La vitalità di un’organizzazione di cura tra soggetto e procedure

Bernhard Scholz – Docente e Direttore Associazione Scuola d’impresa, Milano

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Ho incontrato due o tre settimane fa un’ infermiera che in un ospedale d’oltralpe ha fatto un seminario nel quale le fu detto che la cosa più importante è non creare alcun rapporto affettivo ed emotivo con i pazienti, che la cosa più importante è che si riducano i tempi di intrattenimento con i pazienti durante e dopo le somministrazioni delle cure, in modo tale che tutto venga affidato alle procedure che l’ospedale prescrive, così che lei abbia meno sofferenza personale e i pazienti vengano curati secondo le logiche che la medicina prescrive. Questo è uno scenario che si fa sempre più strada per due ragioni: la prima è l’idea di rendere in questo modo efficienti i sistemi sanitari e l’altra, spesso dimenticata, è la debolezza del soggetto; la dott.ssa Soncini ha detto che non possiamo dare ciò che non abbiamo, per dare bisogna essere maturi, educati e aver fatto un percorso di vita e se questo viene meno, non possiamo meravigliarci del fatto che tante persone che lavorano in strutture sanitarie siano sempre più indebolite di fronte alle sfide che incontrano coi pazienti di varia natura, specialmente i malati mentali. 

Vorrei fare alcune osservazioni per permettere una valutazione e, ove possibile, anche un miglioramento delle procedure dentro le nostre strutture, perché l’esperienza virtuosa della Caritas purtroppo non è così facilmente replicabile dentro strutture ospedaliere e cliniche specialmente pubbliche; però non bisogna perdere la speranza e bisogna vedere quel che si può fare. Per comprendere qualche spazio di miglioramento e avvicinamento ad un percorso più virtuoso bisogna prima comprendere le cause delle problematiche. 

Parto dalla percezione della dicotomia che spesso crea la tensione fra procedura e persona: vicinanza-distanza; calore umano-freddezza procedurale; affettività-efficacia; soggettività-oggettività; espressività-limitazione; identità-anonimato. Questi sono i poli nei quali i bisogni della singola persona vengono o enfatizzati da relazioni umane o sottomessi a logiche organizzative. 

È evidente, e questa è la seconda osservazione, che noi abbiamo bisogno di relazioni, ma è decisivo che la relazione venga compresa nella sua natura. Possiamo osservare delle relazioni molto assistenzialistiche, paternalistiche o maternalistiche che si sostituiscono alla persona e tolgono la provocazione di mettersi in gioco personalmente. Tanti malati mentali hanno delle risorse che invece di essere tralasciate potrebbero essere spronate, se ci fosse una relazione vera. Dall’altra parte osserviamo delle relazioni caratterizzate da indifferenza, che creano quella barriera proposta alla nostra infermiera: non bisogna impegnarsi in una relazione ma rimanere in posizione neutra, quasi asettica. 

Qual è allora il primo scopo della relazione in un rapporto di cura? È l’affermazione dell’altro: la mia relazione con te, oltre ad essere un’affermazione reciproca e quindi anche di me stesso, è un’affermazione di te, io ti affermo, io ti considero un essere infinitamente importante. Se questo manca la relazione diventa, in un modo o nell’altro, alienante. Quindi per quanto riguarda la relazione tra un qualsiasi operatore sanitario, medico, psicologo o infermiere, e il paziente, si tratta del tentativo di creare una relazione che lo affermi, anche come soggetto della propria cura e non solo come oggetto di cura. Questo si riflette anche nella modalità con la quale aiuto l’altro a percepire la malattia, perché se io lo considero solo come un oggetto, la malattia verrà considerata un incidente di percorso che dobbiamo levare la più presto, e non verrà vista come qualcosa alla quale cerchiamo di rimediare, ma che possiamo considerare anche come un percorso di maturazione per la persona e quindi non solo come un male, un limite da subire o da cancellare, ma anche come un “dato” che devo e che posso affrontare. 

