La relazione, l’altro come soggetto, la domanda di cura

Pietro R. Cavalleri – Psichiatra e Direttore Clinico Fondazione AS.FRA. Onlus

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Mi sono domandato a lungo come impostare questa relazione: mettere tra parentesi la specificità della mia esperienza, per cercare di offrire delle riflessioni adattabili a qualsiasi tipo di pratica, oppure restare più aderente al contesto della cura psichiatrica, che a molti può risultare estranea?

Ho scelto questa seconda strada, per restare più vicino all’esperienza, lasciando a ciascuno di voi il compito di ritrovare quanto – di questa – possa ritrovarsi nella propria, con la convinzione che la cura psichiatrica, pur nella sua specificità, pone problemi comuni a tutte le pratiche terapeutiche. Pertanto sono sicuro che i punti di contatto o di sovrapposizione siano molto più numerosi delle differenze e non casuali, ma strutturali.

I. La relazione come fondamento della cura

Il tema di questo incontro è bene espresso dall’affermazione che la relazione è costitutiva della cura. Qualcuno potrebbe obiettare che la relazione è lo strumento tecnico della cura psicologica, mentre, nelle altre discipline mediche, lo strumento è il farmaco o l’intervento chirurgico. Se così fosse, “relazione” sarebbe semplicemente lo strumento di una tecnica finalizzata a stabilire un legame con una finalità manipolatoria, ossia uno strumento volto a convincere uno dei due. Sarebbe equivalente a una tecnica di marketing, alla tecnica di vendita di un prodotto, che in questo caso è il prodotto “salute” o, più realisticamente, il prodotto “prestazione”.

In questa prospettiva la relazione non avrebbe una consistenza reale, ma sarebbe una “messa in scena”, alle volte molto sofisticata, altre volte rozza, nelle due versioni del cameratismo o del paternalismo. Spesso si ritiene, infatti, che “avvicinarsi al paziente” significhi trattarlo come un bambino e si confondono cordialità e disponibilità con atteggiamenti intrusivi e di infantilizzazione.

Qual è, allora, il significato del termine “relazione”?

Non voglio dare una risposta attraverso una definizione. Vorrei invece che la risposta a questa domanda si costruisse attraverso l’intero percorso del mio intervento.

II. Le motivazioni personali che ci hanno spinto a curare

Occorre riandare alle motivazioni personali che hanno guidato la scelta del perché lavorare in

campo sanitario.

Se escludiamo le funzioni più semplici, dal punto di vista del bagaglio tecnico necessario per

esercitarle, è evidente che chi si iscrive al corso di laurea di medicina compie una scelta. Ciò non toglie che tra le persone che lavorano in campo sanitario via sia anche una componente non sottovalutabile di persone che non hanno scelto questo lavoro, ma lo hanno trovato o vi ci sono dovute adattare.

Una lettura superficiale ci porterebbe a credere che le prime siano avvantaggiate sulle seconde: le prime, infatti, potrebbero corrispondere a una “vocazione” che mancherebbe alle seconde, che hanno dovuto adattarsi alle occasioni della vita.

Questa lettura è vera solo parzialmente, perché, se è vero che le persone che si sono trovate a fare un lavoro sanitario, necessariamente hanno dovuto ricercare il senso del loro lavoro; quelle che lo hanno scelto, qualora successivamente mettano tra parentesi le motivazioni che li avevano spinti senza maturarle, fatalmente si avviano o al burn out (delusione) o a cinismo e nichilismo.

Che cosa cerchiamo nella nostra professione? Quali sono state le motivazioni iniziali che ci hanno indotto ad abbracciarla? Intendo precisamente la rappresentazione di noi stessi che proiettavamo nel futuro del nostro “essere al lavoro”, le motivazioni consapevoli che ci spingevano e non tanto le eventuali pulsioni sadiche inconsce che chiedevano di essere addomesticate con l’aiuto di strategie sublimatorie.

Le motivazioni che spingono a scegliere di curare non sono molte; pur nelle molteplici varianti possono essere ricondotte a una manciata di motivi: curiosità (scientifica), prestigio (sociale), oblatività, riparazione, servizio, potere (di cui il denaro è solo una componente).

