Il disagio dell’inciviltà, ovvero il disagio giovanile oggi

Vittorino Andreoli – Psichiatra e scrittore, Verona

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Il saggio Il disagio della civiltà di Sigmund Freud

Il titolo, Il disagio dell’inciviltà, vi avrà colpito, proprio perché c’è un saggio molto noto che parla del disagio della civiltà che Freud ha scritto nel 1929. Fa parte di quegli scritti che non sono propriamente legati all’io, alla psicologia dell’io e alla tecnica psicoanalitica, ma toccano più i rapporti dell’individuo con la società, con le religioni. Anche il bellissimo saggio su Mosè e il monoteismo ne fa parte, come pure Totem e tabù. È la parte di Freud che io amo di più, non essendo psicoanalista e anche questa è una precisazione che va fatta.

Il termine civiltà non esprime ciò che intendeva Freud, tant’è che nel titolo originale Behagen in der Kultur, Kultur diventa civiltà e su questo si potrebbe discutere molto anche dal punto di vista etimologico. Credo che sarebbe preferibile il termine società, almeno per quello che è la semantica che noi oggi soprattutto usiamo.

Partirò proprio dallo scritto di Freud, poi cercherò di vedere come questo scritto possa interpretare la situazione del disagio nella società attuale e guarderò in modo particolare il mondo

adolescenziale.

Mi piace che Bertolazzi abbia messo in evidenza che ormai il disagio appartiene a tutte le età, in parte diverso, ma comune. Io faccio parte, e voi lo vedete senza che io lo dica, della terza o quarta età, ma anche per chi fa il passaggio dal momento in cui occupa un ruolo sociale a quando non ce lo ha più, avverte limiti che si traducono in disagio.

Permettetemi alcuni richiami al testo di Freud, La posizione di Freud in questo libro è molto semplice. La civiltà si sviluppa – civiltà per me vuol dire società, come ho detto -, la società si sviluppa a prezzo di una perdita di felicità da parte del singolo. Perché? Perché pone dei limiti. In questa affermazione richiama alla lotta tra Io e Super Io. Qui precisa chiaramente che, come c’è un Super Io individuale, c’è anche un Super Io sociale o della civiltà. La società nel suo insieme rappresenta un Super Io, oltre a quello che ciascuno di noi vive individualmente, in maniera del tutto personale.

Attraverso cosa avviene la perdita di felicità?

Qui devo soffermarmi sul significato del termine felicità. Nella letteratura felicità ha dominato, e forse oggi bisognerebbe cambiarlo, a partire da Platone. Nella Republica, Platone dice che l’amministrazione della città deve essere fatta in modo da dare a tutti i cittadini la felicità. L’uso del termine felicità é continuato, ma oggi la nostra società ne ha dato un senso diverso: per felicità noi indichiamo una risposta acuta che segue ad uno stimolo, ad un evento che può essere piacevole, appunto nell’ambito proprio della dimensione del piacere.

Il termine con cui sostituirlo è gioia: un vissuto molto più lungo, non è la risposta ad uno stimolo, ma una condizione esistenziale che ammette anche la tristezza. Ricordo sempre una frase di mia nonna Virginia quando una volta, vedendola piangere dissi: «Ma che cos’hai, nonna?», mi rispose «Piango di gioia». La gioia è una condizione che tiene conto degli altri, dell’insieme.

Ritorniamo a Freud. La società ci dà dei limiti, ci impedisce di godere di quella felicità che noi vorremmo, perché? Perché genera il senso della colpa. Vorrei che voi sottolineaste questo termine perché vi ritorneremo a proposito dei giovani di oggi. Il fulcro di questo scritto è che il senso di colpa è in qualche modo importante per analizzare il perché noi viviamo un rapporto conflittuale con la società.

Scrive Freud: “Come il soddisfacimento pulsionale è fonte di felicità, così il mondo esterno è causa

di grave sofferenza quando ci fa vivere condizioni disagiate, quando ricusa di saziare i nostri bisogni.” Freud distingue nettamente i bisogni del singolo rispetto ai bisogni di una collettività. 

