Prossimità, bisogni e risorse: il legame tra le persone come fonte di significato e principio di unificazione. Quale cura?
Luca Bressa – Vicario Episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale Diocesi di Milano
Premessa di presentazione
Inizio questo mio intervento giustificando la mia presenza.
Come avete letto sul programma, al mio posto avrebbe dovuto intervenire il Card. Angelo Scola, impossibilitato ad esserci perché impegnato a Roma nel Sinodo dei Vescovi. Immagino la delusione di più di uno di voi, per questa sostituzione, e vi chiedo scusa.
Il Cardinale mi ha chiesto di sostituirlo, vedendo in questa sostituzione più di un motivo, più di un bene: il suo desiderio è che nasca un rapporto ancora più stretto e profondo tra la vostra associazione Medicina e Persona e la Diocesi di Milano.
Esiste anche un secondo motivo per cui il Cardinale Scola mi ha mandato questa sera, e che ci consente di creare da subito un bel legame nonostante il fatto che ci siamo incontrati da poco. Si tratta di un motivo legato al mio ministero presbiterale.
Mi presento. Sono un prete della diocesi di Milano nato nel 1963 e prete dal 1987.La Diocesi mi ha chiesto, diventato prete, di proseguire gli studi, per approfondire quel ramo della teologia che si interessa di comprendere l’esperienza cristiana a partire dal suo darsi, dal suo porsi dentro la trama dei legami sociali. Ho studiato così la teologia pratica, ovvero ho cercato (sto ancora cercando) di comprendere come il cristianesimo si è posto dentro la storia, assumendone le culture e i linguaggi e trasfigurandoli.
Come hanno già mostrato bene le domande che mi avete posto, noi con le parole facciamo cose, modifichiamo la realtà interpretandola. Sarà proprio questo il lavoro che faremo attraverso questa mia relazione.
Infine, c’è un terzo motivo per il quale il Cardinale mi ha inviato, ed è un motivo biografico. Sono il terzo di cinque figli (due gemelli prima e due gemelli dopo di me). I primi sono portatori di una sindrome e uno dei due è gravemente disabile; motivo per il quale le questioni sulla sofferenza e sulla cura che stanno animando il vostro convegno, hanno accompagnato e accompagnano tuttora la mia vita, interrogando e strutturando parecchio anche la mia fede.
Perché vi racconto tutto questo? Perché gli studi che ho fatto mi hanno aiutato a vedere come la sofferenza sia un luogo di costruzione del senso, di produzione di significati che esalta il nostro essere uomini come tutte le domande da voi poste prima hanno ben messo in luce. La nostra fede cristiana non può non immergersi in questo grande contesto in ebollizione. In un modo ancora più sorprendente, la fede cristiana, una volta immersa, ci apre spazi di significato e ci pone interrogativi che davvero sono capaci di dilatare la nostra ragione.
Solo per farvi un esempio, procedendo per associazioni libere: una delle domande che mi pongo in continuazione, di fronte alla sofferenza e alla disabilità, è la seguente: quando risorgeremo, un malato o un disabile quale corpo avranno? Perché la loro situazione attuale costruisce la loro identità, non è un semplice accessorio, ma struttura in modo integrato la loro persona. E tutto questo come funzionerà nel momento della resurrezione dei corpi? Come avete intuito bene, il problema non consiste tanto nel gioco di anticipazione di un futuro che non è ci disponibile, quanto piuttosto nella capacità di strutturare una comprensione del rapporto corpo – persona assolutamente originale e piena di interesse, nel mondo virtuale in cui siamo immersi.
Nella nostra cultura i segni della disabilità, della sofferenza sono letti secondo una logica mitopoietica della perfezione che li vede solo come menomazione; in realtà quei tratti segnano così tanto una persona che se le vengono cancellati paradossalmente non è più la stessa persona. Come immaginare perciò una pienezza, un compito che non coincida con la cancellazione di ciò che non rientra nel nostro concetto – per altro molto astratto – di normalità?
