riflessivo di sé, in quanto autori delle nostre azioni e/o proprietari del nostro corpo, c’è un senso di sé come sé corporeo che, per il fatto di poter costruire intrinsecamente una molteplicità di possibilità motorie ha a che fare attivamente con altri sé corporei, plasmando contemporaneamente le esperienze corporee proprie ed altrui.” (Gallese 2014)

A riscontro sperimentale del concetto, innanzitutto è interessante notare come il sé motorio sia già fortemente presente ancor prima della nascita. Alcuni autori, utilizzando tecniche ecografiche molto sofisticate, hanno mostrato che il feto all’interno dell’utero ha numerosi movimenti e la cosa molto significativa è che, potendo studiare i movimenti dall’esterno nei loro parametri cinematici, si è visto che a 22 settimane il feto ha dei “pattern motori” simili a quelli dell’adulto. Quindi il primo punto è che il feto produce movimenti che non sono casuali, ma che prefigurano quelli che avrà dopo la nascita. Da uno studio del gruppo di Castiello si sa inoltre che i feti gemelli già dalla 14° settimana hanno questi profili cinematici, cioè movimenti organizzati che sono diretti a se stessi o al gemello, ed è interessante notare che c’è un intervallo tra la 14° e la 17° settimana in cui si assiste ad una riduzione dei movimenti diretti verso il proprio corpo ed un aumento di quelli diretti verso il gemello. Quindi la presenza di un’intersoggettività vi è già nello stadio fetale. 

Corteccia motoria e sé corporeo

Ora vorrei partire da un esempio, attinto dai nostri studi, che nasce dallo studio dei meccanismi all’interno di un’area della corteccia cerebrale di scimmia che fa parte della corteccia motoria.

In quest’area esistono dei neuroni che rispondono normalmente quando la scimmia fa movimenti quali ad es. raggiungere o orientarsi con la testa, quando esegue una mimica facciale, quando porta qualcosa verso il proprio corpo. Vi sono però altre peculiari proprietà, oltre a queste: cioè esistono altri neuroni (singoli neuroni, non popolazioni) che rispondono quando si applicano delle stimolazioni tattili alla faccia, al tronco e al braccio. Ma ancora più interessante è il fatto che una parte di questi neuroni rispondono quando si avvicina uno stimolo, un oggetto, verso la regione che era stata stimolata tattilmente, e che aveva già provocato la risposta di questo neurone. In altre parole, questi neuroni sono bimodali, cioè rispondono alla stimolazione tattile ed alla stimolazione visiva. Tra poco si comprenderà perché questo ha importanza.

Ecco un esempio preso da uno studio sulla scimmia: la risposta tattile del neurone avviene toccando la guancia e la risposta visiva è provocata da uno stimolo che si avvicina verso la guancia. Sono molti i neuroni di questo tipo, che presentano risposte bimodali relative a varie parti corporee: parti corporee che sono rappresentate dal punto di vista motorio in questa stessa area.

Quindi riassumendo: un’area cerebrale che controlla gli atti del braccio, della testa, della faccia, risponde sia a stimolazioni tattili del corpo sia a stimolazioni visive, che – dato importante – sono esattamente in registro con quelle tattili. Poi vi sono addirittura dei neuroni trimodali, che oltre a rispondere alla stimolazione tattile e visiva, rispondono anche alla presenza di un rumore esattamente nella posizione da dove viene la stimolazione visiva. Questo ha una sua congruenza, cioè abbiamo delle risposte che si caratterizzano in senso spaziale.

Verrebbe da pensare che queste siano risposte puramente sensoriali, ma noi ci troviamo in un’area motoria, perciò è stato sorprendente trovarle originariamente in essa. La risposta a questa apparente contraddizione viene da una particolare interpretazione: questi neuroni in realtà non sono neuroni sensoriali, sono neuroni che utilizzano questo tipo di stimolazioni per evocare una rappresentazione, un riconoscimento dello spazio intorno al soggetto in termini motori. In altre parole, quando qualcosa viene avvicinato al mio corpo, è come se in realtà io dovessi fare un atto di raggiungimento in direzione di questo stimolo, anche se esso non viene realmente eseguito. È una rappresentazione: nel caso in cui questa rappresentazione mi sia utile per agire sull’oggetto, la metto in atto, ma se non ne ho bisogno rimane a livello di pura rappresentazione mentale.

