“La presa in carico” della persona e la vita di relazione nell’esperienza di comunità
Paola Soncini – Caritas Ambrosiana Area salute mentale
1. Premesse
Una prima premessa riguarda l’utilizzo del termine “presa in carico”. Vorrei mostrare nel mio intervento come la comunità civile ed ecclesiale possano “prendere in carico”, nel senso ampio del termine, la persona affetta da malattia mentale e la sua famiglia.
Una seconda premessa è sulla realtà di Caritas Ambrosiana. Operiamo nel territorio della Diocesi di Milano, che ha un’estensione di 4.234 kmq con una popolazione che supera i cinque milioni di abitanti, circa metà Lombardia, residente nelle province di Milano, Monza Brianza, Lecco, Varese, una parte della provincia di Como e alcuni comuni nelle province di Pavia e Bergamo. Siamo un ufficio della Curia Arcivescovile della Diocesi di Milano denominato Ufficio per la Pastorale della Carità – Caritas Ambrosiana, all’interno del Settore per la Missione e la Carità. Le finalità della nostra azione sono bene espresse nell’art. 1 dello Statuto:
“La Caritas Ambrosiana è l’organismo pastorale istituito dall’Arcivescovo al fine di promuovere la testimonianza della carità della comunità ecclesiale diocesana e delle comunità minori, specie parrocchiali, in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica. La Caritas Ambrosiana è lo strumento ufficiale della Diocesi per la promozione e il coordinamento delle iniziative caritative e assistenziali, all’interno delle altre specifiche competenze diocesane”.
Art. 1 Statuto Caritas Ambrosiana
Il nostro intervento nei confronti delle persone con malattia mentale, o con altre situazioni di sofferenza, si articola su più livelli grazie alla presenza di 15 Aree di bisogno, fra le quali anche l’area salute mentale, che permettono un approccio integrato alla persona. Oltre alle 7 Caritas delle zone pastorali e le 74 Caritas dei decanati, nel territorio diocesano 854 parrocchie su 1107 hanno una Caritas parrocchiale. La presenza capillare sul territorio, là dove le persone vivono, passa anche attraverso i Centri di ascolto Caritas – circa 320 con 3.000 operatori volontari – il nostro braccio operativo che raccoglie il bisogno che la persona porta e la orienta ai servizi necessari in collaborazione con gli enti locali. Da sempre Caritas Ambrosiana ha scelto di non sostituirsi ai servizi, ma di collaborare con essi per la promozione della persona umana e del suo benessere complessivo, con una funzione di advocacy per dare voce di chi non ha voce. Credo sia importante esplicitare anche l’orizzonte antropologico nel quale ci poniamo che è quello dell’antropologia cristiana.
2. La presa in carico nella comunità
Concretamente il prendere in carico la persona malata all’interno delle nostre comunità è strettamente connesso alla vita di relazione e comporta l’operare su più livelli:
i. come sottolinea l’art 1 del nostro Statuto, Caritas ha una chiara funzione pedagogica e, in virtù di questa, una prima azione è quella di sensibilizzare e formare le nostre comunità su queste tematiche con lo scopo non di annullare, ma almeno di ridurre la tendenza alla stigmatizzazione, a lasciarsi influenzare dai luoghi comuni affollati di pregiudizi e spesso di emozioni poco gestite o impermeabili ai valori proclamati. Non possiamo pertanto dare per scontata né la conoscenza del problema della malattia mentale né la capacità di accoglienza da parte delle nostre comunità cristiane. Anche in queste realtà, quando si entra in contatto con un malato mentale, spesso prevale il desiderio di prenderne le distanze dimentichi che l’altro, malato, è una persona come noi con uguali desideri e paure. Con questa azione di sensibilizzazione e formazione vogliamo quindi favorire una lettura più corretta e una consapevolezza differente rispetto alla malattia mentale e alle persone che ne soffrono. Lo scopo della formazione non è infatti quella di trasferire conoscenze cliniche, ma di rendere più consapevoli che accanto alla necessaria cura a livello medico, la persona con malattia mentale spesso soffre l’esclusione sociale, situazioni di povertà, anche l’impossibilità della cura. Questo è il vissuto di nostri parrocchiani, vicini di casa, persone del quartiere. E a questo livello come Caritas possiamo dare il nostro contributo e operare in modo significativo. Ci adoperiamo per far emergere le risorse che una comunità possiede al suo interno per far fronte ai problemi che vive, per formulare le domande e trovare delle risposte nell’ottica dell’empowerment. Non basta agire a livello farmacologico, se la persona che sta meglio ritorna in un contesto sociale espulsivo nel quale si ritrova sola, senza casa e senza lavoro, stigmatizzata per la sua malattia. È necessario abbattere queste barriere, che potremmo dire “architettoniche”, perché le nostre comunità diventino più accoglienti verso i portatori di questo disagio e ciò richiede interventi su più fronti: sulla comunità e sul singolo, a livello ecclesiale e a livello civile.