Questa lunga premessa aveva lo scopo di comunicarvi il mio essere in mezzo a voi in punta di piedi, tra tanti specialisti, con i miei pochi strumenti di teologia pratica, per tentare con voi un approccio fenomenologico alle questioni che mi avete posto.
Una sofferenza che interroga la nostra identità più vera
Incontrandomi per presentarmi il convegno, come poco fa, avviando la mia relazione, mi avete posto domande molto impegnative, che mostrano come la parola che da forma al nostro pensiero sia fortemente segnata dall’esperienza della sofferenza, e la assuma come strumento di conoscenza del reale e di ricerca della verità. Le domande che mi avete posto suonano così: come stare di fronte al dolore, riconoscendo l’altro come soggetto? Come gestire la violenza che il dolore e la malattia producono? Come reggere la domanda di significato che la malattia genera? Cosa significa curare? E, infine, come accompagnare gli accompagnatori?
Di fronte a simili domande, la prima attitudine è lo stupore e il silenzio, il bisogno di scendere in profondità, per non sprecare l’apertura di senso, la dimensione trascendente e l’apertura simbolica che contengono. Fin da bambini, dal dolore provato quando si cade imparando ad andare in bicicletta, fino a momenti molto più seri, ci siamo accorti di come sia complicato e costoso gestire la dose di non senso, di violenza e di degenerazione dell’umano che il confronto con il dolore produce sempre. Abbiamo compreso da subito il legame tra esperienza del dolore, sofferenza e strutturazione della nostra identità.
Come dare sostegno alla domanda di significato che queste situazioni portano con sé? E, non meno urgente – come è emersa dalle vostre domande in apertura a questo mio intervento – e pressante: come sostenere il terapeuta, colui/colei che accompagna queste situazioni di malattia e di dolore? Come una persona implicata nel dolore di chi gli è accanto può crearsi degli anticorpi, degli antidoti per evitare di essere vittima essa stessa di un processo di degenerazione dell’umano che lo porta a traguardi non voluti come il cinismo o l’estraneazione artificiale? (le nostre cronache quotidiane sono piene purtroppo di fatti che testimoniano simili processi di degenerazione in atto).
Un luogo e degli strumenti per districare il senso
Alla ricerca di strumenti e di processi che ci aiutino a comprendere come si può abitare la sofferenza diventando persone, utilizzeremo quel grande strumento che è l’interpretazione della parola, assumendo come terreno di analisi la vicenda di Gesù Cristo. L’ascolto di alcuni brani evangelici sarà il luogo che ci dischiude vie di senso e percorsi di accesso alla verità; i racconti evangelici ci mostreranno piste veramente originali e interessanti per la nostra ricerca, mostrando modalità inedite di costruzione delle relazioni con il malato, alla ricerca del senso della malattia e della forza rigeneratrice dei cammini di guarigione.
Vi propongo perciò l’ascolto di questo brano tratto dal vangelo di Marco (cap. 5)
21Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. 22E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23e lo supplicò con insistenza: “La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”. 24Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
25Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni 26e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, 27udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. 28Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”. 29E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
30E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi ha toccato le mie vesti?”. 31I suoi discepoli gli dissero: “Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?””. 32Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34Ed egli le disse: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”.
35Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: “Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?”. 36Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: “Non temere, soltanto abbi fede!”. 37E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. 38Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. 39Entrato, disse loro: “Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”. 40E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. 41Prese la mano della bambina e le disse: “ Talità kum “, che significa: “Fanciulla, io ti dico: àlzati!”. 42E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. 43E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
Per entrare nel testo assumiamo non tanto gli strumenti dell’esegesi diacronica, storico-critica (quelli più abituali), quanto piuttosto quei metodi esegetici che ci permettono di conservare e valorizzare l’unità letteraria del brano, i metodi sincronici o retorici, linguistici. Il brano ascoltato ci consegna così nella sua interezza come un grande universo di parola, un luogo di ristrutturazione (decostruzione e ricostruzione) del senso. In questa prospettiva, che cosa cicolpisce di questo testo? Sottolineo quattro punti fermi che ci serviranno poi per il discorso più logico e filosofico che faremo dopo.