Probabilmente in ciascuno di noi vi era un mix di tutte queste componenti motivazionali; ciò che accade normalmente nel corso degli anni è simile a quanto accade a un qualsiasi corpo esposto alla forza della natura, alle intemperie e al ciclo delle stagioni: tutti questi agenti grattano via le parti più deboli e portano alla luce la componente più caratteristica di quel corpo, che evidentemente non è la medesima per ogni corpo, ma quella che caratterizza maggiormente quel particolare singolo, in modo che quel soggetto – nel corso del tempo, quasi senza rendersene conto – mostrerà in maniera più evidente ed esplicita la caratteristica dominante di quella che inizialmente era la tavolozza delle sue motivazioni.

Ciò normalmente avviene quando manca l’esercizio sufficientemente regolare di quella manutenzione di noi stessi che può trovare forme e nomi diversi; per indicarne una tra quelle che – forse oggi non più come solamente 20 o 30 anni fa avveniva ancora – appartengono alla nostra tradizione, possiamo citare l’“esame di coscienza”, che consiste – non fa differenza, a questo proposito, se lo interpretiamo in chiave religiosa o laica – nel porsi la domanda sul proprio desiderio, sul desiderio che fa da motore alle proprie azioni e scelte. Quando questo lavoro c’è, le motivazioni iniziali aiutano a mantenere un contatto con la propria origine e nello stesso tempo, attraverso l’esperienza, a purificare gli elementi che la compongono permettendo di distillarne i più preziosi, i più veri e meritevoli di orientare il lavoro quotidiano cioè la stessa vita.

Nell’Incontro con i rappresentanti del V convegno nazionale della Chiesa italiana, avvenuto a Firenze il 10 novembre 2015, Papa Francesco fece un’affermazione che fu ripresa ampiamente dai media. L’affermazione era questa: “Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca.” Questo giudizio ha colpito l’opinione pubblica perché evidenziava non semplicemente l’evoluzione e i cambiamenti legati al normale scorrere del tempo, ma l’emergere, nell’atteggiamento culturale, come di una faglia geologica tra componenti tettoniche differenti, destinate a dare luogo a una cesura antropologica tra vere e proprie epoche.

In che cosa consiste questo cambiamento di epoca?

Io credo che consista nel fatto che, dall’avvio della storia del mondo, lo statuto del soggetto umano è stato quello di essere un “dato”, eventualmente un dato di cui impossessarsi per utilizzarlo “come se” fosse un oggetto, mediante guerra, violenza, schiavitù, sopraffazione, mercato, al limite praticando la selezione eugenetica, che tuttavia comportava l’eliminazione in toto del soggetto, ma non la sua manipolazione. La nostra epoca, invece, si apre per la prima volta alla possibilità che il soggetto umano sia di fatto un “prodotto”, costruibile con le migliori intenzioni e senza apparente violenza, acriticamente, senza giudizio.

Questo comporta il fatto che, probabilmente, sempre più dovremo fare i conti con generazioni per le quali la motivazione al lavoro sanitario sarà cambiata e potrà essere in primo luogo quella del potere, dell’esercizio di un potere tecnologico, che per sua natura non si pone domande sulla sua origine e sulla sua meta. Questa trasformazione non ci autorizza a sentirci superiori alle nuove leve o alle generazioni che verranno, perché la tentazione del potere, della cura come esercizio di potere sull’altro appartiene anche a noi; così che questo cambiamento sottolinea ancora di più la necessità di non dare per scontate e nemmeno perdere di vista le motivazioni che ci hanno spinto: per rielaborarle, confrontandole con l’esperienza, per bonificarle e maturarle.

Non esistono motivazioni intrinsecamente buone o cattive: tutte devono passare nel crogiuolo dell’esperienza; questo è il modo in cui la cura diviene lavoro.

III. In che modo la cura diviene un lavoro?

Curare è anche un lavoro. Ma che cosa è “lavoro”?

Abbiamo a disposizione diverse definizioni. Per introdurci, possiamo utilizzare quella che ci viene dalla fisica: lavoro = forza per spostamento.

Oppure una definizione un po’ più articolata, presa dal dizionario: “qualsiasi esplicazione di energia (umana, animale, meccanica) volta a un fine determinato”.

Possiamo anche definire il lavoro come ogni manipolazione creativa della realtà, in vista del perseguimento di uno scopo. Ma è sufficiente questo perché il lavoro sia lavoro umano?

