Il bisogno di cura in una società narcisistica

Sergio Belardinelli – Professore Ordinario, Dipartimento Scienze Politiche Sociali Università di Bologna

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Grazie dell’invito e grazie della presentazione. Sono molto contento di essere qui, e anche un poco preoccupato perché appartengo a coloro che praticano il primo mestiere più bello del mondo, educare,ma ho poca dimestichezza col secondo mestiere più bello del mondo: la cura, il mondo al quale  credo appartenga la maggioranza dei presenti. Di conseguenza  quanto dirò sarà incentrato soprattutto sui caratteri della società che abbiamo identificato come società narcisistica e i riflessi che questa società ha su una pratica come può essere quella del curare. 

Prima, però, vorrei dire qualcosa su quanto è stato detto da chi ha parlato prima di me. Mi piace molto l’idea che educazione, pratica medica e pratica di governo siano state citate insieme come pratiche, per realizzare le quali non è sufficiente ciò su cui noi oggi normalmente riponiamo tutta la nostra fiducia: la scienza e la tecnica. Non vorrei essere frainteso; credo che anche Mons. Bressan sia d’accordo che tutto sommato, se stiamo male, è meglio andare dal medico che dal sacerdote, ed è un guadagno enorme della società nella quale viviamo quello di aver specializzato, differenziato una serie di funzioni, rendendo possibili le enormi possibilità di intervento “tecnico” di cui oggi disponiamo. Però – punto cui aveva accennato Mons. Bressan – proprio in un campo come la cura, dove si stanno facendo enormi progressi in termini di scienza e tecnica, ci rendiamo conto che non diventano per questo meno rilevanti alcune risorse, chiamiamole “relazionali”, senza le quali la cura è destinata a rimanere monca,  come se funzionasse meno bene.

Eccoci così entrati nel tema del mio intervento. Ritengo infatti che una società tendenzialmente narcisistica, rendendo sempre più difficile le relazioni in generale, inficia inevitabilmente anche una relazione particolare come quella che interessa qui stasera: la relazione di cura, appunto.Ma andiamo per ordine. 

Che cosa significa una  società narcisista? Sperando di non deludere coloro che si occupano di psicologia e psichiatria, dico subito che quando parlo di queste cose il mio autore di riferimento è C. Lasch, un sociologo e filosofo sociale che nel 1979 scrisse un libro, ancora oggi tra i più attuali sulle patologie della società, dal titolo “La cultura del narcisismo”. Una delle tesi principali di Lasch è che per comprendere a fondo certi effetti asociali, individualistici – come li chiama lui;  noi potremmo dire certe distorsioni relazionali – riconducibili ad un narcisismo sempre più pervasivo, occorre, dice Lasch (ed è questo il punto secondo me importante), innanzitutto evitare di attribuire “al culto del privato sviluppi prodotti dalla disgregazione della vita pubblica”. Parlando di narcisismo in questa prospettiva ci viene detto in primo luogo di evitare di ricondurre ad una malattia privata alcuni sviluppi che sono invece riconducibili alla disgregazione della vita pubblica. In secondo luogo, secondo la migliore tradizione psicanalitica, Lasch aggiunge: “occorre inoltre tener fermo che il narcisismo ha più punti in comune con il disprezzo di sé che con la ammirazione di sé”. Detto in estrema sintesi, secondo Lasch il narcisismo ha a che fare certo con determinate distorsioni patologiche della personalità: un culto di sé che deforma le relazioni con gli altri e con se stessi, senso di dipendenza e paura della dipendenza, vuoto interiore, ira repressa: tutti caratteri che avvertiamo essere particolarmente diffusi. Ma il narcisismo ha a che fare anche con cambiamenti strutturali della società e della cultura, tra i quali, ne leggo alcuni: “la burocratizzazione della vita, l’alterazione del senso del tempo, la proliferazione delle immagini, il culto del consumismo, il fascino della celebrità, i cambiamenti intervenuti nella vita familiare e nei modelli di socializzazione” (pensiamo al deficit generativo sia in senso biologico che culturale col quale facciamo i conti nelle nostre famiglie). Lasch ne aggiunge un altro particolarmente interessante in questa sede: una medicalizzazione crescente della società, con il conseguente terrore della vecchiaia e della morte. Questo, a mio modo di vedere, è un punto che ci interessa oggi molto da vicino: la medicalizzazione crescente della società.