Primo punto fermo: come irrompe sulla scena la malattia
La malattia, il dolore si presenta come un momento di disordine che destruttura l’ordine della narrazione la interrompe, la devia, la mette in crisi). Allo stesso tempo questa irruzione assume i tratti di un ancoraggio al reale. A differenza dei suoi interlocutori Gesù si lascia disturbare dal disordine che c’è nella vita intorno a lui. Gesù non ha paura di questo disordine, non lo nega, a differenza di tutta la folla che ha intorno che invece vuole ristrutturare l’ordine a costo dell’artificialità.Come spesso accade nei Vangeli i discepoli non ci fanno una grande figura, non capiscono cosa stia succedendo. Lo testimonia il fatto che non riescono a cogliere la possibilità di un “toccare” diverso (“come è? guarda la gente che lo stringe e chiede chi mi ha toccato?”).
Subito ci si impone una considerazione abbastanza paradossale: non sappiamo come siamo fatti, non sappiamo perché siamo fatti così,ma paradossalmente la malattia è il momento di disordine che ci permette di uscire dall’artificialità del linguaggio e vedere l’irrompere del reale in noi.
Introducendo questa mia relazione ponevate la questione dell’origine, dei miti che hanno sempre un senso di colpa iniziale. Il brano di Marco ci introduce nella logica che è propria del libro dell’Apocalisse. Per comprendere questo libro occorre assumere un assioma fondante senza il quale non si aprono i sigilli dell’architettura simbolica con la quale è costruito: la storia in cui siamo collocati è il luogo di un grande dramma, di una grande lotta tra Dio (che non è semplicemente il principio del bene,ma Dio!) e il principio del male, che invece è solo un principio.
Lo scenario dell’Apocalisse ci aiuta a comprendere la serietà del racconto di Marco, ce ne dischiude il senso profondo: ogni volta che ci caliamo dentro la storia non possiamo non fare i conti con il disordine entra nella nostra vita attraverso la malattia.
Coì si evidenzia meglio anche la reazione di Gesù. Come Gesù reagisce nel momento in cui si lascia disturbare dal reale? Utilizza il principio di cura come principio d’ordine, ristabilisce relazioni.“Chi mi ha toccato?”, chiede. Come a dire: ferma tutti!, sospendete l’azione, sospendete tutti i legami in movimento, curiamoli e ristrutturiamoli.
E di fronte all’azione di cura la donna è costretta a dire la verità; come quando Gesù va nella casa della figlia di Giairo: sentiamo che la consolazione della folla funzione secondo la logica della menzogna, mentre la parola di Gesù rivela una verità più profonda, mostra il reale oltre la superficie. Afferma “non è morta, ma dorme” e tutti lo guardano sbalorditi pensando: ma cosa crede di capire!
Così Marco ci insegna che spesso usiamo il linguaggio non per cercare il reale, per cercare di capire, ma come uno schermo, uno strumento per creare distanza e separazione.
Secondo punto fermo: il potere della parola
Il brano di Marco è ricco di frasi che l’analisi retorica classifica come dichiarative (cf come esempio: “la tua fede ti ha salvato”;“la folla ti stringe intorno e tu dici chi ti ha toccato?”)