Se io avessi il mio giardino e mi applicassi a dissodare la terra, raccogliessi i frutti del mio orto e li mangiassi e facessi tutto questo soltanto per consumare il prodotto di questa mia fatica, ciò sarebbe già “lavoro”? Io direi che ancora quella fatica non sarebbe un lavoro: si tratterebbe puramente di un’economia di sussistenza, in cui consumo — con gusto? — il frutto di una certa fatica, di una certa tecnica.

Questa fatica, che cosa la rende lavoro?

Ciò che rende lavoro il prodotto della fatica è il fatto che questo prodotto, per essere lavoro, deve avere un significato sociale, relazionale. Solo quando la fatica soggettiva produce un frutto che viene posto sul mercato delle relazioni, diviene lavoro.

Dunque, il lavoro è il collegamento fra un soggetto e un altro soggetto. E già questo collegamento è l’indice di profitto. Vi è lavoro, non puramente fatica afinalistica, solo quando vi è profitto; e vi è profitto se il prodotto di una certa azione può essere preso dall’altro perché a sua volta possa farsene qualcosa. L’altro deve potersene fare qualcosa, ossia: il prodotto del lavoro dell’uno deve poter essere raccolto dall’altro per essere rielaborato. Il lavoro umano ha la proprietà di mettere l’altro all’opera. Anche la semplice fruizione (per esempio: di un’opera d’arte) non configura una posizione esclusivamente passiva; nella fruizione si attiva il giudizio, il gusto, l’accoglimento o il respingimento di quanto offerto; in una parola: la libertà del soggetto.

Cosa ne traiamo a proposito del lavoro sanitario?

Nella clinica psichiatrica è assolutamente evidente che la cura non può che passare dall’attivazione, nell’altro, di un processo di rimessa in discussione di sé. In altri campi può essere meno evidente, ma non meno vero: in rianimazione, con soggetti in coma, che per definizione hanno perso, almeno temporaneamente, la capacità di agire motoriamente, partecipare e comunicare, come si configura la possibilità che l’altro ci metta il proprio pezzo, ossia partecipi a quanto sta avvenendo, affinché questo atto possa essere considerato “lavoro”?

Il pezzo dell’altro, in questo caso, coinciderà con il predisporre, nell’azione, uno spazio, che può rimanere inoccupato, in cui il soggetto ricevente possa esprimere il proprio giudizio di gradimento o non-gradimento.

Questo processo non è riducibile alla problematica della costumer satisfaction!

Il lavoro sanitario non si realizza nel “fare qualcosa all’altro”, ma vi è lavoro (cura) solo se questo atto permette all’altro di assumere a sua volta la posizione di soggetto (attivo)

Se l’intervento, la prestazione esclude lo spazio perché questa tessera del puzzle abbia il suo posto, allora non si tratta di lavoro di cura. Affinché il vostro atto sia lavoro, occorre che l’altro possa completarlo. Se il vostro atto soddisfa solo voi stessi, allora non è lavoro, ma hobby.

IV. Vi è cura quando c’è domanda di cura

La domanda è il primo indicatore del fatto che l’altro è attivo.

In medicina spesso si dà per scontato che ci sia domanda di cura: quando i vostri pazienti si rivolgono a voi, voi potete supporre, spesso a ragione, che intendano domandarvi qualcosa, generalmente il fatto che voi vi prendiate cura di loro. In psichiatria le cose vanno in modo molto diverso; il problema della domanda del soggetto, del soggetto-paziente, non è così scontata: né che ci sia, né quale sia il suo contenuto.

La riflessione sulla domanda, oggi, diviene molto importante anche nel contesto della cura in senso generale. Perché? Perché vi è un parallelismo tra domanda e consenso. La cura si regge su di un quid che non può non partire dal soggetto e non può non coinvolgerlo: lo chiamiamo “consenso”, che non consiste puramente nel permesso ottenuto dal soggetto a compiere degli atti su di lui, ma – ben più di questo – consiste nell’ottenere che il domandante divenga il partner del processo del trattamento stesso, in quanto il processo ha a che fare con le sue emozioni, il suo sentire, il suo pensare, il suo volere, il suo corpo.