Il conflitto tra io e mondo è insanabile perché, secondo Freud, l’io è guidato dal soddisfacimento delle pulsioni che sono del tutto legate al singolo, e pertanto ogni freno porta ad una conflittualità.

La civiltà è responsabile di gran parte della nostra infelicità. 

Questo conflitto è bene espresso oggi nella relazione tra padre e figlio. La figura del padre la usa molto anche Freud, per esemplificare il concetto di autorità: usato in Totem e tabù, il padre proibisce che i maschi possano legarsi alle donne del clan.

È il padre degli ebrei, e in Freud lo è in modo molto ancestrale, direi storico. E nel libro, Mosè e il monoteismo, egli fa un’analisi che è veramente straordinaria.

Insomma le espressioni ‘padri e figli’ e ‘conflitto generazionale’, si riallacciano molto bene a questa concezione della società: il padre è l’uomo della società che interpreta i bisogni della società e fa sì che le pulsioni del figlio vengano incanalate o rese possibili nell’insieme sociale.

Perché il conflitto viene mediato dal senso di colpa, perché ne è il responsabile ? Freud sostiene che il senso di colpa è un fattore che la società riesce a mettere dentro ciascuno di noi. Esiste un processo che porta i divieti sociali, il Super Io, a entrare dentro di noi. L’educazione ha il compito di far sì che ciascuno si senta di bloccare le pulsioni, di controllarle, credendo che siamo noi stessi a volerlo, mentre in realtà non è altro che il Super Io della civiltà che è dentro di noi.

Freud parla di una successione temporale: prima c’è una rinuncia pulsionale per timore dell’aggressione da parte dell’autorità esterna, cioè il padre; la società poi ci limita, ci fa paura, ci spaventa, e quindi è come se il limite venisse dall’esterno. Ma successivamente questo si trasforma in una autorità interna: cioè la rinuncia pulsionale è dovuta a qualcosa che è dentro di noi, che Freud chiama angoscia morale.

Il Super Io di Freud riporta alla legge morale di Kant, che però egli metteva sopra di noi, mentre Freud sostiene che il limite interiore non è altro che una derivazione della paura esterna che viene introiettata, e quindi non è né spontaneo né naturale, ma è creato da una società che si impone e alla fine scompare lasciandoti però l’imperativo dentro che devi limitare le pulsioni.

Se il Super Io individuale è una delle istanze strutturali dell’individuo, il Super Io della civiltà lo si acquisisce con il tempo. Questa è la posizione freudiana, dalla quale partirei per richiamare i tre termini che adesso userò per sviluppare il tema della società del presente.

Il primo allora è il senso di colpa. Il senso di colpa è un mal d’essere che ciascuno di noi prova quando compie un’azione diversa da come avrebbe voluto compierla. Un malessere che avvertiamo quando andiamo contro le leggi della civiltà che, avendole introiettate, chiamiamo Super Io.

La seconda parola è il conflitto. Conflitto tra io e società o tra io e civiltà. Da qui, secondo Freud appunto, emerge il disagio.

Il terzo termine, e questo lo introduco perché è un altro punto fondamentale del saggio di Freud, è l’aggressività. Se noi limitiamo le nostre pulsioni, e quindi aumentiamo il senso di infelicità, che potremmo anche definire come felicità negata, se aumentiamo la sensazione di blocco, dobbiamo trovare delle vie alternative che spostino questa mancata felicità per raggiungere comunque il livello di soddisfazione del principio del piacere.

Riporto questi tre termini nel significato ora definito nella società contemporanea, cioè nel tempo presente, focalizzando soprattutto l’attenzione, che nel saggio di Freud è sull’uomo senza distinzioni di età, specificamente sul mondo giovanile, sul mondo degli adolescenti, perché questo mi è stato richiesto. Comincia a diventare comprensibile perché parli, capovolgendo il titolo che Freud ha dato al suo Saggio, di disagio della inciviltà.

Il mondo della adolescenza

Oggi il senso di colpa negli adolescenti è non solo diminuito ma, nei casi estremi , il senso di colpa non c’è.