Proprio questo tipo di costruzione letteraria ci aiuta nell’evidenziare la ristrutturazione in atto dei legami, dovuta all’irruzione dal reale legato alla malattia. Tutte queste frasi dichiarative hanno una funzione di riconoscimento, di far vedere ciò che sta avvenendo. E in questo modo si può sottolineare un particolare che rivela tutta la sua forza. Gesù dice alla donna malata: “la tua fede ti ha salvato”. Non la mia (di Gesù), ma la fede che già era in te. C’è qualcosa che tu avevi dentro e non ti accorgevi di avere. Il legame acceso dal tocco con Gesù permette alla donna malata di trovare energie di guarigione che nemmeno lei pensava di avere.
La stessa logica la troviamo nel momento in cui Gesù chiede al capo della sinagoga, al padre della bimba morta, di avere fede. Torna lo stesso schema. Il racconto evangelico è davvero un’icona del ruolo nodale che la parola ha nello strutturare i legami, e nel dischiudere vie di guarigione. Penso che per voi che lavorate nel mondo della malattia possiate capire l’importanza di questo dato.
Terzo punto fermo: la novità che è Gesù e il ruolo della fede cristologica
Proprio il rilievo dato alle trame che i discorsi strutturano, e al loro potere strutturante che rigenera le persone ci permette di cogliere la forza e la novità dell’evento cristologico. La fede in Gesù Cristo è lo strumento che consente di fare emergere una nuova strutturazione del reale, un nuovo modo di abitare il mondo e di riconoscerci come persone, un nuovo accesso alla verità e al senso della nostra storia.
È la persona di Gesù che consente alla donna malata e ai genitori di riconoscere la fede che è in loro; è sempre Gesù che smaschera la superficialità dei discepoli e la consolazione ipocrita dei conoscenti. Infine, è ancora Gesù che struttura un elemento molto interessante, il ruolo dell’intercessione: c’è bisogno di una parola che sostenga la malattia, una parola che la prenda su di sé, la elabori, la restituisca in una forma nuova, guarita.
Quarto punto fermo: la fatica del legame e le sue tentazioni
Se assumiamo il racconto di Marco come un brano capace di descrivere e ben rappresentare il quotidiano, siamo costretti a riconoscere che la nostra vita è un grande intreccio di legami che si fa fatica a dominare, anzi dei quali spesso si rimane vittime. Alla fine la malattia non altro se non l’emersione delle fatiche e delle ferite generate da questi legami.
È un dato importante quello che abbiamo appena scoperto. Siamo immersi infatti in una cultura che ha fatto della tecnologia la propria religione, trasformando il tempo della malattia in un momento soltanto subito, da attraversare nel modo più veloce possibile, affidandosi ciecamente ad una scienza che ci riconsegni guariti. Ciò che mi avete espresso all’inizio a proposito di una sorta di passività da parte del malato, che si consegna al medico chiedendo di essere riconsegnato guarito, ha un funzionamento magico. Un funzionamento che ci fa regredire, perché ci riporta a stati dell’infanzia in cui pensavamo di poter risolvere la conflittualità nella quale eravamo immersi spegnendoci e nascondendoci.
Ma il brano del vangelo di Marco ci mostra che l’esperienza di guarigione è qualcosa di molto diverso, che ha a che fare con la maturazione del soggetto, la sua crescita, il riconoscimento di una fede nella paternità di Dio.
Una grammatica dell’umano e il ruolo della sofferenza
Siamo ormai pronti a cambiare registro e ad affrontare una riflessione più logica, che ci aiuti a costruire un discorso strutturato in grado di affrontare le domande che mi avete posto. Potremmo intitolare questo punto – che per comodità dividerò in quattro sottopunti – in questo modo: in che modo l’atteggiamento visto di Gesù, che il brano dell’evangelista Marco ci ha raccontato, ci aiuta a comprendere la grammatica fondamentale che svela la nostra umanità? Perché l’attitudine della cura ci permette di cogliere in modo unico la verità della nostra esistenza e il senso delle nostre azioni? Quattro passi per capirlo.