Una cosa interessante osservata sperimentalmente è che avvicinando un oggetto alla scimmia con velocità diverse, quando la velocità aumenta l’inizio della risposta visiva si sposta indietro nello spazio, e ciò è in assonanza con un’interpretazione motoria, nel senso che ovviamente se uno stimolo mi viene addosso più velocemente, devo essere più pronto a far partire un atto, per es. di parata o di raggiungimento. Quindi in qualche modo queste risposte mi forniscono l’anticipazione di un atto motorio che potrei potenzialmente svolgere. 

Il fatto che la rappresentazione motoria sia così importante per la formazione del “sé corporeo”, chiamiamolo così, si vede molto chiaramente da un bellissimo esperimento, fatto da studiosi giapponesi. Essi hanno trovato innanzitutto che, in una determinata regione cerebrale, c’erano dei neuroni che rispondevano alla stimolazione tattile della mano e quando un oggetto veniva avvicinato verso la mano mostravano delle proprietà simili ai neuroni descritti prima. Poi hanno istruito una scimmia ad usare una specie di racchetta da croupier per prendere del cibo che era fuori portata della mano; dopo che la scimmia aveva imparato (impiega abbastanza poco, circa una decina di giorni) si osservava che la risposta visiva studiata precedentemente si era allargata a comprendere lo strumento che la scimmia utilizzava. Nella rappresentazione corporea della scimmia, lo strumento è diventato come un prolungamento del proprio braccio, quindi anche i campi visivi aumentano la loro estensione a comprendere la zona occupata dallo strumento.

Questo come è successo? Perché la scimmia ha agito sull’ambiente, ha agito in una zona che noi chiamiamo “spazio peri-personale”, cioè lo spazio che sta attorno a noi.

Riconduciamoci ora alla neuropsicologia. Noi sappiamo che esiste una sindrome, chiamata eminegligenza unilaterale, che consiste nel fatto che pazienti che hanno una lesione al lobo parietale di destra, non sono consapevoli degli stimoli presentati alla loro sinistra. Questa sindrome interessa sia gli aspetti percettivi corporei, che extracorporei, a livello percettivo e a livello rappresentativo. In quest’ultimo caso il paziente non riesce ad immaginarsi ciò che si trova nella parte sinistra dello spazio esterno. È interessante notare come in alcuni di questi pazienti vi può essere un’ulteriore diversità: alcuni presentano questa sindrome solo nel proprio spazio peri-personale, oppure nello spazio extra-personale (cioè fuori portata).

Qui si vede il collegamento tra l’esperimento che vi ho detto prima e quello che è stato visto da due sperimentatrici italiane (Berti e Frassinetti, 2000), le quali hanno sfruttato lo studio eseguito sulla scimmia. Hanno studiato dei pazienti con eminegligenza, che presentavano l’eminegligenza solamente nello spazio peri-personale. E il compito che hanno chiesto a questi pazienti era di tracciare la metà di una linea su un foglio di carta con una penna e la metà di una linea a tre metri di distanza con un puntatore laser. Si vedeva che i pazienti quando dovevano fare la bisezione sulla carta la spostavano verso destra, a causa appunto dell’eminegligenza dello spazio di sinistra, quando facevano invece la bisezione con il puntatore laser, da lontano, essa era perfetta.

Dimostrata la dissociazione, hanno chiesto a questi pazienti di prendere una bacchetta in mano, la cui punta potesse raggiungere il muro, e di ripetere la bisezione della linea presentata sul muro, questa volta con la bacchetta. Questa volta i pazienti sbagliavano e indicavano la linea di mezzo spostata verso destra. Quindi l’uso dello strumento, cioè delle proprie rappresentazioni motorie, fa sì che lo spazio peri-personale si espanda e così pure l’eminegligenza presente in questo spazio si espandeva a racchiudere lo spazio coperto dallo strumento. 

Qui si evidenzia anche una nozione di notevole plasticità dell’io corporeo, che utilizza le proprie rappresentazioni motorie per conoscere lo spazio che si trova intorno a lui.

