Identità, tempo e soggetto

Luigi Boccanegra – Neuropsichiatra e Psicoanalista, Venezia

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É molto importante il lessico, la parola perché a volte pensiamo che possa legittimarsi da sé, legittimare il significato che veicola senza tener conto dell’esperienza a cui essa si riferisce. La parola deve essere verificata e risignificata alla luce dell’esperienza. 

A volte le parole sono come delle spugne, si imbevono di certi significati e diventano “parole d’ordine”. Ciò non vuol dire che non ci vogliano delle Linee, delle Procedure, delle direzioni, però è vero che la parola tende a volte a solidificarsi, ad imbibirsi di sensazioni in modo tale che pronunciandola crediamo di veicolare un’esperienza, mentre in realtà stiamo enfatizzando l’eco della parola come se dovesse legittimare da sé il contenuto che veicola.

Dico questo pensando all’incontro che, due anni fa, nel Convegno di Tabiano ho avuto con Dina Vallino, perché lei aveva la rara virtù di trattare le parole che pronunciava come se ne avesse consapevolezza in tempo reale. Questo è indice di una presenza stratificata che, mano a mano che si esprime, osserva se l’espressione corrisponde all’esperienza che vuole veicolare e che si sta descrivendo o se invece, essendo troppo sintetica, non corra il rischio di soffocare l’esperienza stessa. È infatti sull’esperienza che poggia quello che organizziamo concettualmente utilizzando i concetti che ci sono più congeniali o che ci sono stati trasmessi. Ricordo un Convegno organizzato a Milano, molti anni fa, da Franco Fornari in cui Dina uscì per intervenire ma, nel mentre si apprestava a parlare, restò senza le parole che avrebbe voluto dire quando si era alzata da suo posto; ci fu un momento di sospensione in cui si avvertì che quello non era lo smarrimento di una persona che cerca di improvvisare un discorso ma un pensiero che, cambiando lei posto e dovendo rivolgersi all’uditorio, era venuto meno. Ci fu un lungo silenzio e tutti aspettarono perché ebbero la sensazione che c’era qualcosa che meritava di essere atteso. Credo che questo sia possibile in una relazione di amicizia, che perdura anche quando la persona amica fisicamente non è più presente. 

Il discorso del nichilismo è una grande semplificazione ed Echavarria ne ha esposto gli elementi quando ha parlato dell’impoverimento delle cause successive rispetto alla causa materiale, la concretizzazione porta a quella presentificazione del nulla come se la memoria non cominciasse da quel momento, tutto un lavoro ricostruttivo che pesca più in profondità. La persona nasce dentro di noi nuovamente per cui la relazione mantiene viva l’idea che ciascuno di noi ha dentro di sé un fine che lo muove nella direzione della propria autorealizzazione. Attraverso la memoria assistiamo al fatto che quando dobbiamo prendere delle decisioni importanti consultiamo l’Ade cioè presentifichiamo Ie persone care e ci interroghiamo su quello che esse avrebbero fatto o farebbero o non farebbero nella stessa situazione. Tutto questo è importante nel definire la soggettività nei termini di una stratificazione e non di una limpidezza sempre all’altezza della propria complessità (tenendo conto, ad esempio, che esiste l’inconscio e il meccanismo della scissione).

Parlerò ora di un autore, Paul Ricoeur, come di colui che più ha cercato di pensare a queste anime diverse e di indicare delle linee di orientamento nel rapporto tra Clinica ed Etica. 

Ricoeur confessa di non conoscere bene la Scolastica medievale però propone di definire l’identità attraverso due categorie: 

la medesimezza, intesa come essere idem, che riconduce alla corporeità, al codice genetico, al carattere e la ipseità, cioè l’essere se stessi, che riconduce a qualcosa che viene raggiunto durante la crescita acquisendo le competenze che equilibrano gli aspetti pulsionali con quelli cognitivi e ideali che individua nella Promessa. Promessa come la capacità di mantenere la parola data anche in assenza del proprio interlocutore. Questa presuppone una rappresentazione interna della relazione che mantiene presente ciò che si è scambiato anche in assenza dell’altro. Questa presuppone la capacità autonarrativa e la capacità di essere leali.

L’identità (idem) intesa come struttura corporea, invece sarebbe un dato della natura.

 “Ricoeur differenzia due tipi di identità: il medesimo come medesimezza e l’ipse come ipseità. L’identità come medesimo riguarda un aspetto immodificabile del soggetto che alcuni definiscono carattere; invece l’ipseità è l’aspetto narrativo che si modifica ogni volta che il soggetto costruisce un racconto di sé, anche se questo mutevole contiene a sua volta un aspetto costante. A differenza del medesimo, in cui l’invariante è legato al passato, nella ipseità l’invariante guarda al futuro. L’invariante della ipseità è la promessa: la persona promette di mantenere la parola data indipendentemente da quanto potrà accadergli”. (Francisco Mele, 2006).