ii. La malattia mentale non può essere affrontata in solitudine. Un ulteriore livello di azione si fonda allora sulla conoscenza e collaborazione con i servizi preposti alla cura. Gli operatori dei nostri centri di ascolto vivono sul territorio ove operano, lo conoscono bene e sono buoni costruttori di reti, reti che sanno mettere la persona al centro, capaci di promuovere un intervento integrato che sappia valorizzare le risorse possibili a favore del malato, per restituirgli i diritti di cittadinanza e la possibilità di una vita dignitosa pur nella sua malattia. Il costruire reti di supporto per la persona malata è un percorso lento, ma permette di aiutarla nella sua interezza, di prendersene cura. Per fare insieme e fare meglio accettiamo allora tempi un po’ più lunghi e fasi di progettazione un po’ meno veloci, potremmo dire una specie di slow-care. Come Caritas vorremmo promuovere una cultura di solidarietà e di cittadinanza attiva rispetto al disagio mentale.
iii. Accanto ad una formazione rivolta alla cittadinanza, che spesso facciamo coinvolgendo i colleghi delle Aziende Ospedaliere del territorio, è necessaria una formazione più specifica per chi sceglie di affiancare un malato mentale all’interno della propria quotidianità. I nostri volontari, infatti, sono solitamente persone senza una competenza tecnica. Con i percorsi formativi vogliamo favorire un saper operare nell’ottica dell’empowerment a livello di comunità e a livello individuale per ragionare non sulle persone con disagio psichico, ma con le persone che hanno un problema di salute mentale. Questa formazione dovrebbe far nascere e sviluppare nuove capacità, favorire un sentire più profondo e ampio. Potremmo dire che la formazione è tale se riesce attivare la circolarità fra elemento cognitivo nel dare informazioni e far conoscere quanto connesso alla malattia mentale, elemento affettivo nel far nascere o crescere un affetto verso colui che soffre per tale malattia, e un ultimo elemento, quello conativo capace di attivare la persona in un’azione verso l’altro così da invertire il moto spontaneo che a volte farebbe prendere le distanze dal malato per scegliere invece di andargli incontro. La formazione non può essere fine a se stessa riducendosi ad un esercizio intellettuale. Non è quindi sufficiente dare informazioni corrette, formare i nostri volontari significa accompagnarli nel fare esperienza, stare loro a fianco perché imparino, a loro volta, a stare a fianco del malato mentale, accogliere il loro vissuto emotivo per scogliere paure e perplessità. È una formazione che potremmo dire “a cascata”: formiamo volontari che a loro volta ne formano altri. È necessario sviluppare l’arte della vicinanza che non chiede solo cuore, ma anche intelligenza, capacità di lavorare insieme, di rispettare l’altro spesso confuso, paralizzato dentro. Come Caritas Ambrosiana garantiamo la supervisione ai vari incontri, offriamo un ascolto anche telefonico attraverso il nostro centralino diocesano e l’affiancamento per i casi complessi.
iv. Lo strumento privilegiato a disposizione per la presa in carico è la relazione, capace di coinvolgere in questo dinamismo di accoglienza e di inclusione sociale la comunità civile ed ecclesiale, i servizi e le altre realtà del terzo settore. Il prendersi cura dell’altro, la relazione che ne segue è in between, in mezzo fra la persona malata e colui che se ne fa carico, che se ne prende cura. È uno spazio intermedio in cui una soggettività si lascia educare dalla presenza dell’altro. Pur nell’autonomia fra i due partners, l’azione di uno dinamizza l’azione dell’altro, lavorando su uno cambia anche l’altro. Da qui la necessità di lavorare su di sé perché si ampli il nostro spazio interiore di accoglienza, spazio nel quale l’altro, il malato o la sua famiglia, possa trovare un tempo di riposo. Nel percorso di cura si è uniti dinamicamente e si cambia camminando insieme, anche chi presta la cura non resta uguale. A contatto con il malato mentale, spesso fai esperienza di come ti devi spogliare di tante sovrastrutture, perché l’altro ti mette a nudo e a volte ti restituisce quello che stai vivendo prima ancora che tu sia riuscito a metterlo in parole. Nel guardare le proprie parti irrisolte e magari accantonate nel tempo, si impara ad essere più umili, si è portati all’essenziale. Il contatto costante con le domande profonde della vita scava dentro le nostre interiorità, ci provoca e ci chiede di saper stare a fianco di una sofferenza di cui spesso non si intravede un termine. Questa è la grande fatica che viviamo nel servizio all’altro, ma come ogni crisi, c’è l’altra faccia della medaglia, la presenza di un’opportunità che possiamo accogliere o lasciar perdere: il lasciare che la nostra affettività sia educata dai propri valori di riferimento e non si limiti al semplice sentire, a quel sentire immediato che a volte ci farebbe fare un passo indietro invece che uno avanti verso la persona malata. Il saper orientare un affetto ad un significato cambierà anche il nostro modo di stare a fianco dell’altro sofferente. La scelta di vedere l’altro come persona prima che come paziente ci chiede infine di rivisitare le nostre mappe interiori rispetto all’immagine che ne abbiamo, di aggiornarle per non procedere per inerzia o con schemi rigidi e anacronistici, di ridirsi che cosa, al di là delle apparenze, rende l’altro persona come me, portatore di uguali diritti e doveri. È un percorso impegnativo, ma affascinante che si deve percorrere a livello personale e a livello comunitario. È allora un’esperienza di volontariato che ci inquieta positivamente nel senso che siamo sempre in cammino, che ci rende più umani, più simili a ciò che vorremmo essere: discepoli di Gesù, testimoni del Vangelo, persone di carità.