L’aspetto cruciale del consenso consiste nel fatto che esso deve essere rinegoziato ogni momento; deve essere riproposto e divenire convincente nella mutevolezza delle vicissitudini che si presentano nel corso del tempo. Quando la cura si prolunga a tempo indefinito, l’esistenza della domanda non può più essere data per scontata. Ciò avviene con la trasformazione della patologia da acuta a cronica e con il conseguimento del successo terapeutico rappresentato dalla riduzione della patologia allo stadio di cronicità, come avviene, ad esempio, nel caso dei tumori, ma anche nel rallentamento del decorso di tutte le malattie degenerative e nella possibilità di superamento di eventi molto gravi che un tempo avrebbero condotto a morte ed oggi invece si risolvono, sì!, ma senza restitutio ad integrum e pertanto conducono a stati fortemente bisognosi di prosecuzione di cure di mantenimento a tempo indefinito. Tutti questi cambiamenti dilatano il tempo della cura, fino a sovrapporlo al tempo della vita. Ciò non significa solo durata senza termine prevedibile, ma anche, inevitabilmente, l’entrare, della dimensione della cura e del trattamento, nelle questioni che riguardano scelte personali, di vita, di organizzazione del tempo, di lavoro, di abitazione, di famiglia.

Tutto ciò pone con forza il problema della presenza della domanda all’origine del percorso di cura. E il problema della domanda, a sua volta, sottolinea il fatto che il suo esserci, il suo formularsi, il suo divenire coglibile costituisce l’indicatore del convenire del soggetto nella cura.

V. E se non c’è la domanda di cura?

Se la domanda non esiste ancora, occorre investire un lavoro di cura per farla sorgere. Un caso interessante è rappresentato da quelle situazioni in cui la domanda di trattamento non è avanzata dal soggetto, ma è sostituita dal mandato sociale, emblematicamente dall’ordinanza di un magistrato.

Come è possibile rapportarsi con questi pazienti? Cosa significa “prenderli in carico”, quando la privazione della libertà esteriore monopolizza il loro interesse e li induce a tacitare la condizione di mancanza di libertà interiore? In presenza di questa situazione, prendere in carico coincide con “curare”? Vi sono differenze tra cura e trattamento? Quali sono?

La riflessione su queste condizioni particolari in cui avviene la presa in carico e inizia il trattamento mi ha condotto a riformulare a mio modo il concetto di “cura” (da intendersi in senso stretto) all’interno del concetto più generico di “trattamento”. Ossia: quando inizia il trattamento del caso (per il fatto che si è stabilito un contatto), ma ancora non vi è un soggetto che domanda, si può iniziare una cura? Che cosa accade nel tempo intercorrente tra l’inizio del contatto, lo stabilirsi della relazione, l’avvento della domanda, il chiarimento del programma di cura o della meta verso cui muoversi?

In questa prospettiva, ho proposto di considerare il lavoro riabilitativo non come un seguito della cura, ma come il momento preliminare, destinato a protrarsi fino a che l’avvento di una domanda non inauguri il tempo della cura.

La cura, infatti, può avvenire solo se vi è una domanda sufficientemente stabile. Quando ancora non vi è domanda, pur non potendo attuare una cura occorre, però, prendersi cura: possiamo chiamare “riabilitazione” l’iniziativa che può raggiungere il soggetto anche attraverso la coazione della legge. Per compierla è necessario attrezzarsi in modo tale da potersi accostare a un soggetto che si trova doppiamente prigioniero di uno stato di costrizione: la propria assenza di norma e, talvolta, la costrizione della legge, che impone una sanzione. La sanzione, a sua volta, stringe il soggetto come in una morsa e catalizza tutte le sue energie, indirizzandole non al cambiamento, ma alla messa in atto delle consuete strategie patologiche volte a puntellare la falsa immagine di un Sé grandioso, unico sostegno che consente di reggere al fallimento della vita reale.

Oltre ai casi in cui cura e sanzione si embricano, il problema di come ottenere il coinvolgimento del soggetto nel lavoro riabilitativo esiste, seppure in grado minore, anche quando il soggetto apparentemente non avverte il peso di una disabilità e il desiderio di acquisire una competenza o l’esigenza di cambiare. Le pratiche riabilitative a cui ci riferiamo condividono il fatto di essere rivolte a soggetti in cui è la stessa motivazione che deve essere ri-abilitata affinché il target specifico di ciascun percorso riabilitativo possa essere raggiunto.