Primo passo. Apprendere a sostenere la domanda
Per poter affrontare il dolore e la sofferenza, ci ha fatto comprendere l’episodio del Vangelo che abbiamo ascoltato, occorre essere capaci di strutturare una nuova visione del mondo secondo la quale la malattia è espressione del disordine e dell’attesa di compimento che anima il nostro mondo, dalla sua creazione. Rimando alla riflessione lucida e appassionata dell’apostolo Paolo, nel capitolo 8 della Lettera ai Romani: non è un caso che in quel contesto san Paolo rilegga il disordine presente nel mondo attraverso la metafora del parto: “tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi” (Rm 8,22).
Il parto è una metafora piena di energia. Riesce a trasformare il dolore in gioia, un elemento di morte in un elemento di vita. Per comprenderne la forza, dobbiamo ricordarci che ad utilizzare la metafora è uno scrittore di duemila anni fa, immerso in un contesto in cui il parto era ancora molto legato all’esperienza della morte (del bambino come della madre: come ci ricorda l’antropologia culturale, la vera rivoluzione femminile è avvenuta quando all’inizio del ventesimo secolo si è separato il momento del parto dal rischio della morte. Lì si è realizzata un cambio di paradigma nella cultura e nella società).
L’operazione intellettuale compiuta dall’apostolo Paolo è incredibilmente attuale: ancora oggi fatichiamo a leggere la sofferenza e il dolore all’interno di una logica simile di senso. E il motivo di questa nostra fatica è facile da trovare: abbiamo perso la capacità di riconoscere il senso della storia, non siamo capaci di vedere l’orientamento escatologico del tempo. Come afferma un teologo gesuita contemporaneo, Christoph Theobald, facendo proprie le riflessioni del filosofo Karl Jaspers, siamo ormai entrati in una cultura post-assiale, ovvero in una cultura che non legge più il tempo come una linea retta che parte da un principio e giunge a un compimento. Questa intuizione, frutto della fede ebraica e poi cristiana, è ormai patrimonio perso. E una simile perdita non ci aiuta a cogliere il bisogno di ordine che l’incontro con il disordine causato dall’esperienza del soffrire provoca in ogni persona. Siamo come privati della grammatica che ci permetta di porre la domanda; il dolore resta spesso un gemito inespresso, incapace di accendere metafore come invece la riflessione dell’apostolo Paolo è riuscita a fare.
E il rischio di un esito cinico, in un simile contesto, è sempre in agguato.Per quale motivo non riusciamo più a comprendere la malattia? Perché non riusciamo più a elaborare il disordine che genera e quindi la violenza che genera? Perché effettivamente non abitiamo più in contesto culturale in grado di orientarci, dandoci in questo modo strumento per trovare il senso dentro la sofferenza. Il dolore e il soffrire come momenti da nascondere, oscurare e superare, e non più come luoghi in grado di farci crescere proprio grazie alle metafore che sanno accendere, che ci aprono al vero.
Proprio in questo punto si situa in modo chiaro il tema che state trattando in questo convegno: la logica della cura, l’umanesimo della cura è lo strumento di cui abbiamo bisogno di ridare senso e dignità al dolore e alla malattia, per renderli di nuovo umani. La capacità di cogliere la domanda e il desiderio che si celano dentro il dolore e la sofferenza, è quanto di più ha bisogno la nostra cultura attuale. Abbiamo bisogno di tornare a costruire linguaggi e trame narrative che consentano a chi è immerso (sprofondato) nell’esperienza del dolore di cogliere questa dimensione della sofferenza. Questo è il primo compito della cura, da affiancare immediatamente alla terapia e ai protocolli scientifici, che rivelano tuttavia sempre più la loro povertà proprio nell’estremo grado di tecnicità raggiunto, che riduce la sofferenza a mero oggetto anziché leggerla come una esperienza.