Probabilmente quanto diceva prima il Prof. Binasco, circa l’atteggiamento abituale con cui oggi si entra in ospedale, ha a che fare con questa particolare trasformazione che si è verificata nella nostra società, tale per cui ormai c’è un rimedio per qualsiasi cosa, non è più tollerabile che una terapia non funzioni. D’altra parte anche l’OMS fa da sponda a questo atteggiamento, allorché definisce la salute come un “perfetto stato fisico, psichico e sociale”. Sembra infatti una definizione fatta apposta per farci sentire tutti per principio ammalati! E’ sufficiente immaginare che una mosca giri storta,che già non si sta bene, si è malati, si ha bisogno di qualcosa.Una gran brutta definizione, farebbero bene a cambiarla. Però è una definizione che si attaglia bene a quella che Foucault  chiamava, appunto, “medicalizzazione crescente della  società”: una società sulla quale si riversa ormai ogni giorno un bisogno di cura (sanitaria); una società dove, se ci pensiamo bene, sentiamo tutti il bisogno di qualcosa. Non voglio dilungarmi troppo su questo tema, ma sono sicuro che i medici qui presenti ne possono avvertire la portata molto meglio di me.

Se teniamo conto che la cosiddetta medicina dell’enhancement sta facendo passi da gigante, notiamo che oggi la cura è soprattutto concepita come qualcosa che deve potenziare una nostra caratteristica: vuoi le nostre capacità  intellettuali, vuoi le nostre capacità motorie, vuoi le nostre capacità di stare svegli. In sostanza una sorta di Viagra universale che fa un po’ da sfondo a questo tipo di medicina straordinariamente bella e affascinante, ma che potrebbe anche destare qualche perplessità in una società sempre più individualizzata, dove gli individui sono sempre più soli, dove le relazioni sono sempre più usurate e quindi potrebbe essere abbastanza semplice entrare in una sorta di loop, per cui sono malato, perché tale mi sento, ho bisogno del medico, anzi di diversi medici, ma al tempo stesso ho sempre più bisogno anche di qualcos’altro, perché alla fine, specie quando siamo soli, è molto difficile essere soddisfatti di sé, essere in armonia con se stessi.

Ritornando al mio tema, il narcisismo, tutte queste caratteristiche che ho elencato, secondo Lasch favoriscono la patologia narcisistica e ne vengono a loro volta rafforzate. Il mondo di ieri, e dico mondo di ieri in senso molto lato, dai Greci all’età moderna, era caratterizzato da fattori strutturali e culturali che ostacolavano il narcisismo. Ne elenco  solo alcuni: la durezza della vita, un forte senso della realtà, legami sociali molto forti, ferrei processi di socializzazione, fiducia nel futuro…e si potrebbe continuare. Nel mondo di ieri la patologia narcisistica faceva insomma piùfatica di oggi a strutturarsi. Pensiamo un attimo alla società del lavoro del XIX° secolo e magari ai suoi principali cantori (Hegel, Marx o Comte). Questa società, come sappiamo, viveva di un vero e proprio pathos del progresso e della verità. Il  mondo contemporaneo invece, per i motivi accennati, si caratterizza per la presenza di elementi strutturali che tendono a promuovere il narcisismo. La società del lavoro e del sacrificio ha lasciato il posto alla società del consumo e del divertimento; il pathos del progresso e della verità al culto del presente e allo spaesamento individualistico e relativistico. Parlare di cultura del narcisismo significa dunque prendere atto di un fenomeno che va ben oltre la patologia psicologica e tende invece ad investire l’intero universo della vita sociale. 

A questo proposito vorrei fosse chiaro che non sto facendo considerazioni sul nostro tempo come se il mondo di ieri fosse meglio di quello di oggi, anzi. Questa filosofia della decadenza non mi piace. Ritengo però che alcune differenze vadano in qualche modo chiarite. Il mondo di ieri, per esempio, sicuramente soffriva per un eccesso di legami sociali; legami che erano così forti che, a tutti i livelli, compresa l’educazione e la cura, le cose funzionavano meccanicamente. Funzionavano secondo un ordine che sembrava prestabilito e neanche sotto tortura mi sentirei di dire che per quel mondo si debba avere una qualche nostalgia! L’epoca moderna, con tutto ciò che ha portato in termini di autonomia e libertà delle persone, per inciso, un’enorme ricchezza, ha anche portato, però – ecco il problema –un allentamento dei legami sociali, forse un allentamento eccessivo. Così, se ieri soffrivamo per un eccesso di legami, oggi soffriamo per una eccessiva mancanza degli stessi. La nostra vita sembra scorrere all’insegna della spontaneità e della casualità; siamo tutti un po’ troppo centrati su noi stessi e troppo poco attenti alle nostre relazioni con gli altri (i legami, appunto), quindi anche alle responsabilità e ai doveri che abbiamo nei confronti degli altri. 