VI. Per curare occorre poter stimare colui di cui ci si prende cura

In genere si pretende che il paziente abbia fiducia nel medico, ma la fiducia da parte del paziente non può essere pretesa. Anzi: la fiducia iniziale, quella che si manifesta troppo precocemente, non è fiducia, ma idealizzazione. E spesso andrà a finire male.

In realtà questa posizione va capovolta: non è il paziente che deve avere fiducia nel medico, ma l’atto della cura è un investimento finanziato dal curante, un atto di fiducia nella possibilità di stabilire l’alleanza terapeutica, che è l’energia necessaria ad alimentare il processo di cura. Spesso, infatti, il malato è privato delle risorse necessarie a procurarsi questa energia.

Siamo veramente sicuri che “curare” significhi “vincere la malattia”? Certo: si può pretendere di curare, e continuare a farlo, per averla vinta sulla malattia. Questa impostazione è bene rappresentata dalla storiella macabra del chirurgo che esce dalla sala operatoria e, rivolgendosi ai parenti del paziente che sono in attesa trepidante, annuncia con sussiego che l’intervento è perfettamente riuscito e che il paziente è morto. Pertanto è collegata anche al problema dell’accanimento terapeutico.

Il pensiero che curare si esaurisca nello sconfiggere la malattia è un autoinganno, il tentativo di sottrarsi all’evidenza del malato, all’incontro con uno nel cui bisogno potremmo rispecchiarci. In considerazione della nostra debolezza, ci è consentito di aggrapparci a questo pensiero e di utilizzare questa difesa (che mette in secondo piano la persona) nei momenti in cui ci sentiamo troppo stanchi o ci troviamo ad essere così coinvolti da perdere la lucidità richiesta a chi cura; se questo, però, divenisse un pensiero programmatico, sarebbe un programma perverso.

Per curare, non solo occorre non scotomizzare colui di cui ci si prende cura, ma addirittura occorre poterlo stimare. L’accento sul “potere” relativamente allo “stimare” rende chiaro che non si tratta di un’intenzione moralistica, di un dover essere, ma della possibilità reale di individuare, per davvero, nel soggetto, qualcosa di prezioso che attragga il nostro investimento. Per curare occorre individuare nel soggetto un quid che sia stimabile; non si tratta semplicemente di affermare che, con il paziente, si condivide il tratto della comune umanità. Siamo aldilà dell’empatia.

E infatti: conosciamo qualcuno che sia mai riuscito a sentirsi terapeuticamente efficace nei riguardi di una persona che disprezzava?

La questione della possibilità di percepire un valore nel singolo paziente di cui ci occupiamo non è banale: non possiamo evitare di fare i conti con la rabbia, l’ostilità, l’invidia, addirittura l’odio che spesso incontriamo, che talvolta vengono indirizzati verso di noi e innescano sentimenti di rabbia, ostilità, noia, chiusura. In questa temperie emotiva la nostra posizione oscilla tra ingenuità e cinismo: ingenuità, quando idealizziamo il malato e la malattia e sottovalutiamo il male; cinismo, quando, al contrario, abitudine e posizioni ideologiche ci portano a prendere le distanze dal paziente.

La questione di percepire il valore del e nel singolo paziente di cui ci occupiamo non si pone solo in un’ottica religiosa (in questa prospettiva la risposta sembra essere chiara), ma anche in una prospettiva laica o agnostica. Chi è credente è meglio disposto a considerare l’altro un valore, però corre il rischio di fare questa asserzione in maniera scontata, senza percepirne la drammaticità. Entrambi, credenti e non credenti, si confrontano drammaticamente con la questione di scoprire se nell’altro vi è un valore umano. Può trattarsi di un dettaglio che si coglie nella personalità, di una particolare abilità, di un tratto accattivante. Ma alle volte è arduo trovare qualcosa che risponda ai requisiti necessari per essere riconosciuto come un valore, perché non si trova nulla che valga o che semplicemente attragga e si è investiti, invece, da tutto ciò che provoca repulsione. In questo caso bisogna assumere l’ipotesi che non è che il valore sia stato assente dall’origine; è piuttosto la vita che, come un rullo compressore, lo ha travolto e polverizzato.