È da notare che già i fenomenologi avevano presupposto questo tipo di conoscenza dello spazio e degli oggetti, come Husserl per esempio, o Merleau-Ponty. Quest’ultimo dice appunto (1962) che “I punti dello spazio indicano, nella nostra vicinanza (non dice gli oggetti sensoriali, percepiti), il raggio d’azione dei nostri scopi e dei nostri gesti”. Per l’uomo (e anche per l’animale) il comportamento motorio è fondamentale per la conoscenza del mondo.

I “neuroni specchio”

Quale passaggio ci permette di collegare la nostra conoscenza personale con quella dell’altro? Si potrebbe essere tentati di pensare che il riconoscimento del comportamento dell’altro possa essere raggiunto attraverso delle analisi puramente visive, come se l’altro fosse uno stimolo con particolari caratteristiche, perché essendo uno stimolo biologico è diverso da tutti gli altri oggetti. In effetti questo in parte è vero, perché se noi andiamo a vedere cosa succede nelle aree visive, per es. nel lobo temporale, sappiamo che ci sono dei neuroni che si attivano quando la scimmia vede immagini di mani che svolgono degli atti per prendere, per strappare, ecc.; oppure ci sono neuroni specifici per il riconoscimento delle facce, cioè riescono a riconoscere che una faccia non è un oggetto ed addirittura riescono a riconoscere delle facce specifiche.

Alcuni di voi probabilmente conosceranno la sindrome della prosopagnosia, che è presente in persone che non sono in grado di riconoscere i volti familiari (riconoscono che un volto è un volto, ma non riconoscono che quel volto è familiare), ed è modalità-specifica, perché se l’individuo parla lo riconoscono dalla voce, quindi è limitata all’ambito visivo. Tale conoscenza non sembra partire dall’interno, anzi in qualche modo fa riferimento ad una pura analisi del mondo esterno. 

Quello che il nostro gruppo di ricerca ha cercato di dimostrare in questi anni è che, partendo dalle nostre rappresentazioni motorie, possiamo attribuire un significato a quello che fanno gli altri.

Abbiamo studiato in particolare un’area della corteccia motoria e in essa particolari neuroni che abbiamo chiamato “neuroni specchio”: sono neuroni che si attivano sia all’esecuzione da parte di una scimmia di atti finalizzati, sia all’osservazione di un altro agente che esegue lo stesso atto o un atto simile di fronte al soggetto sperimentale. Ora, la proprietà più rilevante di questi neuroni è che vi è una congruenza tra ciò che viene fatto e ciò che viene visto, cioè rispondono ad atti che sono tra di loro simili, eseguiti e osservati. È in base a questo che possiamo dire che il sistema a specchio svolge una comparazione tra l’azione osservata e l’azione eseguita, basandosi sul fatto che nel nostro sistema motorio ci sono delle memorie motorie dei nostri atti. È il nostro repertorio motorio, che noi abbiamo sempre, che, quando ci serve, usiamo per eseguire le azioni, ma lo usiamo anche unicamente come rappresentazione, quindi quando vediamo, o anche ascoltiamo il frutto di un atto motorio, immediatamente queste stimolazioni sensoriali attivano questa nostra memoria motoria e di qui emerge la rappresentazione.

Noi sappiamo che le stimolazioni sensoriali che attivano il sistema specchio vengono da qualcosa che è stato fatto da un altro agente. Si potrebbe pensare: ma se queste rappresentazioni si attivano, come mai non ci muoviamo a nostra volta automaticamente? Non ci muoviamo perché nel sistema esiste una inibizione interna, una soppressione, che è già cablata, diciamo così, nel sistema, tanto è vero che ci sono dei pazienti, i cosidetti ecoprassici, che quando vedono un gesto fatto dal medico, dallo sperimentatore, immediatamente lo ripetono; evidentemente in questi pazienti manca questa sorta di inibizione.