Al fine di esplicitare alcuni tratti della società del nostro tempo che chiaramente costituiscono una specie di brodo di coltura per il narcisismo, vorrei fare riferimento a un testo filosofico molto noto, pubblicato quasi contemporaneamente a quello di Lasch, che immediatamente non richiama il narcisismo ma di certo aiuta a comprenderlo: penso a “Dopo la virtù” di A. MacIntyre. Si tratta di un libro molto famoso; coloro che lo hanno letto ne conoscono sicuramente la trama avvincente e il nucleo fondamentale, trama e nucleo già espressi fin dalle prime battute ed espressi come se fosse un racconto di fantascienza. Vi si racconta di uomini che, a seguito di una non meglio specificata catastrofe, hanno perduto il senso della cultura nella quale vivono. Della società scomparsa, come macerie sono rimaste alcune parole: termini etici valutativi, come buono, cattivo, giusto, ingiusto, e alcune espressioni deontiche, con cui i superstiti indicano ai loro simili cosa devono fare in determinate circostanze. Sono rimaste alcune parole come educazione, formazione, cura, ma ciò che è scomparso è la concezione dell’uomo dalla quale questi termini traevano il loro significato: è scomparso in altre parole il contesto socio-relazionale nel quale la vita umana appare come la vita di un io che non è solo un fascio di ruoli, ma una vita unitaria, una vita intera, una biografia valutabile come un tutto. L’epoca nella quale viviamo, tardo-moderna o postmoderna, ha frantumato sia l’unità del contesto socio-culturale all’interno del quale ognuno di noi agisce, sia l’unità del nostro io. 

Come ha mostrato il sociologo Luhmann, con cui ho una certa dimestichezza, la società moderna è una società differenziata dove i diversi sistemi sociali tendono ad operare sempre più in modo autoreferenziale, sempre più chiusi gli uni rispetto agli altri. Danno un enorme vantaggio in termini funzionali, però la loro chiusura potrebbe generare problemi devastanti perchè in una società dove i sistemi funzionano sempre più in modo autoreferenziale ciò che sta venendo meno è la centralità dell’uomo, e Luhmann lo dice espressamente, in una società così fatta gli uomini sono relegati nell’ambiente del sistema. I sistemi sociali, persino un ospedale, funzionano secondo codici funzionali che non hanno più niente a che fare con l’uomo (credo che Niguarda funzioni secondo un altro codice, me lo auguro!), ma questo problema  si vede all’opera un po’ ovunque. La nostra società tende davvero a diventare sempre più una società dove i diversi sistemi sociali funzionano per conto loro, senza avere connessioni gli uni con gli altri. Quando, negli anni ‘50, un autore come Jaspers denunciava una medicina che diventava sempre più specialistica e protocollare, ne era preoccupatissimo. Oggi quelle preoccupazioni sembrano bazzecole di fronte alla medicina dell’enhancement. Ma già Jaspers si era reso conto che la centralità del paziente e la centralità della relazione di cura potevano essere intaccate da una medicina che trattava la malattia e non il malato (lo scriveva già negli anni ‘40). Questo è sicuramente un punto nel quale la struttura della nostra società rende problematico il senso in cui chi mi ha preceduto parlava di cura. Dicevo individualismo e narcisismo: perché la teoria dei sistemi sociali di Luhmann merita di essere approfondita? Perché, senza volerlo, descrive un percorso della società moderna che ha una importanza e un’influenza enorme sui temi che ci stanno a cuore e lo descrive in un modo originalissimo, perché nel momento in cui Luhmann dice che ormai gli uomini stanno sempre più nell’ambiente del sistema sociale, senza avere alcuna rilevanza sociale, ci fa pensare ad un aspetto paradossale di un fenomeno ben noto, che tutti conosciamo come il fenomeno dell’individualismo moderno. E’ un po’ come se Luhmann ci dicesse: signori moderni, quale desiderio avete coltivato nella vostra modernità? L’emancipazione, giusto? Volevate soprattutto emanciparvi da tutti i legami sociali, da tutto ciò che sentivate minare la vostra libertà. Bene signori, oggi avete coronato il vostro sogno, siete veramente diventati liberi di fare quello che vi pare. Ma il prezzo che pagate è quello di una crescente irrilevanza sociale. Potete fare quello che volete, vi vengono garantiti tutti i diritti che volete, ma sappiate che quello che avete perduto è la vostra rilevanza sociale, la società funziona sempre di più come se voi non ci foste! Questa è un po’ la metafora dell’ ascesa e della rovina del soggetto moderno, sulla quale vale la pena fare qualche considerazione. 

