Le osservazioni dei partecipanti ai seminari di lavoro a gruppi: Il bisogno – 16 marzo 2018
Una sintesi del contributo di chi si è coinvolto intervenendo sulla base della propria esperienza e del confronto con le proposte dei relatori. Appunti per favorire lo sviluppo del seme piantato
Esiste una difficoltà ad accettare la sofferenza, la malattia, il limite come parte di una condizione normale di bisogno. Questo problema, che accomuna pazienti e operatori, sfida nel lavoro quotidiano i bisogni, i desideri e le motivazioni di ognuno. E si misura oggi con realtà sempre più complesse di disagio e con le loro domande di salute. Vi è un percorso positivo utile?
Il disagio dell’operatore
Curare chi cura significa (anche) sentirsi considerati. I diritti ce li hanno gli altri, a noi tocca solo rispondere per dovere. La società ci chiede impegno – come se avessimo il compito di “aggiustare” tutto: le cronicità, la vecchiaia, le demenze ecc. -, ma non riconosce il lavoro che facciamo.
Si dice che occorre lasciare spazio all’altro, ascoltare il paziente, ma troppo spesso prevalgono i miei problemi, i miei bisogni, le mie preoccupazioni. La vita e il lavoro spesso non vanno d’accordo. Come tenere di fronte alle richieste esigenti che il lavoro ti pone?
Problemi sono inoltre l’invecchiamento degli operatori, la stanchezza e la demotivazione sentita dai professionisti a contatto con cronicità e fine vita, il mancato riconoscimento delle professioni prive anche di retribuzione adeguata.
Il bisogno di formazione, non solo di addestramento formale
Si parla tanto di formazione e aggiornamento, ma spesso poi l’aggiornamento si riduce alla conoscenza di protocolli, a fare schede, a imparare l’uso di procedure o a rispettare orari… La formazione può essere ridotta a fornire “istruzioni per l’uso”, a un addestramento formale e in fondo autoreferenziale? Lavorare bene consiste nel riempire schede (cadute, contenzioni, diari, mobilizzazioni)? E i controlli è giusto farli solo sulla documentazione formale?
Un corso come questo è desiderato, proprio per recuperare motivazioni come obiettivo di formazione. L’auspicio è di poter poi trattare argomenti più inerenti il lavoro quotidiano.
Si evidenzia inoltre la difficoltà di riuscire a comunicare agli studenti la relazione di presa in carico: cosa possono davvero vedere da noi nei tirocini di formazione?
L’esperienza cresce dentro l’incertezza e le difficoltà
Le mie fatiche mi hanno fatto riflettere, facendomi capire di più le ferite dell’altro e superare una posizione “salvifica”… Ad es. l’idea di andare in Africa come per salvare il mondo. Ma l’esperienza del dolore e della morte condivisa laggiù con la persona e con i familiari è stata fonte di positività e gratificazione per me impensabili.
La scoperta che la nostra incertezza può essere costruttiva, possibilità di crescita nell’evolversi della professione. Tante volte invece ci si trova con persone che si ritengono già a posto, che sanno già, che non si pongono domande, e se non c’è domanda …
Impari se ti metti in gioco, se sei implicato, se sperimenti qualcosa di corrispondente a te, se percepisci che c’è un “guadagno” e una crescita, se non sei chiamato solo a svolgere un ruolo, un turno, un minutaggio.
Il prendersi cura e la fiducia nella relazione
Ci confrontiamo con la nuova frontiera del “prendersi cura” nella relazione. Ed è la relazione che cura, certo mediante le tecniche. La presa in carico diventa un fattore di crescita per l’operatore.
Le relazioni hanno bisogno di fiducia. Ma la fiducia dove la si trova? Come si costruisce un clima di fiducia? La relazione non di rado c’è. Ma la fiducia …? Dipende anche dal nostro sguardo?
Ad es.: il malato oncologico, è lui stesso che chiede una relazione, che a sua volta diviene fonte di soddisfazione e motivo di gratificazione per l’operatore. Anche nella medicina del lavoro ascoltare l’utente (lavoratore), non bastarsi da soli, fa bene. E nella relazione con i disabili, che sta tra educazione e cura, dire “tu vali” aiuta la ricostruzione e restituzione di un’identità.
Il gruppo di lavoro di cosa ha bisogno
Le difficoltà con i colleghi appesantiscono il quotidiano: manca la comunicazione tra operatori e la trasmissione di esperienza, basi del lavoro insieme.
L’apporto individuale, che fa trasparire la motivazione personale, può cambiare un’équipe.
Lavorare bene, fare gruppo/équipe ha che fare con:
– una struttura personale umana;
– un cuore;
– se non c’è desiderio di realizzazione, se non c’è uno sguardo sulla realtà “conciliato”, c’è solo arrabbiatura perché sei un numero.
Come potersi conciliare con la realtà
I CPS fronteggiano sempre più fenomeni di disgregazione sociale e i loro effetti sulla persona. In generale, però, i servizi rischiano di non occuparsi dell’umano ma di un individuo astratto, in un contesto di individualismo di mancanza di legami.
Proviamo a confrontarci con la realtà insieme al gruppo di lavoro e gestire la domanda della realtà. E usare le nostre risorse personali (il tempo, l’ascolto) per riconciliarsi con la realtà, e quindi con il limite.
Importante è anche la voglia di imparare, l’interdisciplinarietà ecc. …; e insieme abbiamo bisogno di esempi, di personalità che siano di riferimento.
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