Quindi, come scrive Gallese, “il meccanismo ‘mirror’ ci permette di riconoscere gli altri come se fossero noi stessi. Attraverso la risonanza del sé corporeo, gli altri diventano come dei secondi sé; e questa è un’esperienza più vivida di intersoggettività…” rispetto ad atteggiamenti proposizionali che noi potremmo avere sull’esperienza degli altri, cioè a una descrizione semplice, ragionata su quello che gli altri fanno. Notare che questi neuroni rispondono nello stesso momento in cui noi osserviamo, quindi la loro risposta ci dà la possibilità di operare un riconoscimento automatico, senza bisogno che ci pensiamo sopra, altrimenti si impiegherebbe un tempo molto lungo (almeno un secondo) per capire; invece tramite i neuroni specchio la comprensione è immediata. Gallese per spiegare questo meccanismo ha proposto, riagganciandosi alla teoria della simulazione, l’ipotesi che in esso agisca una specie di imitazione incarnata: in altre parole noi, durante l’osservazione, ri-attivaremmo quegli stessi meccanismi che intervengono quando noi esperiamo un determinato comportamento e questo avverrebbe anche quando gli altri, di fronte a noi, hanno esperienze simili alle nostre. 

Naturalmente diventa interessante sapere se ci sono neuroni che si attivano solo quando si esegue, o solo quando si osserva, o si attivano in entrambi i casi. Fino ad un po’ di anni fa esistevano solamente la prima e la terza categoria, esistevano cioè solo i neuroni motori e i neuroni specchio, ma un gruppo di ricercatori giapponesi ha messo in evidenza l’esistenza di un gruppo di neuroni, in una determinata regione della corteccia cerebrale, che si possono attivare in una situazione intersoggettiva, nella quale due scimmie, poste una di fronte all’altra, stanno svolgendo un compito “insieme”. Alcuni neuroni si attivano solo quando una delle scimmie esegue un’azione, altri solo durante l’osservazione dell’altra scimmia, e altri si comportano come neuroni specchio, cioè che si attivano nell’una e nell’altra condizione. Quindi nel nostro cervello entrambe le condizioni sono rappresentate, singolarmente ma anche combinate a livello di neuroni specchio, meccanismo che potrebbe essere alla base delle nostre capacità di rispecchiamento. 

In alcuni studi è stata osservata un’altra cosa interessante, cioè che se di fronte ad un animale vengono svolte (o mostrate attraverso video) delle azioni di afferramento eseguite da varie prospettive, per es. dal punto di vista soggettivo (come se fosse la scimmia stessa che sta compiendo l’azione) oppure di lato o di fronte, si vede che ci sono categorie differenti di neuroni: alcuni non sono sensibili alla diversità di prospettiva da cui viene fatto l’atto motorio (noi infatti siamo capaci di riconoscere un atto finalizzato indipendentemente da dove venga fatto e dal tipo di prospettiva da cui viene presentato), mentre altri distinguono prospettive differenti. Il che è importante, perché dice che verosimilmente il meccanismo specchio nasce quando il bambino interagisce con il mondo esterno e contemporaneamente ha la rappresentazione visiva, il feedback visivo di quello che sta facendo; il feedback visivo probabilmente viene generalizzato alle azioni che sta compiendo un altro individuo, e quindi questo potrebbe essere un processo ontogenetico mediante il quale si costruisce il sistema dei neuroni specchio. È ovvio che non sto dicendo che il meccanismo specchio si genera da capo in ogni individuo durante l’ontogenesi, è un sistema che sicuramente è già presente alla nascita perché è il risultato di una filogenesi, ma utilizza anche il dato esperienziale per costruirsi in maniera complessa e specificarsi. 

Un altro aspetto interessante è quello che riguarda lo spazio delle relazioni intersoggettive: se questi atti finalizzati, svolti da un altro agente, vengono fatti nel nostro spazio peri-personale o nello spazio extra-personale, esistono neuroni specchio che possono rispondere in maniera diversa, rilevando la distanza dell’altro da me. Per es., vi sono dei neuroni che rispondono solo quando un altro svolge l’atto solo nello spazio extra-personale, ma non nello spazio peri-personale, mentre altri si attivano quando avviene il contrario. Questo fa pensare a una risposta finalizzata al tipo di risposta che l’osservatore deve dare: immaginate un atto svolto vicino a me, cosa molto importante per es. per la cooperazione, e un atto svolto lontano, il quale implica necessariamente che se voglio agire all’interno della scena in cui si svolge l’azione devo muovermi e la risposta motoria che devo dare è di tipo differente. 