Tutto questo però non avviene spontaneamente. Qui entra in gioco la funzione pedagogica di Caritas: la nostra formazione dovrebbe favorire una trasformazione, esperienze di trasformazione che determinano un modo nuovo di ragionare, di pensare, che portano una nuova luce, una nuova logica, un nuovo approccio alla realtà. Si ha una conversione ossia la trasformazione dei criteri stessi e non solo un loro ampliamento a diversi livelli.
Chi opera nel campo della salute mentale sa bene come l’impegno profuso sia spesso di gran lunga maggiore dei risultati ottenuti. Questa ristrutturazione dei criteri per affrontare la vita si rivela allora necessaria per stare anche quando non si vedono cambiamenti, per imparare ad andare oltre i risultati immediati, per resistere alla pressione che alcuni malati ti fanno per convincerti che non vale la pena far alcuna azione perché tanto non cambierà mai nulla. Qui è necessario un cambio di registro per guardare l’altro, e se stessi, senza appiattirlo su un presente il cui futuro sarà solo una ripetizione del proprio passato. Affiancando non solo i malati ma anche le loro famiglie viviamo la fatica di tollerare queste frustrazioni, di resistere alla tentazione di cedere ad un’ottica assistenzialistica che paralizzerebbe ogni dinamismo fra curante e curato. È infatti faticoso coinvolgere l’altro in questo percorso di cui dovrebbe essere il protagonista, come è faticoso affiancare persone che vivono al margine della società e che afferiscono alla nostra area della grave emarginazione. La tentazione di ridurli ad “oggetto di cura” è sempre in agguato.
3. Quali sfide ci attendono
In conclusione: sono convinta che non sia possibile prendersi cura dell’altro, malato mentale e della sua famiglia da una parte, dei nostri volontari e dei vostri operatori dall’altra, se non si parte dalla cura della propria persona poiché non possiamo dare ciò che non abbiamo maturato nella nostra esistenza. Come potremmo accompagnare in un percorso di recovery e di speranza se non sappiamo in chi speriamo? O dove si fonda la nostra speranza? Come potremmo incoraggiare l’altro ad attraversare una fase di crisi e se le crisi che si sono affacciate sulla nostra vita non hanno aumentato la nostra capacità di resilienza? E ancora: come aiutare il malato dopo un esordio psicotico a ridefinire la propria identità, a ritrovare un equilibrio nella propria vita se non c’è un senso nella nostra o è carente la capacità di rileggere la propria esistenza in un orizzonte in grado di ri-significare anche gli eventi dolorosi della propria vita?
Qui gioca un ruolo determinante la visione antropologica che sottostà alle nostre scelte, che tutti hanno ma di cui spesso si ha poca consapevolezza e che quindi solitamente non si esplicita. Una visione antropologica ristretta ridurrà l’orizzonte nel quale leggere l’altro che chiede aiuto, rischiando così di appiattire e ridurre la sua domanda. L’antropologia cristiana, al contrario, credo ci permetta di allargare l’orizzonte nel quale vedere se stessi e l’altro nel rispetto delle diversità, grazie alla varietà di dimensioni che offre per la lettura della domanda che la persona porta senza doverla pertanto ridurre ad un unico livello. Una seconda sfida è allora di avere più consapevolezza della propria visione antropologia e di imparare ad esplicitarla.
L’esercizio quotidiano di prendersi cura dell’altro costruisce relazioni significative, di speranza. Così si edificano reti di sostegno preziose anche nei tempi di crisi, come quello attuale, dove le persone soffrono secondo diverse gradazioni – dal disagio psichico alla malattia mentale – ad esempio, per la perdita del lavoro o dei legami famigliari. La terza sfida è allora quella di arricchire le reti informali – di familiari, amicali, di vicinato – che promuovono non solo il benessere della persona malata, ma della comunità intera sviluppando una cultura di solidarietà concreta capace di contrastare stigmatizzazioni e pregiudizi.
E infine per noi, che siamo stati invitati da Papa Francesco a non appiattirci su un livello esclusivamente filantropico o sociale facendo concorrenza ad una ONG, un’ulteriore sfida è quella di aiutare le nostre comunità a fare un’esperienza diversa che possa permettere di sperimentare la logica nuova del Vangelo là dove si sceglie di essere a disposizione, a contatto con le povertà e le sofferenze che mettono a dura prova.
Possa essere l’accoglienza del malato mentale occasione per riflettere sulle domande profonde dell’uomo e per crescere nella carità.
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