La situazione paradossale nella quale viviamo sembra proprio essere quella appena descritta. Al giorno d’oggi abbiamo veramente tante libertà; ne stiamo conquistando anche su fronti che soltanto 20 anni fa erano impensabili; possiamo intervenire con le tecnologie persino sulla genetica. Però la libertà dei moderni era soprattutto la libertà di incidere concretamente sulle condizioni sociali e materiali della nostra esistenza e noi questa libertà purtroppo non l’abbiamo. Non intendo fare il catastrofista, però,pur con tutte le libertà che abbiamo, chi di noi si sente padrone delle condizioni sociali e materiali della propria esistenza? La realtà è che tutti ci sentiamo sempre di più dentro meccanismi che funzionano indipendentemente dalla nostra volontà e dalla nostra libertà. Ci sentiamo sempre più impotenti e il senso di impotenza non è mai una bella cosa! Questo nostro isolamento intacca una delle risorse fondamentali proprio per quelle tre forme di vita che sono state evocate all’inizio: relazioni educative, relazioni di cura e relazioni politiche. Può sembrare banale sottolinearlo, ma quelle relazioni non si danno senza una risorsa che si chiama fiducia. Come tutte le relazioni asimmetriche questo tipo di relazioni ha bisogno di fiducia, ha bisogno che ci si fidi. Potrei parlare a lungo dell’usura di questa risorsa sul piano educativo, lunghissimamente sul piano politico, un po’ meno sul piano della cura. Ma credo si possa facilmente immaginare il senso di quello che sto dicendo: una relazione medico paziente è una relazione che esige di sicuro competenza tecnica da parte di colui che cura; ma colui che cura deve anche instaurare una relazione di fiducia con colui che è curato, altrimenti, come diceva prima Mons. Bressan, la relazione di cura non funziona. Anche i medici, in un certo senso, curando curano un po’ se stessi, vengono un po’ più in chiaro con se stessi e la propria professione. Qui, a dire il vero, si dovrebbe usare un’altra parola, non la parola professione, bensì la parola missione, che evoca forse un po’ di più il senso di una relazione così impegnativa come sono le relazioni educative, le relazioni medico paziente e le relazioni politiche.

A proposito di politica, stando in mezzo ai sociologi,  vi posso garantire che le ricerche che si fanno sulla fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni politiche a vario livello o nei confronti dei partiti politici sono a dir poco preoccupanti: se questo è cento, vi dico che la fiducia degli italiani nei confronti della chiesa cattolica è 50, la fiducia degli italiani nei confronti della magistratura è la metà e quella nei confronti delle istituzioni politiche è metà della metà! Non è cosa da poco, perché in una liberaldemocrazia, la fiducia è la risorsa più importante, ciò senza di cui non si dà una liberaldemocrazia. Sono i regimi totalitari che non solo non hanno bisogno di fiducia, ma prediligono la paura. Ma in una liberaldemocrazia la fiducia è il collante che tiene insieme le relazioni politiche. Così come nelle relazioni educative (anche se gli insegnanti se ne preoccupano sempre meno): una relazione educativa non è, non può essere una relazione solo tecnica; è una relazione la cui posta in gioco è niente meno che la formazione di una persona tramite l’incontro di due libertà: quella dell’insegnante e quella dell’allievo. Per questo è necessaria la fiducia.