L’altro e il contatto emotivo

Nell’uomo, per studiare il sistema specchio, sono stati fatte ricerche con molte tecniche, dall’elettroencefalografia alla stimolazione magnetica transcranica, ai metodi di neuroimmagine, che adesso sono tra i più utilizzati. La stimolazione magnetica transcranica ci fa vedere una cosa molto importante: quando dei soggetti svolgono di fronte ad un osservatore degli atti finalizzati, con la stimolazione magnetica transcranica vediamo che si attivano dei muscoli (mediante l’elettromiografia) corrispondenti a quelli che il soggetto utilizzerebbe se fosse lui stesso a svolgere l’atto che sta osservando, come è stato dimostrato facendo appunto eseguire al soggetto lo stesso tipo di atto. In questo modo notiamo che esiste una ‘risonanza’, durante l’osservazione, di quello che è il comportamento dell’altra persona sulle mie rappresentazioni motorie, in altre parole si attiva la mia corteccia motoria. Ma l’attivazione della corteccia motoria non vuol dire che io so esattamente la regione che si attiva: infatti per saperlo è stato necessario utilizzare delle tecniche di Risonanza Magnetica. Tale tecnica, oltre a farci vedere com’è fatto il cervello di una persona sana o di una persona con delle patologie, può mostrarci, con l’aggiunta dell’attivazione funzionale, quali sono le aree cerebrali che si ‘accendono’ durante l’esecuzione di vari compiti, che vanno dai più semplici ai più complessi. Una tecnica che ci permette di affrontare delle problematiche, inizialmente studiate dalla psicologia sperimentale, direttamente durante il compito eseguito dall’individuo nello scanner. Queste investigazioni ci hanno dunque confermato che nell’uomo esiste un sistema specchio, come nella scimmia, cioè un sistema parieto-frontale che risponde durante l’osservazione ed esecuzione di azioni.

Tra le attivazioni dovute all’osservazione delle azioni degli altri ce n’è una che, almeno all’inizio, è parsa sorprendente: l’attivazione dell’area di Broca, che è l’area coinvolta nella produzione linguistica. Vi è una risonanza motoria dell’area di Broca ad es. quando vedo una persona che sta compiendo un atto di afferramento oppure quando vedo un altro che fa un atto con la bocca, o fa anch’esso un movimento di afferramento, o quando esegue un gesto comunicativo.

L’attivazione dovuta all’osservazione delle azioni altrui è addirittura organizzata nella corteccia cerebrale come una mappa: quando noi osserviamo altri che svolgono degli atti finalizzati (nel caso dell’uomo l’attivazione si ha pure all’osservazione di atti mimati, senza l’oggetto), la corteccia motoria che si attiva lo fa in modo corrispondente al tipo di effettore osservato. Cioè se vediamo una mano che afferra si attiva una certa area della corteccia motoria, se una bocca se ne attiva un’altra, se un piede un’altra ancora. Tutto ciò è molto simile al famoso omuncolo motorio descritto da Penfield e collaboratori negli anni ’50 mediante stimolazione elettrica della corteccia motoria. Quindi le nostre rappresentazioni motorie in realtà sono molto ben organizzate, e vengono “recuperate”, passatemi il termine, quando osserviamo qualcun altro che utilizza queste stesse parti per svolgere un’azione. 

Quello di cui abbiamo parlato finora riguarda quello che potremmo definire delle “azioni fredde”. Ma noi degli altri siamo anche capaci di riconoscere i comportamenti “caldi”, cioè quelli riguardanti gli stati d’animo, le emozioni. Siamo normalmente abituati a riconoscere le emozioni altrui tramite l’osservazione delle espressioni facciali, categorizzate da alcuni studiosi. Ma il problema è: come facciamo noi a riconoscere questi stati d’animo? È perché etichettiamo determinate espressioni o perché le viviamo dall’interno? Ecco, gli studi da questo punto di vista fanno vedere che la seconda interpretazione ha sicuramente una sua validità.

In uno studio di risonanza magnetica funzionale, in una certa condizione sono state mostrate a dei soggetti delle espressioni di disgusto o piacere eseguite da un attore che faceva finta di odorare da un bicchiere (condizione ‘sé’); in un’altra condizione era il soggetto stesso che doveva odorare questi inalanti disgustosi o piacevoli (condizione ‘altro’).