Questa affermazione è comprensibile, perché la società in cui viveva Freud, che è la società viennese a cavallo tra ‘800 e ‘900, era molto solida, autoritaria, sia per quello che era il potere centrale – c’era un grande impero – sia per quelle che erano le figure istituzionali: il padre. Inoltre Freud fa riferimento alla società ebraica, dove, in fondo, il padre della famiglia è un’espressione del padre di tutto un popolo, di Jahvè. Se quella società era funzionalmente adatta a introiettare il senso di colpa, oggi mancano i presupposti strumentali, la coerenza , la forza, la convinzione: i comportamenti che per quella generazione erano riprovevoli, oggi non lo sono più. Tutto è banalizzato, impoverito, nulla è così forte da essere all’altezza del Super Io. Del resto si parla di società “liquida”, confusa proprio ad indicare che non vi sono direttive, convinzioni forti fino a elogiare il laissez faire.

Si è semmai imposto il senso della vergogna che è altro rispetto a quello di colpa. Qual è la differenza?

Il senso della colpa è la sensazione di un mal d’essere che si prova quando un soggetto si comporta in un modo mentre voleva comportarsi in un modo differente: c’è uno iatus, una distanza tra il voler essere e l’essere. In questo caso il confronto è dentro se stesso, tra ciò che uno fa e ciò che invece è implicito come imperativo dentro di lui, che pertanto avrebbe dovuto fare. Il senso di colpa porta ad una svalutazione, al sentire di aver fallito, alla sensazione di non essersi comportati nel modo che si sarebbe dovuto.

Cos’è il senso di vergogna? Il senso di vergogna è pure un malessere, ma lo si prova quando, compiendo una data azione, si viene scoperti da persone che la considerano negativamente. Il giudizio non è del mio Super Io nei confronti del mio Io, che potrebbe anche riconoscersi nell’Io ideale. Il senso della vergogna dipende esclusivamente dalle persone che ti scoprono.

Un adolescente entra in un supermercato, ruba un paio di occhiali (oggi quegli occhiali sono un simbolo di partecipazione), è tutto contento perché li ha anche lui , ma mentre sta per uscire viene scoperto. Nasce in quel momento la limitazione del piacere, la società lo blocca perché gli dice “questo non è tuo”, ma lui non sente la colpa, cioè non disapprova ciò che ha fatto.

Il senso della vergogna fa arrossire: “guarda, è diventato rosso dalla vergogna”, una reazione della cute, proprio al confine tra la propria individualità e il mondo altro, il mondo esterno. Il senso di colpa fa impallidire, al contrario.

Dunque manca totalmente il senso di colpa, mentre la vergogna c’è e si lega al fatto che qualcuno ti smaschera e ti impedisce la soddisfazione e, quindi, il problema dipende non da qualcosa che è introiettato dentro di te ma qualcosa che è fuori di te.

Se invece di trovare persone che controllano, quell’adolescente fosse uscito e l’avesse scoperto un gruppo di ladri, quel malessere non ci sarebbe stato. E non può sfuggire il livello di malcostume e di ladri che sono parte della società adulta e persino dei rappresentanti la società.

Credo che non sia possibile accordarci oggi con il saggio di Freud, perché sono cambiati i tempi. Noi abbiamo di fronte degli adolescenti che non hanno il senso di colpa. E ci troviamo in una società incapace di porsi come una entità etica, fondata su principi precisi che significa anche su divieti che riguardano proprio ciò che si contrappone agli imperativi.

E per sostenere questa affermazione desidero farlo in maniera “leggera”. Abbiamo condotto un confronto sull’uso di termini che potessero essere un termometro della moralità della nostra società, osservando l’uso dei termini: ‘ladro’ e ‘rubare’, nei tre quotidiani nazionali a dieci anni di distanza. Da un uso preciso e frequente è ora scomparso. Nessuno più lo usa. Una delle parole che lo sostituisce quelle è ‘flessibile’, comportamento flessibile. Come a dire: “Aveva bisogno di una cosa, non è rigido, invece di comperare…”.

Domina la sensazione della mancanza di limiti: questo vuol dire ‘flessibilità’. Insomma sarebbe errato guardare agli adolescenti senza indagare l’ambiente più vasto , la società in cui essi vivono.