Nelle relazioni di cura succede qualcosa di simile: è difficile immaginare una relazione di cura degna di tale nome che non abbia questa risorsa, ma oggi pare che di questa risorsa non ci sia più bisogno, perché chi entra in ospedale ci entra con l’idea che ha diritto di esser curato e molti medici stanno in  ospedale con l’idea di dover fornire una prestazione. Il risultato – e questo è un tema su cui sono bene informato – è che per esempio il contenzioso giuridico medico-paziente cresce ogni giorno. Una relazione medico-paziente che non abbia dentro la fiducia non è una relazione adeguata e non produce niente di buono neanche sul piano sociale. Potrei raccontare un episodio che rende un po’ l’idea di quanto ognuno di noi è sempre più chiuso in se stesso anche nella gestione di certe relazioni come quelle di cura. Io per es. non vado quasi mai dal medico, ma se ci vado e mi dice di saltare dalla finestra, in genere la salto! In altre parole, se ci vado mi fido! Mia moglie, che è molto più ragionevole di me, dal medico ci va quando percepisce di averne bisogno, solo che mia moglie del medico, è evidente, si fida fino ad un certo punto e allora, quelle poche volte che mi è capitato di essere lì, mi sono accorto che è informata su quello di cui il medico parla, ribatte “si, ma…”, in una relazione quasi alla pari. E’ bello che venga meno l’asimmetria medico-paziente, poi però mi accorgo che quando deve prendere la medicina e legge il bugiardino, anche lei rischia di andare  nel pallone , perché ci sono tutti gli effetti collaterali di cui purtroppo bisogna tenere conto, ma che stanno sempre lì ad evocare qualcosa che è quanto di più umano c’è nella vita: cioè l’incertezza, il fatto che non siamo padroni fino in fondo di noi stessi, nonostante che un certo pensiero tecnico ci illuda che possiamo tenere tutto sotto controllo! Diceva prima Mons. Bressan, che ormai guardiamo la tecnica come una sorta di religione, ed è vero. Ma più che come una religione, direi come una superstizione. Dobbiamo uscire da questa superstizione, perché la tecnica è un po’ la delizia e la fortuna di questo tempo, ma è anche forse la principale responsabile di una mentalità che incomincia a serpeggiare nelle nostre società e che ha molto più a che fare con la magia e la superstizione che con la scienza e la tecnica.Non è a caso che nelle società tecnologicamente molto avanzate si coltivino tante pratiche magiche, che ci siano tanti maghi e chiromanti, perché in fondo, se ci pensiamo bene, la magia, anche la magia, e Max Sheler l’aveva capito alla grande, risponde ad un desiderio di controllo della realtà che è talmente forte che non si rassegna neanche di fronte a ciò che, ci piaccia o no, non sarà mai sotto il nostro controllo. A domande come: “si innamorerà di me quella bella signora?”, oppure:“riuscirò a vivere ancora 40 anni?”, non posso dare risposta, però non resisto all’idea di non poterlo fare, e allora vado dalla chiromante. La maggior parte delle cose che contano per davvero non dipendono da noi. Non dipende da noi nascere sani o malati, non dipende da noi nascere qui o in un altro posto, e converrete con me che sono elementi fondamentali per ciò che siamo. Fa un’enorme differenza nascere a Milano o nel cuore del deserto del Sahara. Non scegliamo noi le cose fondamentali della nostra vita. 

Per questo abbiamo bisogno di conciliarci con la realtà. 

Tale conciliazione è condizione indispensabile per accettare la realtà stessa, spesso anche per accettare la malattia. Personalmente penso che la funzione primaria dell’educazione sia proprio quella di farci sentire a casa nel mondo che abitiamo, aiutarci ad accettarlo realisticamente nelle sue brutture, a maggior ragione se lo si vuole cambiare. Senza questa conciliazione c’è rischio che prevalgano il risentimento, l’apatia o il narcisismo moscio. La realtà è quella che ci aiuta ad entrare in una relazione di cura con fiducia, ma anche a mettere in conto realisticamente la possibilità di non guarire. È un modo realistico di pensare la condizione umana, non un modo rassegnato. La tecnica ci offre potenzialità enormi, per cui l’ultima cosa che dobbiamo fare è rassegnarci, ma non possiamo farne un feticcio. Abbiamo bisogno di questa conciliazione con la realtà e credo sia un tema fondamentale in tutte tre le relazioni da cui siamo partiti stasera: la relazione educativa, la relazione di cura e la relazione politica. Non si dà nessuna di queste tre relazioni senza uno sguardo sulla realtà che sia conciliato.

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