Pertanto occorre sempre avere il coraggio, l’umiltà e la pazienza di entrare nella storia dell’altro e,

per quanto possibile, immedesimarsi negli eventi che hanno costituito i processi formativi della sua personalità; questo ci permette di vedere l’altro non solamente nella sua dimensione attiva, di soggetto agente comportamenti devianti, ma nella sua dimensione storica di soggetto che ha patito e forse patisce ancora lui stesso un trattamento in cui si trovano traumi, deprivazioni precoci, abusi infantili.

Personalmente, ho trovato una indicazione risolutiva in un passo folgorante di Paolo di Tarso, nel finale del capitolo VI della I lettera ai Corinti: “Siete stati riscattati a caro prezzo”: qualunque sia l’oggetto che è stato riscattato, da quel momento il suo valore è indicato dal prezzo che è stato pagato dal compratore.

Il dipinto di Willelm De Kooning dal titolo Interchange è stato fino all’autunno dello scorso anno il quadro che ha raggiunto, ad un’asta, la quotazione più alta mai realizzata. Anche se a voi non piacesse, non potreste non riconoscere che il suo valore è stato fissato dal prezzo che è stato pagato da un intenditore. In questi casi, infatti, il compratore, colui che paga il prezzo, è un intenditore, non un truffato. La truffa è se voi inducete a pagare un incompetente, rifilandogli un falso; l’intenditore è colui che, invece, ha la competenza che gli permette di vedere con uno sguardo più profondo.

La differenza con l’asta dei quadri è che il valore del riscatto di cui ci parla Paolo sta nel fatto che il prezzo che è stato pagato ha riguardato non un solo quadro, ma tutti i quadri, e il valore attribuito a ciascun quadro è il medesimo di quello fissato per il capolavoro.

VII. Relazione presuppone incontrare l’altro nella sua autenticità

Nel caso del sofferente psichico “autenticità” indica il percorso verso l’autenticità di sé, ossia la possibilità di entrare in contatto con il proprio nucleo più vero, comprese le parti più deboli e sofferenti che generalmente tentiamo di respingere e di disconoscere. Il paziente se ne difende perché ritiene che la verità di sé lo possa distruggere, lo possa mettere di fronte a qualcosa che lo annichilirà. Sente la debolezza (ma anche la rabbia) come qualcosa di profondamente vergognoso, per questo deve difendersi dall’autenticità costruendo una finzione per dissimulare l’angoscia. Al contrario di quanto egli teme, il contatto con la propria vena autentica, qualunque sia il contenuto attraverso il quale si manifesta, è sempre un’esperienza profondamente positiva, vivificante, generatrice di una emozione che alimenta il serbatoio della libido.

Quindi: obiettivo della cura è favorire l’accadere di momenti in cui avvenga nel paziente una presa di contatto con l’autenticità della propria esperienza interiore, la qual cosa equivale allo stabilirsi di un autentico scambio.

Come riconoscere il momento dell’autenticità? Noi non abbiamo la possibilità di conoscere con certezza quando il paziente prende contatto con se stesso, in quanto non esiste un apparecchio, una tecnologia, che ci permetta di evidenziare questo accadimento. Non abbiamo altro mezzo che noi stessi, da utilizzare come sonda. In che modo?

Accade che, nel rapporto con il paziente, si abbia la sensazione, talvolta, di accostare qualcosa di prezioso e di fragile a un tempo, che ci appare autenticamente suo. Ecco: l’accadere di questa esperienza costituisce la risonanza (in noi) della medesima esperienza che si offre al paziente, ossia segnala il momento in cui probabilmente il paziente, attraverso di noi, sta prendendo contatto con un nucleo autentico di sé, un nucleo autentico che gli si presenta in maniera benefica e non distruttiva.

Questa è una delle esperienze più gratificanti che si offrono a chi cura e, quando accade, ristora della fatica che il lavoro quotidianamente esige. Se è vero, infatti, che cercare di stabilire una relazione autentica è un lavoro impegnativo e alle volte duro, è vero altresì che solo quando il curare non si sottrae a questo impegno e, anzi, si mette al suo servizio, l’accadere di questo momento costituisce il fattore protettivo – l’unico – dall’usura del lavoro della cura.