Secondo passo. Dischiudere il concetto di terapia
Abitando la sofferenza come una esperienza, ed esercitando la cura come compito di sciogliere il disordine a aprire all’intuizione dell’ordine originario pensato da Dio, siamo pronti a fare nostro il significato che la fede cristiana dà al termine “terapia”. I vangeli ci raccontano le guarigioni di Gesù; ma il verbo greco per esprimere il concetto di guarigione è θεραπέυειν (therapeuein). Gesù guarisce prendendosi cura. Questa associazione di significati, questo collegamento tra terapia e cura è un dato che a prima vista sorprende, e che quindi chiede di essere ben metabolizzato, per coglierne il valore più profondo.
Il dato evangelico ci aiuta a comprendere che la terapia è sempre una cura, ovvero una relazione tra soggetti che assume con coraggio l’intermediazione del corpo sia individuale che sociale (perché non esistono i due separati) come luogo in cui si attivano processi di guarigione. La terapia per i cristiani è qualcosa di molto umano e umanizzate; il contrario dell’artificialità, della proiezione in un dimensione tecnica e asettica.
Per i cristiani la guarigione consiste nel riuscire a comprendere il senso profondo di quello che sto vivendo, fosse pure una malattia che mi porta alla morte. Comprendere che proprio questo itinerario che sto vivendo, questo essere confrontato mio malgrado con un disordine che non riesco a dominare, questo è il contenuto del concetto di cura e il percorso che porta alla guarigione: mi aiuta a capire che il momento che sto vivendo ha un senso e non solo per me, ma per l’umanità. E la prova di questo senso è in tutte le persone che mi accompagnano, e che mi aiutano a reggere questo senso.
Terzo passo. Aiutare a reggere il senso. Il compito dell’intercessione
Come funziona il processo di guarigione, così come lo abbiamo appena descritto? E come funziona questa soggettazione comunitaria della idea di terapia (e, di conseguenza, come si ridisegna la figura del terapeuta)?
Per comprendere come funziona il processo di guarigione prospettato poca sopra vi invito a rifarvi ad un altro racconto evangelico, la guarigione del cieco nato, così come ci è presentata in Gv 9.
1 Passando, vide un uomo cieco dalla nascita 2e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. 3Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. 4Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. 5Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo”. 6Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco 7e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe” – che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Il racconto inquadra Gesù, accompagnato dai discepoli, che incontra il cieco nato. Subito l’evangelista ci fa notare la differenza di sguardo: per i discepoli si tratta di affrontare un problema astratto di teologia (“chi ha peccato, lui o i suoi genitori”?); per Gesù, invece, è l’occasione per manifestare il suo atteggiamento di cura (“questa malattia non è per la morte, ma per la manifestazione delle opere di Dio”). come nell’episodio di Marco i discepoli hanno il compito di rappresentarci, di rappresentare l’atteggiamento superficiale di chi pensa che la sofferenza possa essere superata astraendola dal contesto esistenziale, dal quadro vitale in cui è inserita.
Gesù invece avvia un processo di guarigione. Alita sulla terra, rifà il gesto creatore del Padre, ridà la vista e la vita al cieco. Ma non impone al cieco questo processo. Ne attiva la libertà, invitandolo a recarsi alla piscina di Siloe (dal forte significato teologico) per un lavacro che è purificazione.
Mettiamoci nei panni del cieco. Questa attivazione della sua libertà personale non è indolore. La tentazione di operare a vuoto, di essere per l’ennesima volta illuso, di non fidarsi perché non si comprende, lo ha certamente attraversato, come la prosecuzione del racconto lascia intendere, e come avviene per i suoi genitori e per le persone che lo circondano. Vista dal punto di vista del cieco, che è il punto di vista della nostra libertà, anche la creazione – anche il gesto più grande e bello di Dio nei nostri confronti, quello della creazione – appare terribilmente ambigua. Ancora una volta, l’immersione nel reale genera disordine che chiede di essere interpretato, ricondotto ad un senso. E tutto questo non può avvenire senza un mettersi in gioco in prima persona.