Anche per quanto riguarda gli adulti, è cambiata molto la società (non mi piace il termine civiltà, ripeto, perché ho ancora l’idea della grande civiltà del passato), e basterebbe soffermarci su un altro termine “tradimento” e “infedeltà”.

Io sono sposato da 47 anni e tutti pensano, i miei colleghi psichiatri, che io sia impotente – ma non è vero! – e dicono “non è come noi”, “non è che sia fedele, poveretto …”. Quando li incontro ai convegni internazionali, ogni volta hanno una partner diversa mentre io sto sempre con mia moglie. A parte questo quadretto, impertinente, la fedeltà a una relazione non è vista come rispetto della storia , non di una porzione del corpo maschile e femminile. Il legame matrimoniale rappresenta una storia dove ci son dentro figlioli, nel caso mio anche nipoti. La fedeltà è una grandissima cosa, non può essere tradita o commercializzata, senza nemmeno il senso della colpa, come se fosse addirittura un dovere o un comportamento non sanzionabile perché banale. 

È possibile rinvenire le ossa della colpa oggi soltanto nel tradimento della dieta, evidente in situazioni sociali tipiche in cui il marito si lamenta con la moglie: “dovevi fermarmi quando mangiavo troppi bigné”.

Questo per quanto riguarda il senso della colpa, ma ora dobbiamo riprendere la seconda parola: ‘conflittualità’?

Ma esiste veramente una conflittualità tra padri e figli? A me pare di no, e per due motivi fondamentali: primo perché i padri, nell’attuale società, non ci sono. Gli adolescenti di oggi non hanno nemmeno il senso del conflitto, perché sono veramente abbandonati. Non c’è neppure una diatriba, non c’è una vera lotta tra ciò che impone il padre e l’adolescente. Domina la paura a dare, a esprimere dei pareri, si arriva ad un laissez faire, come una modalità per non impegnarsi, credendo che tutto sommato non sia negativo.

Non vedo insomma oggi una grande conflittualità, mentre abbondano i segnali intonati alla gratificazione: ‘tuo figlio è bello’, ‘è vestito bene’. E se qualche insegnante scrive una nota, il padre corre subito a protestare per difenderlo. Non tutti, è chiaro, ma sto descrivendo un clima diffuso. In questo modo non vengono nemmeno difesi, ma giustificati.

Per questa assenza, le famiglie, le nostre famiglie, si trovano di fronte a comportamenti che sono estremi e inaccettabili da parte dei figlioli, ma ‘nessuno ci pensava’, e si tenta di negarli: ‘ma non è possibile, sono tutti bravi ragazzi’…

Rispetto alla conflittualità, che è aver davanti qualcuno, come diceva Freud, che ti impedisce di realizzare delle pulsioni e quindi si tratta di qualcuno che ti limita, esiste oggi la convivenza fredda, non una condizione di partecipazione, non un sodalizio, ma invece un vero abbandono.

I nostri adolescenti, senza questo confronto, sia pure con figure che potrebbero non offrire rappresentazioni consistenti al Super Io in formazione, sono destinati alla mancanza del senso di colpa, perché non si formano, non si strutturano compiutamente e sono portati ad un comportamento che si lega esclusivamente all’empirismo, al faccio ciò che in quel momento mi si presenta e decido seguendo qualcuno, in base puramente alle pulsioni.

Scompare il senso di colpa, la conflittualità e ciò ha come conseguenza di trovarci fronte sempre più degli adolescenti pulsionali. E il termine pulsione lo prendo proprio dal saggio di Freud, dove risalta che la pulsionalità deve essere controllata da un Super Io sociale, quello della civiltà, cosa che oggi non avviene.

Penso a Peter Pan: non occorre andare nell’isola che non c’è, perché gli adolescenti di oggi sono già dentro una realtà in cui un Super Io non c’è! E dove scappano? Su Internet. E certo non è un luogo di formazione perché trovate quello che volete e quando c’è qualcosa che uno vede e non gli piace per qualsiasi motivo, clicca e scompare…, un altro mondo.

Mi pare si possa dunque sostenere che la condizione attuale dell’adolescente è di essere un adolescente pulsionale.

La terza parola che avevamo preso dal saggio è violenza. Penso ci sia da fare una netta distinzione oggi tra violenza e distruttività.