VIII. Intervento terapeutico individuale e offerta terapeutica complessiva

Il fatto che nella cura si stabilisca sempre una relazione personale, non significa che si agisca da soli. La presa in carico dei casi complessi richiede infatti regolarmente, per molteplici fattori, l’intervento e la collaborazione di più soggetti. In primo luogo, la complessità clinica attiva l’intervento di differenti competenze specialistiche; in secondo luogo, la presa in carico intensiva – propria di tutte le situazioni di ricovero o di residenzialità – prolungandosi a ciclo continuo per le 24 ore, non può essere garantita se non da una équipe, in cui più persone, in solido, rivestono differenti mansioni e assicurano senza interruzione la continuità terapeutica e assistenziale; in terzo luogo, la cronicità stessa richiede – anche in regime ambulatoriale o domiciliare (si pensi all’ADI) – che l’intervento si estenda a un tempo indefinito, non sostenibile da un singolo curante.

In particolare, della cura che si compie in regime di ricovero ospedaliero o residenziale fa parte anche l’aspetto fondamentale del contesto che accoglie il malato, che non può essere banalmente considerato come un elemento accessorio indipendente dalla cura, una mera prestazione alberghiera. Certo, il contesto logistico nel suo complesso esula in gran parte dalle competenze dei curanti; ma la sua gestione, la cura o l’incuria degli spazi e soprattutto il servizio alla persona richiede un’organizzazione del lavoro che non può prescindere dal coinvolgimento della responsabilità di chi ha le funzioni di direzione e coordinamento della presa in carico terapeutica del malato.

Al di qua delle singole competenze e mansioni, che possono distinguere le differenti funzioni operative, il lavoro che svolgiamo possiede pertanto un comune denominatore che possiamo individuare nel compito, comune, di raggiungere i nostri pazienti con una “offerta terapeutica complessiva”.

Una “offerta terapeutica complessiva” esiste se effettivamente risponde a quanto le singole parole di questa locuzione significano e costituisce la precondizione dell’avviarsi e dello svilupparsi di qualsiasi ulteriore e necessario processo terapeutico individuale, in senso stretto.

Per questo è assolutamente fondamentale riflettere attorno a ciò su cui essa consiste. L’offerta terapeutica complessiva è esito di un mettersi in gioco eminentemente personale, che sta a fondamento della competenza tecnica, e che riguarda l’interesse non solo ad incontrare l’altro, ma anche a raggiungerlo là dove egli è nel suo essere più autentico; la disponibilità a dare del tempo per accompagnarlo con l’ascolto e per osservarlo; la capacità di investire sull’altro e di sostenere l’avvento – in lui – di una scelta frutto di un grado di libertà in più; la capacità di accettare l’investimento che anche l’altro può fare su di noi, ossia di vincolare una parte di noi stessi con un nuovo legame; in una

parola, ancora una volta: la capacità di costruire una relazione.

Questa offerta si realizza se si esprime in modo tale che il singolo utente la possa cogliere fin dall’inizio; pertanto deve sapersi declinare senza corrompersi in facili paternalismi o cameratismi. Ma deve anche sapersi mantenere nella quotidianità. Anche per questo la chiamiamo “complessiva”: perché, per caratterizzare la quotidianità, necessita che ciascuno vi concorra, con la propria libertà, ma anche con capacità sempre più affinate.

Ho il ricordo vivo di un’esperienza che mi capitò di fare una trentina di anni or sono: ero andato a fare visita a un mio paziente che avevo inviato in una comunità terapeutica situata in un luogo isolato dell’entroterra ligure; avevo appuntamento con il collega che lo aveva preso in cura, per compiere la valutazione periodica del percorso riabilitativo. Ero un po’ in anticipo sull’orario dell’appuntamento e pertanto stavo in attesa nel giardino della residenza, un luogo non particolarmente accogliente e cintato da una cancellata in ferro; il colore azzurrino con cui era dipinta non poteva fare dimenticare che essa stava lì per separare il dentro dal fuori, limite che rinviava a un significato evidente nella sua ambivalenza tra protezione ed esclusione. Mi si avvicinò una ragazza, una degli ospiti della Struttura, e con fare amichevole mi domandò da dove arrivavo. Il suo modo di fare rendeva evidente che, senza alcuna malizia, mi aveva identificato come un nuovo paziente. Fu sufficiente questo per farmi sentire, per un momento, un profondo disagio: avevo perso il mio status, non ero più il dottor Cavalleri nell’esercizio delle sue funzioni, che di lì a poco se ne sarebbe tornato alla sua vita, libero di autodeterminarsi, ma ero passato dall’altra parte dell’invisibile limite che separa il sano dal malato.