Dirò qualcosa su questa dicotomia cercando di dimostrare come essa sia reversibile. Ricoeur, che tiene conto anche di quanto affermano le Neuroscienze, cerca di delimitare quest’area spingendo sull’elemento della libertà. Di fronte al fatto che la stimolazione di determinate aree cerebrali produce un determinato effetto indicherebbe la presenza di un elemento deterministico, egli afferma che la configurazione immaginativa e rappresentativa che emerge all’interno della coscienza attraverso la realtà stratificata dell’inconscio, è invece singolare. Ha cioè un elemento di ipseità come se, accanto a qualcosa di comune, la crescita e la maturazione portassero ad una singolarità inconfondibile (concetto di ecceità in Scoto). Ad esempio anche quando ci capita di recuperare la memoria delle persone che non ci sono più, dal ricordo che ne abbiamo la loro fisionomia spirituale continua a diventare continuamente se stessa nella sua inconfondibilità con cui evolve dentro alla nostra memoria. Questa ci incita ad essere sempre più singolari. 

Qui tutta la corrente degli studiosi americani di Wittengstein va valorizzata quando parlano di “immaginazione morale” come elemento di inconfondibilità soggettiva (quella che Ricoeur chiama “saggezza pratica”), viene ad esempio affermato: “sarebbe augurabile che ciascun, per proprio conto, nelle relazioni con gli altri, riuscisse a realizzare quei momenti particolari in cui, parlando con gli altri, sente che quella è proprio la sua voce”. Riconoscibilità della propria voce. Questo è proprio dell’amicizia, perché l’amico riflettendo su un momento vissuto insieme può dirci: “quella volta non eri proprio tu” oppure “in quella occasione in cui ti ha sentito eri proprio tu”. L’elemento di inconfondibilità nella riconoscibilità reciproca è un polo dell’etica interminabile.

Vi racconto di un incontro avvenuto presso il Centro Veneto di Psicoanalisi di Operatori dell’ Hospice con alcuni psicoanalisti per discutere dei problemi che genera negli accudenti l’assistenza al morente e della necessità di essere aiutati da interlocutori che sanno soffermarsi senza l’ansia di trovare subito delle risposte ma solo di individuare “il male minore” e trovare le parole per dirlo. In certi contesti è facile trovare le parole ma in situazioni emotive difficili, solo faticosamente, se si ha un pò di compassione per se stessi, raccogliendo dei suggerimenti interiori si possono far affiorare parole che sentiamo di non aver improvvisato frettoIosamente. 

L’episodio che racconto è una di quelle situazioni che provocano quella che si può definire “intensificazione del presente”, il “presente vero”. Anche S. Agostino ne parla ma è straordinario vederlo realizzato nel concreto. Persone che pur non avendo una formazione specialistica, riescono a trovare delle soluzioni nelle situazioni più difficili. In questo si capisce che la leadership è fluttuante e non ci sono codici prestabiliti ed emerge l’attitudine. 

Si tratta dell’équipe di un Hospice di Padova, il medico, esperto, formula un’ipotesi “definitoria” come direbbe Bion, e dice francamente “se non c’è più relazione umana e c’è solo vita vegetativa, pensa di avere davanti una persona morta”. Interviene un’infermiera che ricordando una paziente in coma osserva che quando la lava diminuisce la tensione del tono muscolare e questo gliela renda presente e viva tanto più avendo saputo dai familiari che in passato quella persona era un’abile nuotatrice. Il medico ha riconosciuto che quella era un’ipotesi che non aveva preso in considerazione.

Quindi le ipotesi “definitorie”, le Linee Guida sono necessarie perché occorre avere un minimo di omogeneità e di concentrazione delle energie finalizzato al compito ma quello che è importante è quello che costruiamo strada facendo e che possiamo comunicare con le persone con cui lavoriamo quando c’è ascolto reciproco e permeabilità tra gli operatori. Lo “spirito della guardiola” non è solo un aspetto cognitivo ma una “presa” affettiva gli uni sugli altri che crea affiatamento, non ci sono solo passaggi di consegne, ordini e quello che si dovrebbero coltivare sono quelle attitudini attraverso le quali le persone, scambievolmente, hanno dei presentimenti reciproci sufficientemente attendibili. Bion diceva che se non passiamo dalle personificazioni inconsce, alle preconcezioni e infine alle concezioni non c’è trasformazione ma solo constatazione o definizione. 

La trasformazione avviene attraverso percezioni che vanno al di là delle definizioni anticipatorie che vorrebbero dare una lettura definitiva della realtà. 

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