Freud in altri saggi ha parlava del principio di distruttività o anche di pulsione di morte. Ne è nata una grande discussione, penso che oggi avremo modo di supportare l’idea di una pulsione di morte. Ora ci limiteremo alla distinzione tra violenza e distruttività.

La violenza è un agire con uno scopo e ciò vuol dire che raggiunto quello scopo la spinta violenta scompare. Un signore, geloso oltre ogni misura, ha identificato colui che vorrebbe portargli via l’oggetto di amore e usa contro di lui violenza per eliminarlo. Una volta eliminato, almeno in quel momento, non ha più la paura: lo scopo è stato realizzato.

La distruttività, invece non ha, almeno consapevolmente, lo scopo di eliminare qualche cosa che è causa di infelicità, ma ha in sé una sorta di imperativo: ‘muoia Sansone e muoiano tutti i Filistei’, ‘distruggiamo tutto’. Una piccola Apocalisse e noi la vediamo spesso nelle famiglie, proprio in quei casi della cronaca in cui si uccidono figli e poi ci si elimina. La distruttività è proprio il bisogno di eliminare e di eliminarsi, si distrugge un micro mondo ma, se fosse possibile, si vorrebbe distruggere tutto, la grande Apocalisse.

Oggi nel mondo adolescenziale, nei casi veramente estremi, si percepisce proprio il bisogno distruttivo, rompere qualsiasi cosa e se stessi, come se ancora una volta non ci fosse nemmeno una identità del nemico, l’identità del padre assente, non c’è un Super Io.

Non esiste una controparte o “un nemico da abbattere”, ma domina quella pulsionalità, la pulsione di morte di cui parla Freud. Ed è così che si pone la percezione della morte nel mondo e nel comportamento giovanile, perché il desiderio della morte e la distruttività portano alla morte.

La morte è considerata dall’adolescente spesso come la possibilità per diventare eroe. Sia la morte provocata, sia la morte auto-espressa, auto-agita, è qualche cosa che ha a che fare con gli dei. Ha un significato titanico perché la nascita e la morte erano una caratteristica del potere degli dei, nella classicità. L’adolescente addirittura li sostituisce.

Pensare che chi ha ucciso, giovane o adulto, avverta nell’immediato l’errore commesso, percepisca il pentimento, è sbagliato. I pentimenti sono dichiarati perché rappresentano una modalità di difesa, lo suggeriscono gli avvocati. Sapere denudare o leggere quel comportamento come comportamento nefasto, come immagine del male, avviene sì, ma è un processo molto lento.

Ricordo il un caso di Pietro Maso: è giunto alla percezione di un pentimento, e quindi di una visione di sé e del mondo diversa, dopo cinque anni. Allora aveva ucciso la madre e il padre per godere della eredità, oggi è un cattolico fervente. Era stato seguito da un sacerdote con una frequenza settimanale e poi da altre figure della cristianità, a dimostrazione forse che la conversione è possibile anche ai casi più estremi. Sono invece mancati i terapeuti nel senso classico del termine; però i preti qualche volta sanno anche farlo.

Il problema è il pentirsi di un gesto titanico, perché nessuno, attraverso l’uccidere, attraverso la Morte, diventa eroe. Gli eroi nel senso titanico, quelli che cambiano le cose.

Qualche considerazione conclusiva

Ho tratteggiato alcuni elementi a significare che oggi il saggio di Freud Il disagio della civiltà va riletto per il tempo presente e se a noi sembra che i meccanismi possano essere assolutamente validi, tuttavia vanno letti nel senso opposto: ecco perché inciviltà, nel senso che manca il presupposto della società che non c’è. È liquida, non ha punti di riferimento. Una società che non ha i padri, e sarebbe più corretto dire che non esiste più una famiglia. Un società vuota corrisponde ad una società assente. Ed è proprio il vuoto a creare ulteriore disagio: la mancanza del senso di colpa, la mancanza dei padri, la mancanza di una società.

