Decidere nell’ambito delle relazioni di cura: i vari fattori in gioco. Introduzione

Paola Marenco – Ematologa, Medicina e Persona

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In un corso intitolato “curare chi cura”, dopo la giornata sul bisogno (dell’operatore, oltre che del malato) e quella sulla relazione (sia tra professionista e paziente, sia nell’équipe e nella multidisciplinarietà), la terza giornata è dedicata a lavorare sulla responsabilità nella cura, che coinvolge temi inerenti decisioni e scelte da compiere. Questo in un tempo in cui la responsabilità appare come una grande assente, che si ha paura di evocare o al massimo lo si fa riduttivamente. Invece in medicina si sceglie sempre, si decide sempre, e anche quando non si vuole decidere. Si può decidere di non decidere, come ogni volta che opera la libertà umana, ma qui la conseguenza è immediatamente visibile e diretta. 

Un equivoco oggi diffuso, che peraltro conferma quanto appena detto, è che la parola responsabilità evoca in genere l’idea di responsabilità legale e quindi di medicina difensiva. Ecco, non è di questa che ci vogliamo occupare ora! 

L’operatore sanitario sia esso medico, infermiere, psicologo, fisioterapista o direttore sanitario è  un professionista, non un impiegato. Etimologicamente professione significa parlare di fronte, dichiararsi. Propone una specifica competenza, ma insieme alla conoscenza della materia esprime un’antropologia, una concezione dell’uomo che precede la scienza e l’etica. E a questo si lega anche il prendersi cura o meno di lui, dei suoi limiti, delle sue infermità, del suo bisogno. Strano pensiero della modernità e della post-modernità attuali ritenere che si possa curare senza riferirsi ad una concezione dell’uomo, dichiarata o implicita. Si decide comunque, e sempre in base a qualche criterio o scala di priorità: anche chi non vuole decidere, di fatto lo fa in base a leggi, procedure, deleghe e linee guida, magari non condivise o utilizzate in maniera impropria come vincolanti e non come suggerimenti da adattare a un soggetto. Una questione di responsabilità…

Quando ci si assume la responsabilità di una persona che domanda di essere presa in cura? 

L’attenzione del professionista inizia con lo sguardo. Prima ti devo guardare, decidere di guardare te negli occhi (non scrivendo al pc le risposte alle domande anamnestiche senza guardarti…) per considerare te persona sofferente e l’intero tuo bisogno, non solo la tua patologia. 

Occorre poi che ti “riconosca”, che possa riconoscermi in te, in quanto condividiamo la medesima umanità. Per curarti devo intimamente riconoscere che potrei essere io ad avere bisogno di cura. Ed è solo a livello di questa “comune vulnerabile umanità” che la relazione medico-paziente è veramente paritaria. Infatti malato viene da male aptus, malconcio, ed è una condizione che riguarda tutti, in quanto bisognosi di cura, di esser presi in cura da qualcuno. Per inciso: circa la competenza, la relazione di cura per definizione non può invece essere che asimmetrica. E fortunatamente lo è, altrimenti non potrei esserti utile! A questo inoltre si correla (cfr. Belardinelli) lo stabilirsi della fiducia, che compare e si sperimenta nel tempo.

Quando ti ho guardato e riconosciuto nella comune umanità, allora posso usare la mia libertà per prenderti veramente in cura. Questo fonda la relazione tra due libertà in gioco, al di là della prestazione. Mi assumo la responsabilità di curarti, sono a pieno titolo professionista.

Qui la parola responsabilità (che deriva da rispondere) assume il suo vero contenuto: rispondo a te, che hai bisogno e domandi di me. Responsabilità è che rispondo a te. Anche alla Direzione, alla Regione, certo: ma il primo mandato è occuparmi a curare te.  

Solo allora si possono considerare senza confusioni le conseguenze incluse nel concetto di responsabilità: decidere, scegliere. Come dicevo, in medicina si sceglie sempre: fare o non fare un intervento, un esame, una radiografia, una TAC o una Risonanza o nessuna delle due, una cura, quante compresse dare, quale antibiotico, un ricovero o una cura a domicilio, sentire o no il collega specialista per un parere, l’assistente sociale per una valutazione sul territorio, il Medico di medicina generale, e così via. Fino alle scelte più impegnative: di portare o no in rianimazione, di intervenire in maniera invasiva o no, di sospendere le terapie curative o tentare ancora… Scelgo per la responsabilità che mi sono assunto nella relazione di cura intrapresa, accettata, confermata ad ogni incontro che mi permette di conoscere te, con i tuoi desideri, il contesto di vita, il lavoro che fai, la tua famiglia, le paure…, oltre che le condizioni di cuore, rene, fegato e polmone.