Il punto era: esistono delle regioni cerebrali che non si riferiscono solamente al sé o all’altro, ma che abbiano una qualche forma di sovrapposizione dell’attivazione? Sì queste regioni esistono, e risiedono nell’insula, una particolare area cerebrale che è fortemente coinvolta nell’affettività e che, nota bene, interviene nel provocare determinate reazioni non di tipo motorio-somatico, ma di tipo motorio-viscerale, come per es. l’aumento del battito cardiaco, il cambiamento della pressione, la liberazione di adrenalina, ecc. Potremmo dire che nell’insula vi sono rappresentazioni viscero-motorie così come nella corteccia motoria ci sono quelle somatiche. 

Ecco allora che quando osserviamo la faccia disgustata di un altro si attiva la stessa area viscero-motoria che si attiva quando io sono disgustato. Diversi studi neuropsicologici mostrano come questa stessa regione dell’insula, quando viene lesa, produce un’incapacità di provare disgusto da parte del paziente e anche un’incapacità di capire il disgusto nell’espressione disgustata dell’altro. Quindi in questo caso il fenomeno di rispecchiamento consisterebbe nel comparare l’emozione dell’altro, passando attraverso l’espressione facciale o corporea, sulla stessa regione che si attiva quando sono io a provare questa emozione. In altre parole, parlando di empatia emozionale, parliamo ancora una volta di una comprensione che è di tipo automatico, profondamente interiorizzata perché fa riferimento ad una nostra conoscenza in prima persona.

Lo stesso principio è stato dimostrato riguardo al dolore, mio e dell’altro: anche qui l’insula e la corteccia cingolata anteriore, che fanno parte del sistema limbico, si attivano sia durante l’osservazione del dolore dell’altro sia quando provo io lo stesso tipo di dolore. 

Le basi del rispecchiamento

Riassumendo, potremmo dire che i meccanismi di rispecchiamento presenti nel nostro cervello riflettono il legame intrinseco tra identità e alterità che caratterizza l’esperienza dei nostri sé corporei che agiscono ed esperiscono emozioni, azioni e sensazioni.

Per cercare di concludere, mi limito a un accenno sulla risonanza linguistica, di cui si potrebbe parlare estesamente. Partiamo ancora dalla scimmia, nella quale si è visto che i neuroni specchio sono in grado di entrare in gioco non solo quando la scimmia esegue o osserva un atto di ingestione (di cibo o bevande), come per es. afferrare del cibo con la bocca o succhiare, ma anche quando la scimmia osserva lo sperimentatore che fa un gesto comunicativo di natura scimmiesca ed essa risponde con un gesto comunicativo. Perciò anche questa volta abbiamo entrambi i tipi di risposte, motoria e visiva, a rappresentare lo stesso gesto. 

Ho fatto questo esempio perché si ritiene sia alla base dell’evoluzione della comprensione linguistica. Sappiamo, grazie a studi di tipo evolutivo-comparato, che vi sono regioni, nel lobo frontale della scimmia e dell’uomo, che possono considerarsi omologhe, per cui le cortecce premotorie della scimmia sono omologhe delle cortecce premotorie dell’uomo, e in particolare l’area F5 della scimmia, che contiene i neuroni specchio, può essere considerata omologa all’area di Broca. Gli studi di risonanza funzionale già dimostrano che l’area di Broca si attiva per l’osservazione di gesti comunicativi, così come essa si attiva per es. per la lettura di parole, ma una cosa molto importante è dimostrare che esiste già di base una risonanza già a livello fonologico. 