Occorre coraggio a chiamare società una realtà che si fonda sul denaro. Conta il denaro. Il conto in banca. Uno vale per quello che ha. Una società del denaro. Una società del successo. E ciò significa che è centrata sul subito, adesso. Non si può parlare di successo futuro. Analogamente all’adolescente che chiede a papà il motorino, suona stonato rispondere : ‘Te lo compro quando hai finito la scuola’. Farà notare che a lui serve stasera, quando gli amici vanno con il proprio motorino da qualche parte e lui, senza, resta solo. Successo si declina al presente.

Questa è anche la società della bellezza. Ma non sulla bellezza di cui parlava Dostoevskij. Al principe Myskin, Dostoevskij mette in bocca queste parole: “La bellezza salverà il mondo”. Quella attuale lo distruggerà. Si tratta infatti della bellezza di superficie, della cute e delle sue forme.

Non è bellezza questa, poiché la cute non definisce una persona. Gli angeli erano bellissimi ma erano anche sapienti. Oggi gli adolescenti sono belli ma vuoti.

Mancano i principî . Vi è la precarietà dei legami. I padri non ci sono. Come si fa a educare in questa situazione? Ecco l’educazione impossibile.

Mi piace pensare che Freud oggi scriverebbe un saggio e credo lo chiamerebbe “Il disagio dell’inciviltà”, perché non c’è una società, mentre noi dobbiamo cercare di essere una società.

Che cosa si deve fare per questi adolescenti?

La risposta è che non lo so. So però che alcune cose bisogna farle, e di queste non ho dubbio. Bisogna che siamo in grado di esprimere un’autorità padre. 

Dobbiamo dimostrare di essere in una società che ha un futuro. La percezione del tempo nell’adolescente è cambiata totalmente. Non c’è né passato, né futuro. Come si può parlare di desideri senza futuro? Il futuro è una necessità, è come avere lo spazio, la dimensione che rende possibile il desiderio, e quindi anche la voglia di cambiare.

Questi obbiettivi appartengono al tema della educazione e dunque occorre stare attenti a non psichiatrizzare troppo gli adolescenti, non emettiamo troppe diagnosi. 

Dobbiamo guardare a quella società che non c’è. Il rischio è di fare dello psichiatra l’unico Super Io, quello che colpisce con le diagnosi. Oggi, guardando al mondo degli adolescenti, si nota una distanza sempre minore tra educazione e terapia. Davanti ritroviamo degli adolescenti che non hanno nemmeno avuto un Super Io con cui confrontarsi per la costruzione di un modello positivo o negativo, necessario per cambiare e per evolvere. Il problema è che davanti a noi ci sono persone adolescenti che non hanno avuto educazione. Allora dobbiamo usare la terapia come educazione, non trasformare l’educazione in psicofarmaco.

Il termine persona è fondamentale: ebbene in un adolescente è spesso ancora da fare tutta, e l’educazione diventa essenziale. L’educazione, non i mansionari, i protocolli: io penso che, di fronte a un adolescente, noi non dobbiamo rispettare niente, se non il suo diritto di crescere, perché l’educazione è un insegnare a vivere.

Un tempo l’educazione era una specie di decorazione: presentarsi bene, usare bene le parole, persino la forchetta. Non è più una decorazione, oggi. Oggi bisogna insegnare a vivere.

Gli adolescenti di oggi sono intelligenti, ma incapaci di gestire le pulsioni: torniamo così all’adolescente pulsionale. Non sono capaci di stabilire delle relazioni.

Come si fa a stabilire una relazione se non si è in grado di gestire le frustrazioni, e non si ha nemmeno davanti un padre che ti frustra, perché non c’è o è come non ci fosse.

Quante volte ai padri che mi chiedono ‘ Cosa devo fare a mio figlio?’ io dico : ‘Ma senta, vuole bene lei a suo figlio?’ ‘Ah, come faccio a non volergli bene?’. ‘Oggi l’ha chiamato? Sente il bisogno di vederlo? Perché se non ha bisogno di lui, come fa suo figlio a esprimere il suo bisogno per il padre?’ Ecco, manca addirittura la base di un confronto.

Terminando spero, spero che ricordiate che avete sentito parlare uno psichiatra, vecchio, che da 55 anni sta in mezzo ai suoi amati matti, il quale vi ha detto che c’è bisogno di conflitto, di Super Io, di educare e non di far terapia.

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