Quando la relazione con il paziente viene vissuta in questo modo non c’è solo un cambiamento dal punto di vista del singolo infermiere, medico, o psicologo, ma si evidenziano anche delle conseguenze a livello organizzativo e a livello delle procedure. 

La procedura infatti dipende dello scopo che voglio realizzare con la cura. Lo scopo della struttura sanitaria incide sulla procedura che realizza questo scopo e le azioni che ne conseguono, sia per il singolo, sia per il team di lavoro. È molto importante comprendere questo percorso che parte dallo scopo, passa per la procedura (potremmo anche dire il metodo) per arrivare alle singole azioni. Ogni procedura, qualunque essa sia, dipende dall’idea che ho dello scopo e quindi dal bene del paziente. Tutto le modalità operative dipendono dallo scopo che voglio realizzare, dal bene che intendo raggiungere con e per il paziente. Prima di discutere delle singole procedure, dobbiamo aver chiaro quale sia l’idea di paziente, l’idea di cura che sta all’origine delle procedure e dell’organizzazione in quanto tale. 

Facciamo un esempio per inoltrarci nel cuore della questione. Ci sono procedure che hanno come scopo di ridurre quasi a zero il rischio dell’impegno personale degli operatori, perché soprattutto in alcuni settori del mondo della sanità i rischi sono elevatissimi, quindi si danno delle regole per abbassare o annullare il rischio di possibili errori. Certamente è giusto che sia così, però c’è una misura: ci possono essere delle regole così rigide che la soggettività del singolo operatore viene annientata e ci possono essere delle regole che danno spazio alla soggettività; il necessario bilanciamento delle regole dipende dalla visione che la struttura sanitaria ha della persona, sia come operatore, sia come paziente. Se l’infermiera non deve stare un minuto di più dentro la camera del malato del tempo previsto per la somministrazione, e poi anche la somministrazione stessa viene rigidamente cronometrata, siamo al “fordismo” sanitario. 

Com’è possibile allora arrivare ad una cura che risponda alle esigenze di una relazionalità vera e di una efficacia indispensabile? 

A questo punto diventa evidente che ciò che viene identificato come il bene del paziente deve essere condiviso con gli operatori, perché loro possono riconoscere la necessità di alcune regole e procedure e al contempo mettersi in gioco personalmente per creare delle relazioni che valorizzino il paziente e le sue risorse personali. Senza una tale condivisione diventa difficile dialogare su una qualsiasi modalità operativa perché il dialogo rimane senza criterio condiviso che parte dallo scopo del lavoro. Tutto diventa opinabile e quindi inevitabilmente cresce la percezione che tutto sia imposto e regolamentato, senza che ci sia un “perché” valido e riconoscibile. 

Solo se esiste una condivisione dello scopo, se esiste una certa idea di paziente e di cura realmente riconosciuta diventa possibile che il singolo operatore possa rispondere in modo adeguato alle sfide del rapporto con i pazienti e delle loro malattie; solo in questo caso il singolo operatore può diventare veramente responsabile e solo in questo caso i diversi operatori possono veramente lavorare insieme. 

Nella sequenza scopo – procedura – azioni, il punto fondamentale è l’azione, ma l’azione come responsabilità della persona che agisce. Il punto di un possibile cambiamento, di un possibile miglioramento è proprio questo: la responsabilità del singolo. Cosa vuol dire responsabilità? Vuol dire che la persona che incontra il paziente risponde al bisogno del paziente con una sensibilità e un orientamento operativo cosciente di due cose: primo del bene del paziente e quindi il valore e l’utilità del proprio contributo per questo bene, secondo della necessaria interazione con altri operatori. 