Ecco cosa provano i nostri pazienti. Credo che quell’esperienza sia stata profondamente istruttiva.

Dalla prospettiva opposta, quando recentemente è avvenuto che, in occasione di un breve intervista videoregistrata, un paziente – ospite di un contesto simile al precedente – cingendo con il braccio le spalle dell’operatore che era al suo fianco, rispose all’intervistatore: “Tra noi e loro, spesso

non si capisce chi è “noi” e chi è “loro”…”, questa risposta ci fa comprendere in maniera evidente che solo lo stabilirsi della relazione smantella la barriera tra sano e malato, permettendo ad entrambi di sentirsi riconosciuti.

Lo stabilirsi di questo clima terapeutico è l’esito e la manifestazione dell’essersi stabilita una preesistente relazione reciproca e autentica tra colleghi nella comunità formata da chi è al lavoro. Questa comunità deve essere accogliente di chi entra a farvi parte, ma non può essere solo l’esito di un processo spontaneo: è un fatto anche organizzativo, che per costruirsi necessita di regolari momenti istituzionali di confronto, discussione, supporto, scambio, revisione delle procedure operative e di quanto accaduto, senza tralasciare gli errori compiuti, perché nulla può essere più fecondo di un errore oggettivamente individuato e soggettivamente riconosciuto!

È evidente che ciò che stiamo indicando si trova all’intersezione tra competenza tecnica e soggettività, le chiama in causa entrambe e ci dice che anche la seconda, ossia il soggetto che ciascuno di noi è, con la propria autocoscienza e auto rappresentazione, non può essere dato per scontato e ritenuto immodificabile come se, in fondo, nessun incontro potesse apportargli qualcosa di nuovo e di

utile.

Conclusioni

Concludo con il ricordo di uno degli episodi più formativi a cui assistetti circa quindici anni fa. Ne fu protagonista un’operatrice, una donna molto semplice che svolgeva la mansione di ASA in una RSA e che, quando l’Ente presso cui lavorava avviò una Struttura riabilitativa per adulti portatori di disturbi psichiatrici, chiese di unirsi al gruppo in via di costituzione per accogliere questi pazienti, che ero stato chiamato a coordinare. Lei era una donna piccola, bassa di statura, piuttosto sovrappeso e sono certo che non si risentirebbe sapendo che la consideravo una delle persone più semplici e meno acculturate del gruppo. Ora, accadde un giorno che uno dei pazienti più gravi, un giovane uomo alto e atletico, affetto da una schizofrenia paranoide pervicacemente produttiva che lo affliggeva costantemente rendendo il suo umore cupo e rabbioso e i suoi gesti minacciosi, in preda a una delle sue crisi periodiche, le si avvicinò e, agitando minacciosamente le braccia verso di lei, le sputò in faccia. La risposta dell’operatrice fu stupefacente: levò il fazzoletto dalla tasca, si asciugò il viso e continuò il proprio lavoro. Il fatto che non avesse reagito può essere spiegato per la paura che sicuramente provava, ma dava prova anche di grande esperienza. Ma ciò che mi colpì ulteriormente fu il fatto che, nella successiva rielaborazione in équipe dell’episodio, lei non pretese e nemmeno chiese che il paziente venisse sanzionato per il suo gesto. Questa donna era stata in grado di compiere un procedimento complesso: (1) assorbire la violenza che il paziente, incapace di contenerla, aveva proiettato contro di lei; (2) bonificare gli elementi umilianti e distruttivi dell’agito; (3), infine, restituire al paziente e alla comunità un comportamento normale. Così facendo era stata in grado di mettere in opera il paradigma stesso dell’atto terapeutico e aveva operato per il bene del suo paziente.

Potreste dire che, comunque, il suo atto terapeutico non lo aveva guarito. Ma chi di noi avrebbe il coraggio di affermare che il soccorritore che, sul ciglio della strada, rianima un individuo in arresto cardiaco vittima di un grave incidente, anche se quell’uomo morirà due settimane dopo, in quel momento non gli abbia salvato la vita?

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