Il collega Fadiga, con cui abbiamo scoperto i neuroni a specchio, ha svolto insieme ad altri ricercatori un esperimento in cui a dei soggetti veniva chiesto di ascoltare delle parole o pseudo-parole contenenti delle doppie consonanti, nel primo caso una doppia “r” (p.es. birra o berra), nel secondo caso una doppia “f” (p.es. coffa o ciffo), consonanti cioè che richiedono, per essere pronunciate, un movimento della lingua di tipo diverso, più robusto nel caso della doppia r, meno robusto nel caso della doppia f. Durante l’ascolto di ogni parola, nel momento cruciale, cioè quando veniva presentata la doppia consonante, si dava uno stimolo magnetico per permettere di evidenziare i muscoli della lingua che si attivano in quel momento. E il risultato è stato che c’è una maggiore attivazione quando il soggetto ascolta delle parole con doppia “r”, sia parole che pseudo-parole, rispetto a quando ascolta parole o pseudo-parole contenenti una doppia “f”. Non solo, se si fa un confronto tra parole da una parte e pseudo-parole dall’altra, si vede che l’attivazione dovuta alle parole è maggiore di quella dovuta alle pseudo-parole. Quindi da questo studio emergono due conclusioni importanti: quando ascoltiamo delle parole vi è una risonanza fonologica, ma viene captata anche un’informazione semantica. Ciò suggerisce cosa accade nel bambino che sta imparando a parlare: entra in risonanza fonologica, ma contemporaneamente comprende anche il significato. 

Ora facciamo un ultimo passaggio, su quello che succede nei bambini. Esiste già nei bambini un sistema di rispecchiamento e quanto presto dalla nascita? Molti studi si sono concentrati negli ultimi anni sullo studio del ritmo “mu”, che è un ritmo elettroencefalografico leggibile a livello della corteccia motoria, che si abbassa (desincronizza) quando si fanno delle azioni o si osservano delle azioni, come si è visto nell’adulto. Anche nel bambino è stato dimostrato che questo accade, ed è esattamente un ritmo simile a quello che troviamo nell’adulto. Addirittura è stato visto che questo tipo di attivazione della corteccia motoria si ha nei bambini a cominciare almeno dai 6-7 mesi. Sono studi condotti ovviamente con tecniche utilizzabili nei bambini: l’elettroencefalografia oppure per es. la spettrografia a raggi infrarossi (metodi non invasivi, che consentono la collaborazione del bambino).

Recentemente sono stati fatti degli studi sul fenomeno della imitazione neonatale, che è stata proposta per la prima volta da Meltzoff, che negli anni ’70 l’ha osservata in bambini che, a poche ore dalla nascita, guardavano lo sperimentatore che eseguiva degli atti di bocca, come per esempio aprire la bocca, fare la lingua, allungare le labbra. Meltzoff aveva visto che circa il 50 per cento dei bambini imitava queste espressioni facciali. Come ovvio qui non si può parlare di una comprensione dello scopo, trattandosi di bambini appena nati. Questo fenomeno scompare dopo due mesi, perché probabilmente viene poi inibito e soppiantato successivamente dall’imitazione intenzionale. La cosa interessante è che questo fenomeno esiste anche nell’ambito scimmiesco, nelle scimmie antropomorfe e non antropomorfe (macachi). In particolare il collega Ferrari, in collaborazione con un gruppo dell’NIH, ha potuto studiare scimmie appena nate, e ha dimostrato che 50% dei piccoli da 1 a 7 giorni dalla nascita presentano il fenomeno dell’imitazione neonatale, soprattutto per gesti facciali che richiamano un significato comunicativo. Nel macaco il fenomeno scompare dopo sette giorni. In un ulteriore studio, applicando una cuffia con elettrodi ad un piccolo di macaco, si è visto che, nel corso dell’imitazione, un ritmo elettroencefalografico di origine motoria simile al ritmo “mu” dell’uomo si abbassa, sintomo di attivazione della corteccia motoria durante l’osservazione e l’esecuzione delle espressioni facciali da parte di questi piccoli.

Concludo riassumendo quanto detto: un’iniziale coscienza del sé corporeo appare fortemente dipendente dalla conoscenza motoria iniziale dell’individuo; i meccanismi di rispecchiamento, attraverso i quali l’altro si presenta a noi, mappano le altrui azioni, emozioni e sensazioni su circuiti cerebrali specifici per tali funzioni. I meccanismi di rispecchiamento potrebbero contribuire, secondo le ipotesi di alcuni, alla determinazione del sé fin dalle prime fasi dello sviluppo.

L’importanza di questo processo di comparazione per l’intersoggettività è ben evidenziato anche dalle anomalie delle interazioni sociali, di cui non ho parlato, dove appunto questo processo o è anomalo o ipofunzionante.

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