Spesso il fatto che devo interagire con altri viene subito come un’imposizione e non come un potenziamento o come una valorizzazione del mio contributo. Lavorare insieme è già difficile di per sé, ma diventa ancora più difficile se non siamo coscienti dello scopo per il quale lavoriamo insieme, del valore del nostro contributo e del valore del contributo degli altri. Su questo occorre una grande chiarezza che spesso manca e non è detto che perché è stato scritto su una bacheca o su un manuale sia chiaro. Diventa chiaro quando, come ha detto prima la dott.ssa Soncini, le persone cominciano a riflettere sulla propria esperienza. Per maturare una responsabilità devo riflettere di tanto in tanto sull’esperienza che faccio, mi devo rendere conto come rispondo, con quale coscienza rispondo, quali sono le fatiche che questo comporta e perché vale la pena accettarle, quali sono le conseguenze di ciò che faccio, e tutto questo non genericamente ma in un paragone sempre con ciò che tutto questo ha come conseguenza rispetto al bene del paziente. 

Per una tale condivisone occorre un dialogo sistematico e continuo. Le persone non sono delle macchine a cui do dei comandi e poi loro eseguono in modo tale che tutto funzioni alla perfezione. Questo non è possibile neanche in una azienda manifatturiera, e tanto meno in una azienda sanitaria. Il dialogo per una condivisione dell’esperienza è assolutamente indispensabile ed è una continua ripresa di coscienza perché io sono un soggetto attivo che si relaziona con altri soggetti, in questo caso i pazienti, in modo tale che per ambedue nasca un beneficio più consistente possibile. Il vero dramma in tante organizzazioni è che le procedure vengono percepite come la sostituzione della responsabilità personale e non come un supporto alla responsabilità personale. Così l’operatore esegue un processo ma non è parte attiva di un percorso che dipende anche da lui.  È come se ci fosse l’idea di un processo lavorativo che potrebbe in qualche modo prescindere dalla persona nella sua soggettività. Quando vado ogni tanto nelle strutture sanitarie ho l’impressione che le persone non si sentano valorizzate ma si sentano esecutori, eseguano delle regole e procedure, ma non si sentano come persone importanti, decisive, perché insieme ad altri possano contribuire al bene del paziente. 

Una ultima osservazione. Tutte le organizzazioni hanno una malattia “genetica”, che è quella di tendere all’autoreferenzialità. E più l’organizzazione è grande più questa malattia emerge. Così l’impresa non si orienta più verso i clienti, ma verso se stessa. L’ospedale non viene più gestito in vista del paziente ma per un funzionamento burocratico e amministrativo. Questo difetto va affrontato positivamente, chiedendoci sempre quale sia il contributo per il bene del paziente. Tutte le organizzazioni sono nate per rispondere ad un bisogno, per uno scopo fuori di sé, ciò a cui servono. Mettere al centro questo scopo che sta “fuori”, portare l’attenzione sullo scopo del servizio che si dà, ha un vantaggio enorme, quello di evitare delle contrapposizioni interne, perché il dialogo e la discussione ruotano sempre intorno ad un criterio “esterno” riconosciuto essenziale. In questo modo i diversi punti di vista possono convergere, tenendo conto delle esigenze di ciascuno. 

Adesso c’è da un po’ di tempo in Inghilterra una grande discussione partita dal nuovo ministro della salute che cerca di cambiare l’impostazione sanitaria “business oriented” per renderla più “patient oriented”. Sembra che questo orientamento sia economicamente più debole perché più costoso. Ma in verità una tale centratura sul paziente porta un beneficio altrimenti non raggiungibile: le persone guariscono più velocemente, stanno meglio, hanno effetti collaterali inferiori, quindi nel complesso le cure sono molto più efficaci. Occorre dare più tempo: all’inizio questo sembra una “perdita” di tempo ma si rivela invece essere un grande guadagno se non ragioniamo a breve termine, all’esito immediato, ma a medio lungo-termine. 

La relazionalità crea sempre una persona più forte, più capace di affrontare le sfide della vita, quindi anche le malattie e le difficoltà fisiche o psichiche. L’assistenzialismo, anche quello più efficace, genera sempre dei costi complessivi più elevati che una assistenza vera basata sulla responsabilità reciproca.

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