“La cura al confine”. Conclusioni al termine del convegno – Giorgio Cerati
Il numero del 2017 del Journal raccoglie i contributi del convegno “La cura al confine. Le relazioni di cura tra incontro e cultura dello scarto”, realizzato a Milano (27-29 ottobre 2016). Il Convegno ha cercato di raccogliere un’esigenza forte: quella di risignificare e di rinnovare l’agire professionale. Si tratta, dicevamo, di una sorta di sfida. Ne sottolineiamo, in sintesi, alcuni aspetti che potrebbero diventare l’indice di un lavoro sistematico, anche di tipo educativo e formativo:
- La cura origina da una dimensione umana e implica l’apertura di una confidenza con il bisogno
- Al processo di cura partecipa la persona con la rete di relazioni che la costituiscono
- Accogliere e capire la domanda della persona crea il rapporto di alleanza con l’operatore
- Il contenuto dell’atto clinico si svolge all’interno della relazione di cura tra paziente/i e curante/i
- Il corpo del malato è il luogo normale della clinica ove si incontra il soggetto, l’altro, irriducibile a scarto
- Responsabilità e identità professionale sono da riscoprire sul fondamento della relazione di cura
- L’organizzazione sanitaria non può eludere fattori quali il soggetto, la relazione di cura, il tempo.
Sono i tratti di una sfida, che tra l’altro interpella la nostra soggettività di operatori sanitari, il nostro essere professionisti oggi, e che ci viene rilanciata in continuazione e nel concreto. Tant’è che il senso della malattia e della cura vanno insieme alla centralità del corpo. Ma se guardiamo il corpo come una macchina da sistemare e non come l’emergere dell’io, base del rapporto con il paziente, noi cediamo inevitabilmente all’equivoco. Proprio su questo la relazione del Cardinale apre uno squarcio vertiginoso.
Anche il dialogo che ne è seguito ha offerto spunti di grande rilievo, che desideriamo riassumere.
Vi è differenza tra i termini di “limite” e “finitudine”usati per descrivere la natura umana. Esiste un significato positivo della finitudine che richiama la figliolanza, il fatto che siamo voluti e amati, fin dal concepimento, da Dio. Questa è la ragione ultima per la cura. Il riferimento a Dio giustifica una passione per l’umano che può essere definita come cura, al contrario della cultura dello scarto. Invece, il concetto di limite di per sè non tiene conto della relazione con Dio, pensa l’uomo indipendentemente da Lui, mentre la parola contingenza o finitudine si fonda su questo rapporto costitutivo con Dio.
È solo l’amore che spiega la finitudine umana e l’imperfezione. E, per questo, senza amore non c’è cura. Perciò concepire il senso del limite come contingenza può davvero aiutare a vivere, nella pratica, le relazioni di cura.
Inoltre circa la positività dell’incontro con l’altro, che rende affascinanti le professioni sanitarie, occorre ribadire la centralità del corpo, perché passa da lì la relazione di cura. Il corpo infatti è l’emergere dell’io e non può essere ridotto al suo dato bio-spaziale: come abbiamo visto, esiste una saggezza spirituale del corpo che giunge fino all’eros. E questo rimanda all’aspetto di trascendenza insito nel corpo.
Gesù è risorto nel suo “vero” corpo. Come ha detto S. Agostino: “Noi crediamo nella Risurrezione e questo evento dà alla nostra fede una grande speranza per consolarci del nostro pellegrinaggio terreno, perché siamo in una via non consistente in luoghi, ma in affetti”.
Concludiamo dunque con questa apertura alla speranza, autentico supporto laico ed esistenziale ad ogni atto di cura.
Giorgio Cerati
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