Il miracolo del cieco nato alla fine è lo scioglimento della violenza che il cieco aveva subito fino a quel momento. La guarigione è questa capacità di sciogliere il contenuto di disordine che la malattia come irruzione del reale porta sempre con sé.
Diventa chiaro a questo punto anche il ruolo della preghiera, come elemento indispensabile del processo di guarigione. La preghiera di chi è vittima nella sofferenza, ma anche di coloro che assieme a lui portano quella sofferenza per elaborarne il senso, lasciando sciogliere il disordine nell’ordine del racconto e della narrazione del senso. È quanto insegnano i santi, quando sono accanto al dolore e alla sofferenza; è quanto insegnano nelle nostre città e nelle nostre strade le suore di Madre Teresa, con la loro ostinata preghiera davanti all’Eucaristia come ingrediente primario del loro atteggiamento di cura e di guarigione.
Quarto passo. La figura del terapeuta, ovvero il ruolo del passatore
Perché si possa abitare la sofferenza attivando processi di guarigione, il ruolo del terapeuta risulta fondamentale. Gesù – nel ruolo di terapeuta – ce lo ha appena mostrato, nel brano dell’evangelista Giovanni come in quello precedente di Marco.
La figura del terapeuta non è quasi mai una figura individuale. Al contrario, spesso è una figura comunitaria, capace di comporre assieme attitudini di alcuni individui, scenari culturali e dinamiche affettive. È una figura essenziale, quella del terapeuta, che abbiamo identificato anche come la figura dell’intercessore, ovvero di colui che è chiamato a tenere alta la domanda e aiutare il malato a sentirsi soggetto, a riscoprire la propria umanità, e a trovare in se stesso la fede che lo salva, la presenza dello Spirito che lo guida nel cammino di guarigione.
Un simile modo di pensare il terapeuta ne evita lo scadimento nel ruolo dello sciamano. Nei brani evangelici che abbiamo ascoltato, Gesù non si comporta mai da sciamano, non interviene esibendo poteri sovrumani che obbligano all’assoggettamento e creano logiche di dominio. Gesù libera, nella logica di un bene in grado di rivelare il ruolo del soggetto stesso nel suo processo di guarigione.E – in modo paradossale – è proprio la libertà con cui guarisce che spinge coloro che sono guariti a legarsi a lui, a scoprire la sua natura divina, il suo ruolo messianico.
Il terapeuta è dunque una guida, ma una guida appassionata, che ci mette tutte le sue energie nell’accompagnare il percorso di guarigione del malato. Come nel racconto di Marco, dove si dice di Gesù: “essendosi reso conto della forza uscita da lui”. Il compito terapeutico è costato a Gesù, non lo ha lasciato indenne. Gesù stesso si è sentito suo malgrado costretto a mettersi in gioco.
Questa attitudine terapeutica, che Gesù esercita in modo individuale, è raccontata invece – quando in scena ci sono i discepoli – come collegiale e comunitaria. La cura ha una dimensione intrinsecamente comunitaria; chiede di attivare legami che strutturino reti e comunità. Di fronte alla sofferenza, dentro la sofferenza, c’è bisogno di incontrare terapeuti che aiutino a portare il peso della domanda di senso che il dolore accende soprattutto in chi è colpito e toccato in modo diretto.
Questo è il compito del terapeuta. Più che il compito, questa è la sua missione e la sua identità. Contro le derive di astrazione dal reale e di artificializzazione che spesso vengono accese nel nostro modo attuale di affrontare la malattia e il dolore c’è bisogno di persone che tornino a vivere il forte ancoramento al reale che il concetto di cura porta in sé, la sua capacità di legarci alla vita, e di trovare proprio dentro questo legame il senso della nostra esistenza, anche quando segnata dal dolore.
È questo l’augurio che faccio ad ognuno di voi, chiamati ad essere questi terapeuti nel quotidiano delle nostre case e dei nostri centri di cura.
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