Questo si traduce in azioni professionali e nell’organizzazione di percorsi di cura e dei luoghi stessi della cura: ad esempio, il consenso informato al trapianto di midollo. Nel nostro Centro è presente sin dal primo trapianto (1986). Ma lo abbiamo concepito come un punto di arrivo, e non di partenza, perché non è il consenso che fa la relazione, ma esattamente il contrario: è la relazione che permette un vero consenso informato. Infatti, sul piano organizzativo, il paziente che arriva al Centro Trapianto dopo un periodo di conoscenza, nel corso della sua chemioterapia ad es. per leucemia acuta, svolge un primo colloquio generale. Mentre si cerca il donatore adeguato, effettua una serie di accessi ambulatoriali al Centro con visite ed esami per valutare tutto quanto potrebbe costituire un problema o aumentare i rischi trapiantologici. Nel frattempo ci si conosce, anche con la famiglia, si stabilisce un rapporto di fiducia, ci si prepara a lottare insieme. Al termine di questo periodo ci si ritrova l’uno di fronte all’altro, con il familiare che il trapiantando vuole presente, e si quantifica il rischio, si rispiegano le procedure, si soppesano insieme rischi e benefici fino a decidere insieme la strada da percorrere. Per noi questo è consenso informato. Qui il paziente può porre la domanda: ma il rischio poi si risolve? E si sente rispondere che vi è un rischio anche di vita! Cosa oggi inaudita, contro le naturali difese dall’angoscia della morte (innominabile). A questo punto uno chiede la Cresima. Un altro pone una questione radicale: dottore, se fosse sua sorella lei lo farebbe? Siamo chiamati a metterci in gioco, ovviamente dati alla mano (cfr. la “relazione asimmetrica”). Mettersi in gioco significa esporsi, fino alla domanda di Giobbe: perché e perché a me? Anche se non ho la risposta, ci sto, mi pronuncio, rimango con te di fronte a una domanda che è anche la mia. Il rischio assunto e condiviso apre un tempo intenso che arricchisce la relazione di cura e rende il percorso più consapevole. Prima del trapianto questa continuità favorisce l’esperienza di essere insieme. Poi, durante il ricovero per il trapianto, si lotta insieme, scegliendo e difendendo ogni particolare. E dopo il trapianto è la stessa équipe a prendersi cura del paziente: se lentamente traluce la possibile guarigione, dall’altra parte compaiono anche i possibili  effetti collaterali o le complicanze, mentre riprende la vita solita (la famiglia, il lavoro). Ma non è più quella di prima. In caso di recidiva sarà all’interno della medesima relazione di cura che si prenderanno le decisioni, anche le più difficili. Tutto ciò si traduce a volte in piccoli aspetti organizzativi: un punto di riferimento, il farsi trovare, la continuità, insomma esserci e, in certi momenti, in punta di piedi. Una posizione che, tra l’altro, permette all’operatore incontri con ricchezze umane straordinarie, esperienze spesso sorprendenti. Ognuno di noi ne custodisce testimonianze preziose, la vera ricchezza del nostro arduo lavoro!

Altri esempi potrebbero essere fatti in vari campi. Ad es. analoga situazione vive il Medico di medicina generale, che del malato porta la responsabilità e spesso ha una pluriennale conoscenza di lui, del suo territorio di vita abituale, del suo contesto familiare, di come ha affrontato altre malattie: tutti elementi che aiutano a scegliere.

Oppure le scelte nel momento del fine vita, attraverso l’esperienza di un Palliativista, possono costituire un evidente esempio di responsabilità vissuta nella relazione di cura. 

Altrettanto interessante da capire è il processo decisionale di un Chirurgo che assume la relazione di cura come metodo adeguato a trattare il paziente, magari molto anziano e con polipatologie, al di là dei canoni valutati negli studi base delle linee guida sui rischi/benefici di un certo intervento.

Cosa significa per ognuno di noi operatori vivere nello specifico la responsabilità professionale?

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